L’ispettore Fortunato
di Marcello F. Turno (Alpes Editore, 2022)
Luca Trabucco
Leggere questo libro di Marcello F. Turno, espone ad una esperienza complessa, soprattutto per chi, come me, ha un’età per cui i tempi della storia qui narrata corrispondono a quelli della propria origine, e nel contempo ha la ventura di fare lo psicoanalista.
Come scrive Simona Argentieri nella quarta di copertina, l’atmosfera dei primi anni ’50 è così “naturale” nella scrittura di Turno che ci si ritrova collocati nella quotidianità della nostra infanzia, o, al limite, a guardare, rapiti come se si fosse in una “macchina del tempo”, uno spaccato della vita di allora in una trasmissione in bianco e nero che si può trovare oggi nelle “teche RAI”. Un passato che al contempo è memoria, è quindi ri-creazione, o forse una di quelle aree del nostro mondo interno in cui ci si può permettere di “non-crescere”.
Si può leggere così questo racconto a diversi livelli: quello del “noir”, dall’intreccio “poliziesco”, piacevolmente sviluppato, anche per la felice immagine del “protagonista”, l’ispettore Giacinto Fortunato, e per l’intreccio emozionante e ben congeniato.
Questo personaggio si propone come una figura diversa dai canoni noti dei vari Maigret, Sherlock Holmes, Queen, Marlowe, Montalbano, e via di seguito. L’autore ci offre un personaggio calato nella realtà, sia nel senso della realtà storica, che quella intima. La realtà, se vogliamo, della banalità, non in un senso deteriore, ma quella delle cose piccole e quotidiane, come indovinare alla Sisal il risultato di Palermo-Spal, il malumore per un matrimonio “stanco”, e il farsi strada di un nuovo amore. E poi un guardare alle cose con una mentalità “semplice”, non appesantito da conoscenze, o da ispirazioni, o da “metodi” più o meno suggestivi. È proprio questo atteggiamento di fronte alle cose la “cifra” di Giacinto Fortunato: le guarda, con attenzione, cercando i fatti, talvolta distratto dalle apparenze, ma determinato a perseguire la conoscenza.
Come dicevo sopra è anche uno spaccato di un periodo storico, con tutte le sue immagini quotidiane, i piccoli miti privati, e quelli più socialmente condivisi, e la sua “atmosfera”, anche particolarmente romana, legata alla nascita di “Cinecittà”, con tutte le sue sfavillanti illusioni, il mito della “popolarità”, il successo, il benessere, il trionfo dell’apparire sull’essere (forse strascico, ed una “volgarizzazione”, dell’estetismo decadente dell’inizio del secolo?).
La “ricostruzione” storica, oltre al tratteggiare un’atmosfera specifica dei tempi, per cui l’autore è capace di farci “vedere” i diversi personaggi nell’abbigliamento e nell’apparire fisico proprio dell’epoca, si affida alla cura del particolare, come la veridicità della schedina del Totocalcio, o Sisal, l’Alfa 1900 della polizia, la prima “pantera”, e come tale nera; l’Hasselblad 1600F, il modello di punta tra le inarrivabili macchine fotografiche da professionisti, con otturatore a tendina sul piano focale che arriva alla velocità di 1/1600 di secondo, mentre il modello “base”, se pur altamente professionale, era la 1000F, con velocità massima di 1/1000 di secondo, e appartenente ovviamente ad un “ricco”.
L’intera vicenda la si può leggere come metafora, della eterna relazione tra potere, cinico, e ingenuità, o come metafora del potere dell’illusione, di cui in pratica tutti i personaggi in fondo sono vittime.
Ma nello sviluppo dell’intreccio ci sono alcuni particolari che mi hanno colpito, in quanto vanno a sottolineare, discretamente, delle questioni che vanno a riprendere quelle dell’ascolto analitico, e quindi, avendo in mente la semplice formulazione di Bion per cui analisi reale è vita reale, il nostro rapporto con la realtà, e il nostro tentativo di comprenderla, e afferrarla, se pur fugacemente.
Ovviamente, trattandosi di un poliziesco, cercherò di parlare delle mie impressioni senza far riferimento alle vicende del racconto per non – come direbbero i nostri ragazzi oggi – fare “spoiler”!
Nel susseguirsi degli avvenimenti l’ispettore Fortunato si trova di fronte ad eventi, di fatto l’uccisione di due ragazze di provincia trapiantate a Roma, all’inseguimento di un “sogno” di benessere e di riscatto, dove lui – e di conseguenza il lettore inevitabilmente coinvolto nel suo punto di vista – con lo sforzo che questo comporta, si muove tra “contenuti manifesti” e “contenuti latenti”, una scena che rivela qualcosa, ma che, se guardata cambiando “vertice”, appare completamente “altra”: inversioni “figura-sfondo”. Da varie parti ci sono fatti che vogliono essere “imposti” con un certo senso, che tendono ad obbligare il pensiero in una direzione, sia nel senso dell’imposizione di “vedere” che di “non vedere” qualcosa, in ogni caso verso il travisare.
Inoltre un elemento saliente, che sollecita in modo rilevante l’ispettore Fortunato, e il lettore, è quello della continua “lotta” tra il “pregiudizio” e la conoscenza. Un elemento che percorre in modo diverso i personaggi coinvolti, sia i potenziali “colpevoli” che le vittime, ma che finirà per porre una precisa distinzione tra chi di fronte ad esso capitola, divenendo così colpevole, o vittima, o chi cerca di non cedere, non più di tanto, per lo meno. Come in qualsiasi attività umana di conoscenza della realtà/verità, l’ostacolo maggiore non è la “resistenza” della verità a farsi raggiungere, che di fatto non esiste, in quanto la verità è quella che è, e non deve fare nulla per essere o non-essere, ma lo è invece la falsa conoscenza, il pregiudizio, l’ideologia, la “concretizzazione dei significati” (prodotto della funzione anti-α, v. Sandler, Fatti, Alpes 2022), il paralizzarsi in certezze che possono essere “giustificate” in mille modi – etici, ideologici, religiosi e politici, pseudo-scientifici. È la lotta contro tutto questo, il pregiudizio ideologico, quello imposto dall’esterno, o quello che ognuno di noi si ritrova internamente, compreso Giacinto Fortunato, che porterà a risolvere l’enigma. Almeno uno, gli altri … si vedrà.
La determinazione dell’ispettore Fortunato ad andare dietro ai fatti, e non alle apparenze o alle imposizioni di senso, lo porta via via ad avvicinarsi ad una realtà del panorama degli eventi sempre più vasto, senza trascurare particolari sfuggenti, tangenziali, ma alla fine essenziali alla comprensione. Non è un compito facile, quello che si dà il nostro ispettore, quello di restare aderente alla semplice “verità”, di allargare il proprio sguardo senza disperdersi in una visione caotica di elementi particolari ma senza legami con la trama principale, ma di avere un “inconscio” riferimento a delle “costanti” che permettano di significare i dispersi riferimenti. E, come dicevo prima, anche restare aderente alla “verità” dei fatti contro i suoi stessi “pregiudizi”.
Credo che chi, come l’autore e il sottoscritto, faccia di professione, oltre che il lettore di “gialli” anche l’analista, riconoscerà in questo percorso dell’ispettore Giacinto Fortunato, vicende molto simili a quelle che accompagnano il nostro lavoro quotidiano. La scrittura di un racconto di questo tipo, da parte di un analista, in questo caso mi sembra non essere viziato per nulla dalla conoscenza delle “cose analitiche”, ma è felicemente autentico, un racconto di un narratore. Così come sono profondamente analitiche le opere di narratori che di psicoanalisi non sanno nulla (mentre a mio avviso sono spesso noiosi i racconti di narratori “psicoanaliticamente informati”), in funzione del fatto che la “funzione psicoanalitica della mente” è attiva nella mente umana a prescindere dal fatto che a un certo momento sia nato un Freud per rendere questa funzione fruibile in modo più chiaro come prassi terapeutica.
Se, come ebbe a dire Bion, la verità è l’alimento di cui la mente ha bisogno per crescere, la ricerca della verità, che il racconto poliziesco mette in scena, diviene metafora di un processo che dovrebbe portare ad una estensione della capacità di stare in contatto con la realtà e sfatare illusioni e allucinosi. Il racconto di Marcello F. Turno ci porta con leggerezza, da un lato, ma dall’altra con “rigore” a ripercorrere tempi e problematiche eterne, ma in particolare a noi, nati in quegli anni, estremamente familiari.