Rita Corsa, Lucia Monterosa (2015)
Limite è Speranza. Lo psicoanalista ferito e i suoi orizzonti
Edizioni Alpes
(Nell’Aldilà…) sono immortali,
non se ne andranno mai più…
si muovono, mangiano bevono eccetera
vivono quasi…
per di più non conoscono la speranza
che è il più malvagio dei supplizi
non hanno il dolore
non hanno ospedali, funerali, cimiteri, tombe. Gente fortunata, no?
(Dino Buzzati, Poema a fumetti)
L’intenso testo di Corsa e Monterosa tratta al fondo dell’esistenza e potenza dell’inconscio, dell’impossibilità di mentire e della comunicazione profonda che si realizza tra paziente e analista, ma anche, e soprattutto, della bellezza di questa comunicazione.
E’ un libro sul limite, sulla morte come limite, come limite necessario, grazie al quale, come esprime quasi poeticamente Buzzati in ex ergo, nella vita facciamo l’esperienza della speranza.
Il testo, ricchissimo di riferimenti storici e di una bibliografia amplissima, approfondisce questi aspetti fondamentali della vita: la malattia e la morte nei vissuti dei pazienti e degli analisti, attraverso pagine a volte intensamente emotive e coinvolgenti.
La domanda sembra essere: come si rapporta il paziente, e come l’analista, davanti a questo limite invalicabile?
E’ proprio un paradosso considerare il vissuto del limite una speranza?
Se Freud ha parlato al fondo della paura della propria morte come di un equivalente dell’angoscia di castrazione, cosa questo tipo di angoscia smuove nell’analista? Cosa è per l’analista la castrazione data da un limite che è impossibile eliminare, ma che si deve inevitabilmente affrontare? Quali fantasie smuove e come queste incidono nel controtransfert dell’analista al lavoro nella stanza di analisi?
Come interpretare queste paure quando il paziente – o l’analista – affronta il timore concreto e realistico della fine della vita? Corsa e Monterosa parlano di quei loro pazienti che si sono ammalati e che hanno avuto bisogno di essere accompagnati ad affrontare questo limite. Corsa, che ha già pubblicato un interessante lavoro sul tema dell’analista che si ammala, qui si chiede come mantenere viva la speranza? C’è una speranza possibile anche alla fine della vita? E l’analista riesce a tenere dentro di sé la speranza oppure nel farlo cede ad un’illusorietà inutile e negativa? Cosa è la speranza?
Il testo, che è profondamente psicoanalitico proprio nella sua struttura, non risponde apertamente a tutte queste domande, ma le tiene in conto con grande forza, approfondendo e aprendo continui link sulle tematiche più diverse che si espandono dai pensieri psicoanalitici sulla morte in Freud, Spielrein e Jung, alle riflessioni sul controtransfert, sulla self-revelation e self-disclosure, esplorando gli orizzonti dell’arte, del bio-tech, per approdare ad un discorso articolato sulla speranza. Potremmo dunque dire che il libro, che limita la sua analisi alla prospettiva della malattia fisica e della morte, permette comunque molti stimoli e suggestioni sulle quali riflettere ed espandere il proprio pensiero.
La miglior recensione del libro è per questo il titolo estremamente sintetico: Limite è speranza.
In quella “è” con l’accento sta racchiuso il segreto della ricchezza di questo testo.
Noi siamo abituati a voler superare i limiti, è dell’uomo questo desiderio, questa sfida.No limits sembra essere la cifra del nostro tempo, quasi un bisogno di allontanare l’unico limite invalicabile che l’essere umano non riesce ad eliminare: la morte. Ad estremi successi nel mondo della tecnologia, delle possibilità di comunicazione, della globalizzazione, fa da contraltare l’emergere di una violenza primitiva, rudimentale e basica. Il no limits viene costretto a confrontarsi con il limite di mentalità totalmente diverse dalla nostra, impensabili, con stili di vita e di pensiero incomprensibili e verso i quali solo le parti più primitive di noi sanno dare una risposta… violenta.
Tutto questo entra nella stanza di analisi, prima nei nostri pensieri e in quelli del paziente, e poi negli aspetti di concretezza come la difficoltà a pagare le sedute, a tenere il lavoro, a tenere una residenza stabile, a mantenere, da parte nostra, un setting rigoroso. A portare avanti l’analisi…
Personalmente credo che sia proprio in queste nuove forme di limite, in questo loro interpellarci, nel nostro essere disponibili a soggiornare nel limite, senza evitarlo o negarlo, come fanno Corsa e Monterosa, che possiamo scoprire la speranza, quella speranza fatta di creatività, di quei nuovi pensieri che emergono durante le sedute. ‘La morte mi dovrà trovare tra i vivi. Mi dia una mano a prepararmi’…” dice una paziente con una malattia allo stadio terminale.
La speranza io credo sia fatta di questi depositi di ricordi, pensieri, riflessioni, paure ed ansie che vengono messi nella nostra mente, forse e soprattutto nel nostro cuore perché toccano i nostri affetti, si intrecciano con le nostre emozioni, si avvinghiano ad esse.
Se una paziente invita l’analista a non adoperare la parola “speranza” perché gli imbrogli non le sono mai piaciuti, in quanto la speranza è una miracolistica illusione, è proprio nell’eludere l’area menzognera che si costituisce un ambiente emotivo di attesa partecipe nella sincera reciprocità. E’ nell’essere entrambe vive mentalmente che si esprime la speranza, da differenziare dalla “speranza disperata” e dal “senza speranza”, in quella sorta di salto epistemologico necessario, nel cambio di prospettiva che ci permette di sentire come la speranza possa esistere. Freud, pur essendo sfiduciato dal valore dell’uomo, ha operato eroicamente nella speranza che la sua creatura, la psicoanalisi, sopravvivesse e si affermasse nel tempo. Oggi, ci si chiede nel libro, “qual è la speranza che accende la psicoanalisi contemporanea?”
Penso sia un compito per tutti noi cercare una risposta anche se, nel libro, abbiamo l’appassionata postfazione di Adamo Vergine che articola un interessante tentativo di risposta: “Personalmente sono convinto che la speranza sia importante per l’analisi… potrebbe nascondere incongruità deliranti, ma ciò proviene da un tipo di speranza che si costruisce nella coscienza” e qui credo sta la cifra della differenza… – “quella di cui parlo invece si forma a nostra insaputa e proviene dal raggiungimento profondo di un’unità empatica che fa sentire analista e paziente uniti nell’investire se stessi e il mondo”. La speranza, aggiungerei io, di poter pensare che anche nella fine ci sia vitalità, che in quell’ultimo respiro con cui lasciamo il nostro esistere, possa venire rappresentata una condensazione di speranza.
La speranza credo, e la lettura di questo libro ci porta a riflettere in tal senso, consiste nel mantenersi vivi psichicamente, nell’alimentare la vitalità della mente consistente nei continui scambi e oscillazioni con le parti inconsce di noi stessi. Monterosa approfondendo i vissuti nei confronti della morte, sia di Freud, relativamente al cancro che lo aveva colpito, che di Bion durante la prima guerra mondiale, si occupa delle parti psicotiche. Ponendo così la questione se sia solo nella parte psicotica che viva l’autodistruzione. Possediamo aspetti autodistruttivi coscienti? La speranza, depositata in aspetti inconsci e non frutto di illusioni, ha la capacità di bilanciare gli aspetti blindati e autodistruttivi così da tenerci, non solo vivi, ma vitali e capaci di un pensiero germinativo? E’ forse la creatività a costituire le fondamenta della speranza?
Vergine sottolinea come sia la dimensione estetica della mente dell’analista a predisporre all’ascolto profondo e la ragione a teorizzare. Ma, aggiunge, senza ampia esperienza estetica “sarebbe come parlare della vita al di fuori della vita”!
Pellizzari nella prefazione afferma che la creatività umana nasce proprio dalla trasformazione dell’angoscia in speranza come ricerca inesauribile del pensiero e della conoscenza”.
Concludo questa recensione con tante domande, più ancora di quelle formulate nel testo, in un testo così complesso che se ne dovrebbe scrivere un altro per discuterlo tutto (Vergine) e quindi vi lascio al coinvolgimento di una lettura che non vi lascerà tregua.
Ambra Cusin
Maggio 2015