“L’età straniera”
di Marina Mander (Marsilio, 2019)
Recensione a cura di Elisabetta Marchiori e Anna Talamini
“L’altro è lo specchio nel quale ci guardiamo o nel quale veniamo guardati: uno specchio che ci smaschera e ci denuda e del quale facciamo volentieri a meno”
(R. Kapuscinski; 2007)
Il titolo di questo straordinario romanzo di Marina Mander, tra i dodici finalisti del premio Strega 2019, evoca con due sole parole il cuore vivo del racconto: l’adolescenza, in tutte le sue infinite sfumature. Una fase “straniera” della vita che costringe al confronto con parti sconosciute di sè, ancora in divenire, e con l’estraneità dell’altro. Ma quell’aggettivo, declinato al maschile, mette in gioco anche quanto di “straniero” c’è nel mondo che ruota intorno a Leo, il diciassettenne protagonista del racconto, e a tutti noi, che ci può far sentire in una sorta di “stato d’assedio”, che alza muri invece di aprire porte e porti.
Leo uno studente di liceo classico, uno “nato con l’aoristo in bocca”, si descrive come taciturno “un soprammobile un po’ ingombrante, con le fattezze di Kurt Cobain. È alle prese con la difficile elaborazione della perdita del padre, affetto da un disturbo bipolare, “la malattia degli alti e bassi”, quella che segue l’andamento della borsa, morto suicida pochi anni prima. In questo vissuto di vuoto e di perdita viene introdotto di forza Florin, un suo coetaneo rumeno. È la mamma di Leo, quella con “il nome di una pizza”, a sistemarlo nella camera del figlio, senza preavviso.
Margherita, che fa volontariato e soffre di una sorta di “coazione ad aiutare il prossimo”, non vuole abbandonare Florin al suo destino quando finiscono i fondi per un progetto di inclusione indirizzato alla lotta contro la prostituzione minorile maschile. “Le ha fatto più tenerezza di tutti” quando le ha chiesto “ce l’hai una merendina?”. L’infanzia che si fa largo nell’adultità forzata e perversa del sesso a pagamento, quella parola “merendina”, inaspettata e “fragile che ha bucato l’asfalto”.
Leo racconta la difficile convivenza, tra le mura della sua piccola casa, con Margherita, il suo compagno Antonio, il tassista soprannominato “Tango-12 – in 2 minuti” e “il fratello in prova” Florin.
Il libro ha la tempra e la consistenza di un lunghissimo colloquio con un adolescente e si affronta al meglio se ci si predispone con la curiosità e l’attenzione che spetta all’adolescenza, scevri da giudizi e pregiudizi, della condivisione della sua fatica e sofferenza. Per godere del libro di Marina Mander è necessario aprirsi a quel piacere di cui parla Goisis (2014) e alla dimensione libidica del rapporto con l’altro che consentono apertura e disponibilità verso i passaggi più difficili e dolorosi della relazione.
Leo e la sua visione caustica del mondo si possono accostare a James, il protagonista di “Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile” di Peter Cameron (2007). Sono due ragazzi che riescono a portare il lettore dentro alla complessità della fase che stanno attraversando, raccontando in prima persona, per passi, una crescita psichica fatta di piccoli passi e molti gesti che il più delle volte hanno effetti disastrosi sul contesto attorno a loro.
Con rapidità si susseguono passaggi che si muovono su registri diversi: volgarità, tenerezza, violenza, ironia, lucida capacità di guardare il mondo e bisogno di uno sguardo rivolto su di sè. Questi sono inframmezzati dai sonniloqui di Leo che, nel sonno, si ritrova a inscenare un processo in cui è interrogato, come imputato, presunto colpevole della morte del padre. “Vivo in una nuvola di battibecchi, abito in una gabbia di pappagalli e, più mi sforzo di tacere, più la mia testa blatera per conto suo un incessante contraddittorio”.
Evidente in tutto il racconto l’intermittenza nel processo di crescita dell’adolescente di cui parlava Senise (1990), quell’alternarsi di ritirate e successi, di slanci e distruttività, di balzi in avanti e regressioni. Leo sa essere insieme fragile e dissacrante, il suo sguardo implacabile e distaccato sul mondo gli consente di vedere i dettagli di ogni cosa e di ogni persona, ma non riesce a rivolgerlo dentro di sé.
Leo analizza, pensa, rielabora tutto, ma per lui è troppo difficile affrontare la nostalgia e il senso di colpa per un padre con il quale desidera e insieme ha il terrore di identificarsi, troppo doloroso il confronto con i coetanei che gli sembrano in grado di crescere come lui sente di non saper fare.
Leo riesce a guardare se stesso attraverso Florin come il Perseo raccontato da Calvino (1993) riesce a tagliare la testa di Medusa “senza lasciarsi pietrificare” guardando il riflesso di lei sul suo scudo di bronzo. È in questo modo che lo specchio ha la funzione di mitigare l’immagine consentendo a Leo di affrontarla “spingendo il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio”.
La scrittrice ci presenta in modo convincente Leo e Florin come l’antitesi uno dell’altro. Florin è piccolo e scuro come un vampiro, non parla, chissà se pensa, ma agisce, è certificato dalla società e da Margherita come in diritto di portare una sofferenza. Leo è alto e biondo, sputa sentenze, sicuramente pensa molto, è “malato di niente, che è uguale a sano”. L’immagine che Florin rimanda a Leo è ora “opaca e ignota” ed è questo il motore che “gli consente di chiedersi, sgomento, chi sono?” (Giaconia, 2010)
La storia si svolge come un percorso di avvicinamento a ostacoli tra i due ragazzi, che va di pari passo con l’elaborazione del lutto. Fino ad un certo punto Leo si trova ad impiegare strenuamente ogni sua energia per tenere a distanza Florin, quando si accorge di avere almeno due cose in comune con lui: la prima è l’incertezza piena di paura della fase di passaggio che stanno vivendo, avvicinandosi all’età adulta, estranei a se stessi e stranieri per l’altro, la seconda è l’essere orfani, ad affrontare da soli la separazione e la perdita, a fare da genitori a se stessi.
È l’incontro con un altro discreto, lo specchio in negativo di se stesso, che per Leo diventa catartico, che lo aiuta a considerare un punto di vista che non è il suo, a mettere insieme le diverse parti che ha dentro e a farle cooperare con il fine di crescere ed emanciparsi. Sembra quasi che quel vuoto lasciato dal padre si trasformi in spazio da riempire gradualmente dalla presenza di quel fratello acquisito, che si trasforma a poco a poco da nemico in alleato.
Leo e Florin reagiscono l’uno all’altro e alla vita come sanno e come hanno imparato, mostrando quel senso di estraneità e solitudine che sono ben noti a chi frequenta gli adolescenti anche per mestiere, insegnanti, educatori, terapeuti.
Emerge chiarissimo, nello svolgersi del racconto, quel senso di distanza da tutto e da tutti che emana dall’adolescente quando è in difficoltà, l’idea che nessuno possa davvero capirlo e raggiungerlo, non certo la “terapeuta culona”, non la madre vedova con il suo vuoto da colmare, non i coetanei idealizzati.
Nei momenti in cui Leo e Florin sono insieme si apprezza con loro il bisogno adolescenziale di uno spazio vivibile, tranquillo, con qualcuno accanto che sappia essere lì con discrezione, attenzione e pazienza, in ascolto, che sappia capire senza dire di aver capito, che sia in grado di immedesimarsi. Sono questi gli elementi che consentono l’avvicinamento e l’incontro, anche nella cura dell’adolescente, al riparo da soluzioni rapide e preconfezionate. L’adolescente più di ogni altro tipo di persona, chiede di condividere un’esperienza, di allontanarsi momentaneamente da dogmi e certezze, per coltivare una sensibilità soggettiva che consenta, se serve, di improvvisare (Pellizzari 2002).
L’autrice dedica questo libro “ai profughi di ogni dove” accostando il viaggio di Leo dentro se stesso alla migrazione di Florin da un paese all’altro, entrambi in cammino verso luoghi insicuri e sconosciuti, sia del mondo esterno che di quello interno.
È la loro umanità, sono le loro storie di persone in divenire a cui la Mender vuol dare corpo e voce, accettando l’estraneità esattamente per quello che è e rispettandone l’inconoscibilità. È necessario, per accogliere l’estraneo e lo straniero che è dentro e fuori di noi entrare in una dimensione di pensiero, andare oltre quella emotiva ed istintiva, che può arrivare a legittimare non solo il “fare del bene”, ma anche l’odio.
In perfetta sintonia con tematiche politiche e sociali di scottante attualità, la Mander scrive del mondo dell’adolescenza con grazia, umorismo e innata competenza “psicoanalitica”. Riesce a spostarsi con estremo equilibrio tra i due registri della realtà e della fantasticheria e, prendendo spunto da un fatto reale e da esperienze personali – come la storia della merendina – rivela una intima e profonda ricerca di quel Sè adolescente e vitale che ogni lettore può riconoscere, senza il filtro di interpretazioni.
Riferimenti bibliografici:
Calvino, I. (1993), Lezioni americane. Mondadori, Milano, 1993.
Cameron, P. (2007), Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile, Adelphi, Milano, 2007.
Giaconia, G. (2010), Prefazione in La seconda nascita di Pellizzari, G .FrancoAngeli, Milano, 2010.
Goisis, P.R. (2014), Costruire l’adolescenza, tra immedesimazione e bisogni. Mimesis, Milano, 2014.
Kapuscinski, R. (2006), L’altro. Feltrinelli, Milano, 2007.
Pellizzari, G. (2002), L’apprendista terapeuta. Bollati Boringhieri,Torino, 2002.
Senise T. L. (1990), La rappresentazione del Sé e i processi di separazione e individuazione nell’adolescente, In: Aliprandi M. T., Pelanda E., Senise T., Psicoterapia breve d’individuazione. Fetrinelli, Milano.