Cultura e Società

“Le transizioni” di P. Statovci. Recensione di D. Federici

24/05/21
"Le transizioni" di P. Statovci. Recensione di D. Federici

LE TRANSIZIONI

di Pajtim Statovci

(Sellerio ed. 2020)

Recensione a cura di Daniela Federici

 “Era divenuto l’imperatore del mondo intero.

Si burlò delle proprie fantasticherie, ma non riuscì a bandirle,

simili a locuste gli si precipitavano addosso.

Trucchi magici che violavano le leggi della natura,

posizioni misteriose, amuleti e incantesimi

che toglievano il velo a ogni segreto

e gli conferivano poteri infiniti.”

I.B. Singer Il mago di Lublino

 

Posso scegliere cosa sono, posso scegliere il mio sesso, la mia nazionalità e il mio nome, il luogo di nascita, semplicemente aprendo la bocca. Nessuno è tenuto a rimanere la persona che è nata, possiamo ricomporci come un nuovo puzzle. Però bisogna essere preparati. Per vivere innumerevoli vite, devi essere in grado di coprire le menzogne con altre menzogne per evitare il maelstrom che si scatenerebbe se venissi scoperto.

Bujar è un adolescente a Tirana, la discarica d’Europa, una prigione a cielo aperto retta da psicopatici. Il padre è un grande affabulatore, che indora la realtà di leggende su nobili guerrieri e grandi onori, una megalomania nata dalla paura di morire, a sua volta alimentata dal sentimento umano più profondo, il desiderio di essere immortali. Quando la sua vita se ne va come un bisbiglio e la famiglia rovina nel degrado, Bujar perde la presa con la fugace sensazione di appartenenza vissuta attraverso il padre: non sarei mai stato un albanese, in nessun modo, ma qualcun altro, chiunque altro.

Il mio odio era come il dolore di un’ustione

Desideravo la morte della mia famiglia, dei miei amici, di tutte le persone che conoscevo, perché solo così non mi avrebbero seguito ovunque. Mi vergognavo…

Lo sfondo della vicenda è un’Europa prossima allo sgretolarsi della sua identità: le tensioni nei Balcani, lo sbando di popoli asfissiati dalla dittatura e mondi al tracollo.

Statovci da forma a un protagonista guasto e traumatizzato, che si ribella al proprio destino e fugge in cerca di un riscatto. E lo fa tentando di elidere da sé tutto ciò che fa onta e miseria, nella pretesa di essere secondo la propria volontà.

È meglio concentrarsi sul desiderio di qualcosa e mai sulle sue possibili conseguenze.

Non sarebbe meglio se potessimo vivere tutti come se i generi non esistessero affatto. Non sarebbe meglio concentrarsi sull’essere unici invece che sull’essere uomo o donna?

L’indomito, universale desiderio di essere scoperti speciali.

Non ho mai dubitato di me, o del fatto che avrei avuto successo nella vita, perché mi sono sempre esercitato per diventare il migliore in ogni impresa che ho affrontato.

Detestavo quello che non potevo essere…

Così Bujar inventa continuamente se stesso e rinasce da capo in ogni nuova storia, confondendo la realtà con ciò che è immaginato, corrompendo limiti e vincoli per imbastire surrogati maniacali umbratili e cangianti.

Sono un uomo che non può essere una donna, ma che volendo potrebbe sembrarlo, ed è il meglio che so fare, giocare a travestirmi, e decido io quando cominciare e quando smettere.

Nella sua ricerca di sé diventa un predone di vite altrui, parassitando pseudo-identità mimetiche, recitando parti e realizzando fantasie per suscitare interesse e ammirazione, per un rifornimento indispensabile che richiede sempre nuove mistificazioni.

Perché la verità non va mai a segno, non è mai abbastanza…

Ci fanno volere sempre di più, finché un giorno potremo vederla la vetta, il mondo intero delle dimensioni di una biglia nel palmo di una mano, il volto di dio stesso. Prima che sia il momento di ricominciare tutto da capo.

La famelica incompiutezza di chi galleggia nel vuoto, perché la mancanza di identificazioni introiettive non costruisce un vero senso di sé e condanna a una sostanziale inautenticità.

Essere tutto e niente

Una fuga fra alibi e menzogne nell’angoscia di essere scoperti del proprio bluff.

Posso soltanto crearmi una fotocopia della loro vita, una immagine in cui paragonarmi a loro e sembrare uguale, ma in realtà non lo sono, è una menzogna che va creata dal nulla.

Come fossi un figurante nella mia storia, come fossi in una lotta continua con me stesso… 

Il sogno di grandezza di Bujar si rivela un miraggio, un inferno di solitudine ed esclusione, a cercare di far propria ogni patria, a inseguire la miglior versione di sé nella desolazione di essere compatiti prima che accettati, pur di non cadere fuori dal mondo dove le cose accadono, ma dove vale solo quel che manca e non si può avere. Anche la vertigine della sperimentazione sul bordo sfumato dei confini di genere nella ricerca di essere tutto, finisce con il farlo perdere, a invidiare chi sa chi è e ha una vita che va avanti mentre la sua resta bloccata.

Nei momenti di maggiore debolezza provo una tristezza opprimente, perché so di non rappresentare niente per gli altri, io non sono nessuno ed è come sentirsi morire. Se la morte fosse una sensazione, sarebbe questo: l’invisibilità, vivere la tua vita in abiti scomodi, camminare con scarpe strette.

Il racconto di Statovci rende bene i danni della negazione del vulnus e le conseguenze corrosive del trionfo che misconosce mancanze e bisogni, così come il legame con l’altro.

È il compito di ogni individuazione reinventare se stessi e il mondo, in una mescola delicata di lutti e illusioni. Nel protagonista le strategie consolatorie che comunemente proteggono il narcisismo allentando le asperità di una realtà insoddisfacente, slittano fino all’imprigionamento in un modo di essere che inibisce il pensiero. Il suo percorso esistenziale manca un approdo perché l’impiego dei meccanismi scissionali e il dissesto delle appartenenze fanno mancare l’appoggio necessario a una possibile integrazione, in un corto circuito dove le angosce ingovernabili e la fragilità identitaria si alimentano.

Strutture poco definite, che faticano a reggere la conflittualità delle crisi trasformative di un percorso emancipativo, con la loro estrema malleabilità, i legami fugaci e un’affettività contraffatta,  sono condizioni sempre più frequenti e sintoniche in questa nostra epoca liquida e virtuale.

Ma le carenze nella soggettività di fronte a ideali feticizzati franano le faglie.

Poi arriva il peggio, quando niente è come te lo aspettavi, quando capisci di aver vissuto una menzogna, raccontandoti una storia, e ti chiedi incredulo come hai potuto pensare di volere una cosa simile, come hai fatto a piangere tante volte per questo, come hai potuto sentire così acutamente l’invidia, come lame di rasoio tra le costole, avvertendone l’odore come uno scarico di gasolio bruciato – e lo sgomento quando ti rendi conto che non ti aspettavi tutta quella pena, quando invece era la felicità che ti aspettavi; e la sensazione, quando torni a casa e spegni dietro di te tutte le luci e chiudi tutte le tende e non senti più il battito del tuo cuore, la sensazione che potresti dare via tutto per ritornare all’inizio, per rivivere l’inizio della tua storia.

“E alla fine di tutto il nostro andare torneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”, scriveva Eliot.

La morte è semplicemente una parola. È la sensazione di non corrispondere più al tuo nome, alle tue sembianze, come avere i lineamenti di un’altra persona. Morire ed essere morti sono due cose diverse, aggiungerei. Si può essere morti in tanti modi. È nascondersi, smettere di parlare…

Statovci, nato in Kosovo nel 1990, è cresciuto in Finlandia dove la famiglia si è trasferita fuggendo dalla guerra quando lui aveva 2 anni. Questo libro, che ha fatto di lui il più giovane vincitore del premio finlandese per la letteratura, lo racconta come l’esito di un necessario lavoro di elaborazione sulla sua identità di rifugiato, sulla vergogna che scaturisce da un razzismo interiorizzato.

Mi ha risuonato con un altro bel libro di Santiago H. Amigorena, scrittore argentino anch’egli esule in Francia per sfuggire alla dittatura, in cui dichiara: Ho spesso affermato, scrivendo, che scrivevo solo per sopravvivere al mio passato.

Il ghetto interiore” (Neri Pozza, 2020) narra una vicenda delle origini dell’Autore, evidenziando anch’esso l’importanza della storicizzazione e dell’integrazione per soggettivare il proprio divenire. La storia è incentrata sulla figura del nonno, Vicente, un giovane ebreo polacco, ufficiale dell’esercito, che nel 1928 lascia il clima antisemita della sua terra per andare in Argentina a cercare fortuna. A Buenos Aires realizza una vita agiata con moglie e figli, in una spensieratezza che viene franta dalle lettere in cui la madre, a partire dagli anni ’40, comincia a descrivere le condizioni del ghetto in cui sono relegati.

Anche la riflessione di Amigorena lavora sui travagli profondi della costruzione dell’identità e sui suoi aspetti multipli: Vicente infatti – che si considerava polacco più che ebreo – si trova a fare i conti con la propria appartenenza: una delle cose più terribili dell’antisemitismo è non permettere a certi uomini e certe donne di smettere di pensarsi come ebrei, è confinarli al di là del loro volere in quell’identità, è decidere, definitivamente, chi sono.

Il protagonista, che parte alla ricerca di orizzonti più vasti nell’illusione di lasciarsi alle spalle la questione razziale, finisce impietrito in una fuga immobile. Incapace di condividere la sofferenza, il senso di colpa e l’impotenza per l’inimmaginabile da cui non può mettere in salvo i suoi familiari rimasti in Polonia, Vicente si chiude nel silenzio.

Il silenzio è un tema caro all’Autore, che in questo libro sviluppa nel racconto intimo di una mente che si oscura e affonda nella tormentosa crudeltà della memoria. Una deriva di isolamento, segreto, vergogna, un’altra vicenda che descrive un uomo divenuto estraneo a se stesso. Come se ogni parola che può uscirgli di bocca fosse una piccola lacrima di lava.

Trasportiamo davvero, in questo liquido che ci fa vivere, o che ci uccide, storie che possono essere dette con le parole?

Le parole dicono ciò che esse diventano. Olocausto è sacrificio agli dei, ricorda Amigorena: chi ha adottato quella parola è da sperare parlasse perlomeno delle proprie divinità o avesse compreso che Dio si era dissolto per sempre nel fumo dell’olocausto umano imposto dalla Razza, il più ingordo di tutti gli idoli.

Anche la storia di Vicente mostra l’irrinunciabile del rammendo della propria storia, delle parole che possono riparare le mutilazioni del passato e redimerne il silenzio.

Come per Bujar, il cui periplo giunge a un epilogo inaspettato per chi si è sempre guardato dal passato sperando non fosse il proprio.

Raccontami la mia storia.

Perché si tace dei ricordi più orrendi, scacciandoli dalla mente, lasciando che cadano dalla finestra come bambini da una casa in fiamme.

Per la paura che nessuno voglia guardare la parte peggiore.   

Per divenire occorre qualcuno che ci rispecchi senza orrore o disgusto, qualcuno al quale raccontare tutto ciò che ha bisogno di parole. È l’unico orizzonte possibile per pacificare l’oblio e poter ricominciare.

Adesso ricordo tutto, che abbiamo viaggiato tanto a lungo in questo buio che ho quasi perso il senno.

 

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