Giuseppe Martini, Le storie infrante, (Collana: Voci dal Mondo), Fattore Umano Edizioni, Roma 2016, 297p; ISBN: 9788890722882.
Recensione di: Vinicio Busacchi (Professore associato di Filosofia teoretica – Università di Cagliari)
Il romanzo Le storie infrante è l’opera narrativa prima dello psicoanalista e psichiatra Giuseppe Martini, membro della Società Psicoanalitica Italiana e primario psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale Roma 1. Noto per le sue ricerche sulla psicoterapia delle psicosi, per i suoi itinerari di ricerca ermeneutici nel campo della teoria psicoanalitica e per l’applicazione dell’ermeneutica in campo terapeutico e clinico, Giuseppe Martini realizza qui qualcosa che va oltre la sintesi o gioco-divertissement letterario a partire da un itinerario professionale e di studio di medicina, psicoanalisi e filosofia. Ci pare che il referente filosofico princeps (qui), Paul Ricœur (1913-2005), offra non solo le chiavi per cogliere questo ‘oltre’, ma per leggere e intendere questo doloroso e luminoso intreccio di storie di vita il cui motivo/effetto di unità in romanzo deve darsi in una trama che leghi le vicende tutta da comprendere. L’unità risiede nel significato riflesso attraverso le riflessioni della voce narrante, nel gioco di rimandi tra memoria di vissuti personali (genuino autobiografismo!), esperienza terapeutica e clinica, incontro con l’altro e con l’alterità/alienità della malattia mentale (sovente enigmatica, fascinosa, magica; sovente disperata, estrema, insopportabile).
Nove i capitoli di questo romanzo. Nove vicende di vita che sono anche nove diverse storie di malattia mentale e sofferenza che l’autore racconta con espressività ricca e penetrante, e con un tale, stupefacente, senso di vicinanza e comprensione dei vissuti da trasmettere tanto, quasi, un’idea fisica di presenza – come di fatti veri e vivi che corrono sotto gli occhi del lettore – quanto, quasi, un’idea metafisica di penetrazione conoscitiva – nelle menti, nelle storie, tra le sensazioni, le ideazioni, le angosce e i deliri, i silenzi e le vertigini (interminabili), dei malati. Quest’ultima, non è rivelatrice di alcuna “presunzione”, circa capacità conoscitive esatte, assolute. Né queste storie sono storie di soli “pazienti”; anzi, talvolta esprimono esperienze così significative e “topiche” da portare a maturazione e segnare una svolta:
Andrea Dadda («In rapida sequenza rividi l’espressione mite e tenera di Andrea e il volto di Giovanni segnato dall’angoscia mentre si agitava sul suo letto d’ospedale, e quasi sentii risuonare per la stanza, insistente e ossessivo quel grido: “Andrea Dadda è morta, Andrea Dadda è morta!”// Da allora la schizofrenia e la morte sarebbero per me rimaste legate in un allaccio feroce e romantico, di cui non avrei trovato la ragione ultima né nell’angoscia di morte dei miei pazienti, né nei loro tentativi di suicidio, né nei loro deliri di negazione, bensì in quel grido strozzato, senza forma e senza tempo, in quel dolore straboccante che, per incommensurabili vie, io e Giovanni ci eravamo trovati a condividere» [p. 34]); la protagonista (il cui nome non è detto…) di “Tutti ar mare”(«Si trovò come immersa in un vortice di personaggi, suo padre, suo figlio minore, Carlo, l’altro figlio, senza più riuscire a capire quale fosse il suo posto, la sua identità, ritrovandosi disorientata e persa in tutta questa girandola.// Dopo aver speso così tanta energia nel rassettare il bagno, ora vagava confusa, inerte, con uno straccio che le pendeva dalla mano» [p. 50]); Steno («Cominciò a riavvertire in modo abbastanza improvviso quei timori che sembravano definitivamente sopiti dopo vent’anni […]. Erano iniziati sui quindici anni con insistenti tachicardie che si erano tradotte, dopo che aveva legato amicizia con un compagno di scuola cardiopatico, in una terribile paura di essere colto da infarto» [75]); Isabel e la mamma Carola («Dopo aver vegliato l’amato padre nel corso della lunga malattia […], la cara mamma non aveva resistito al dolore della separazione e il giorno stesso del funerale…» [p. 98]); Luigi («La nebbia era in ogni caso tutto ciò che ricordava di sé bambino, del prima e del dopo» [p. 131]); Clarissa («… senza dimenticare che di maschera si trattava. Eppure sempre più spesso aveva cominciato a chiedersi se non ne indossasse due, una il giorno e una la notte. Questo la spaventava ancor più per il timore che nello scambiarle, togliendosi l’una per indossare l’altra, in quel brevissimo frammento di tempo sentisse che quel vuoto aveva eroso il suo volto e non ritrovasse, sotto le maschere, alcunché di sé stessa, solo pulviscolo che vagava nell’aria» [pp. 176-177]); Aurora («Quando avvertiva questa voce, immobilizzandosi e concentrandosi il più possibile per meglio ascoltarne il sussurro, sentiva che per un attimo quel grande e desertico spazio vuoto entro di sé finalmente si restringeva, come se quella preghiera bisbigliata riuscisse a comprimerlo e delimitare un confine» [p. 202]); Margherita («Come volevasi dimostrare anche voi siete una masnada di torturatori infami […]»; «il canto di Margherita, ora intonato sulle note di Figaro, si percepiva distintamente già prima di varcare la soglia» [pp. 240 e 241]); Giuseppe («Intanto Giuseppe progressivamente cambiava, ma in modo così impercettibile che a prevalere era un’impressione di staticità» [p. 278]).
Storie di depressione, di ossessione, di delirio, di psicosi maniaco-depressiva, di dolore, di violenza, di decadimento e morte: uomini e donne che percorrono, nella loro esistenza, il dramma di una certa malattia mentale. E di una certa esistenza. Donne e uomini portati al dunque dalla malattia mentale… (La malattia è percorso in sé e per sé? È percorso nell’esistenza, per l’esistenza? Percorso di fuga dall’esistenza, di ritorno all’esistenza?)
Oscurità e luce.
Questa [sorta di] “metafisica della comprensione” che pervade tutta la scrittura di Martini, che pervade tutto il romanzo, si spiega con la motivazione speculativa di fondo, con la sostanza riflessiva ed ermeneutica che dà significato a questo romanzo – romanzo certamente collegabile al genere letterario sudamericano del realismo magico (come detto nel piatto inferiore del volume), ma anche al genere del romanzo filosofico (per giunta, secondo una singolare sovrapposizione, suggellata dalla profonda asserzione, in frammento, di Paul Ricœur, in esergo: …nel punto in cui l’immaginazione e la memoria s’incrociano sull’enigma della presenza dell’assente).
Ecco, qui, rivelatore è il sottotitolo (che non compare in copertina): Le storie infrante… dove cessa il dominio del tempo. Dunque, un romanzo che non “semplicemente” racconta storie di sofferenza e malattia mentale, ma interroga il senso dell’esperienza umana, della sofferenza, e il quid dell’identità umana – anzitutto attraverso l’interrogazione dell’effetto del vissuto nel tempo (e del tempo nel vissuto). Una interrogazione instancabile, percorsa come per cerchi concentrici, per tornanti e svolte, attraverso luoghi di ieri e di oggi, percorsi nella solitudine meditativa del viaggio (specialmente in moto), nelle passeggiate distensive e di dialogo con i colleghi e i proches, nella meditazione solitaria dei paesaggi:
«Così, mentre si inerpicava percorrendo in senso inverso la medesima strada che l’avrebbe condotto al suo paese, ora stretta e scoscesa, e il paesaggio si faceva sempre più collinoso, i campi più segmentati dalle vigne la cui presenza s’infittiva a ravvivare la monotona distesa della terra oramai privata del suo frutto più consueto, il grano, la memoria si attardava su un evento preciso e ricorrente, che solo recentemente era tornato alla sua mente, dopo aver riposato per anni in quello che probabilmente lui avvertiva, nel succedersi incalzante di congressi, viaggi, lavoro, un semplice oblio della insignificanza» [pp. 262-263].
Instancabile interrogazione che riprende narrativamente il lavoro clinico e di psicoterapia, questo variato, di volta in volta, non per il “semplice” variare dei casi, piuttosto dei rimandi di essi agli enigmi più profondi dell’identità umana e della vita.
«Nella sua spettrale sventura – afferma Gadamer –, la malattia mentale resta ancora un sigillo, il quale attesta che l’uomo non è un animale intelligente, ma è un uomo»: tutta la forza di questa verità, e della dimensione dell’umano, al di là di ciò che lo fa, che ci fa animali e intelligenti, è abbracciata nella scrittura da Giuseppe Martini, – sebbene sia chiaro essere Ricœur, come già detto, il referente filosofico primo –, scrittura su cui si interseca, come un asse verticale, un altro punto di vista specifico, quello di Karl Jaspers, pensatore e medico sempre al limite tra psicopatologia e speculazione. Se nella sua produzione scientifica, Martini va studiando e approfondendo di quest’ultimo, in modo particolare, la nozione di incomprensibile quale dimensione al crocevia o, meglio (?), quale realtà dialettica disposta tra inconscio ed esistenza o libertà (e che Martini mette in relazione con la nozione di intraducibile), di Ricœur, Martini, fa propria l’idea di identità narrativa – che, per altro, il filosofo francese elabora sulla base della lezione psicoanalitica (a proposito della capacità psicologica di recuperare e risignificare il vissuto, a proposito della strutturazione narrativa della storia di vita, e dunque della possibilità di ritrovamento di sé per mezzo di trame ricucite “terapeuticamente” e non, di recupero del vissuto doloroso nel racconto [del vissuto che diventa accettabile e sensato proprio grazie al racconto…]). Una teoria, questa dell’identità narrativa, che è parte della “risposta” alle critiche antisostanzialistiche sull’identità umana, e che centra il punto della costruzione narrativa dell’identità personale (perché “individui” si nasce, mentre “persone” si diventa…), tra passato che ritorna nell’esperienza sintomatica, nel ricordo, nel groviglio di idee e sensazioni, nell’interrogazione riflettente, investigante, interpretante, nel lavoro della memoria, dei silenzi, del tempo.
Nelle «storie infrante», «il dominio del tempo» «cessa» in questo senso: nel senso preciso del collasso della trama. Del collasso della trama per il collasso del senso unitario, narrativo. E viceversa.
Se non posso raccontare quel che ho vissuto, quel che ho vissuto non ha senso, quel che vivo non ha senso. Persino, che viva… non ha senso. Eppure qui, Martini, pare offrire una nuova risposta. Una risposta che corre tra le pagine del romanzo, fino alle ultime battute e alla citazione con cui il romanzo si chiude: ancora Ricœur: «Torniamo sempre alla questione della sofferenza: la sofferenza insopportabile e la sofferenza sopportabile». È una risposta che ci riporta al dilemma dell’‘oltre’ richiamato sopra e che pare sciogliere il nodo della tenuta di questi nove racconti nell’unità del romanzo.
Infatti, come questa unità di forma e senso è resa tale dalla scrittura di una presenza viva (variamente vincolata alle vicende e variamente partecipe di esse), così la vita umana stessa, vissuta, sofferta e raccontata, non lo è mai tale solo per se stessa, solo in se stessa. Sempre, la scommessa dell’insopportabile riguarda non solo le possibilità e capacità personali e soggettive. Immancabilmente, essa, chiama in campo il talento della risposta dei cari e dei proches, dei medici, dei conoscenti, degli altri.
E perciò… se non hai potuto raccontare quel che hai vissuto, quel che hai vissuto (e che vivi) ha comunque senso. Perché io lo racconterò per te.