“Il latte della madre”, di Nora Ikstena (Voland, 2017)
Recensione a cura di Daniela Federici
“Esiste
una virtù che irradia e esalta
tutti gli oggetti nei rapporti di senso.”
Wordsworth
“Il latte della madre” è un’intensa storia al femminile che attraversa tre generazioni, narrata a due voci da madre e figlia.
Non hanno nomi le protagoniste, le due voci si intrecciano tessendo climi emotivi profondamente diversi, un gioco di chiaroscuri le loro esistenze, cucite insieme dall’originario della madre/Nonna sullo sfondo della “polka sanguinosa della Storia”.
“Siamo nati in un certo luogo e momento, e questo determina la nostra vita.”
Ottobre del ’69. La Figlia racconta il sogno ricorrente: stretta al seno della Madre cerca di succhiarlo, senza avere aiuto, senza cavarne niente, finché le scorre in bocca un liquido amaro disgustoso che quasi la soffoca e si sveglia con i conati. “Mia madre era una giovane dottoressa, quindi doveva sapere che il suo latte avrebbe potuto fare più male che bene. Come spiegare altrimenti la sua scomparsa da casa, subito dopo il parto?”
La Nonna la nutre a camomilla e miscela di latte, la stessa donna che nell’ottobre del ‘44, in una Riga appena liberata dalle truppe hitleriane e occupata dall’Armata Rossa, avvolge a sé la sua bimba appena partorita e sfolla dalla città con il marito. Da quella fuga, stretta al seno materno traboccante di latte, la Madre racconta la sua storia, di figlia prima e di madre poi.
Poco dopo la fuga il padre viene preso dai soldati e dato per morto; cresce orfana con la madre per alcuni anni, fino all’arrivo di un patrigno. Il padre tornerà devastato dalla prigionia in Siberia, a una vita che è andata avanti senza di lui e non può riaccoglierlo.
“Del mio vero padre non parlavamo mai. Mia madre non seppe mai nulla di tutte le volte in cui, negli anni, andai a trovarlo. Vedendo le sue sofferenze fisiche decisi di diventare medico. Non sono certa di averlo amato. A volte mi faceva pena, a volte lo odiavo perché sentivo che il suo gene autodistruttivo si era radicato profondamente anche in me, sarebbe cresciuto nel tempo, mi avrebbe vinto.. Uno dei tanti che si erano arresi in silenzio, morti in un angolo perché incapaci di lottare con l’epoca, incapaci di dimenticare, di conformarsi, di ingoiare le umiliazioni nella carne e nello spirito, la vergogna, il disonore, la delusione. Colpevole senza aver avuto colpa. Buttato in una discarica del tempo.”
Cresce nell’odio per l’ordine costituito e per la propria madre, che accusa in cuor suo di non essere voluta fuggire prima dell’occupazione, perché aspettava lei e “i bambini devono nascere nella propria terra”; ma quella terra era diventata una gabbia. “Eravamo condannati, tagliati fuori dal mondo, circondati da un’alta muraglia protetta da filo spinato e cani da guardia. Condannati a un’esistenza sonnolenta che bisognava chiamare vita. E io mi trovavo al centro di questo circolo. Schierata nei ranghi dell’insensatezza che giorno dopo giorno contribuivo ad alimentare.”
Gli studi di ginecologia, il talento di diagnosta e le pratiche innovative per far nascere i bambini la rendono un medico venerato in quel mondo di donne, ma è troppo sovversiva per gli schemi del regime, così viene cacciata, perdendo la sua possibilità di realizzarsi. Anche questo alimenta quel “desiderio folle di afferrare la parte sfuggente della propria vita” che le cova dentro, come Achab distruttivamente ossessionato dalla sua balena.
Vite ingiuriate dall’occupazione, scisse fra l’inneggiare pubblico a una bandiera che non è la propria e il bicchiere in cui sciacquare tutto la sera, fra le mura di casa, facendosi il segno della croce e aspettando gli inglesi per essere liberati dallo stivale russo.
L’assenza di libertà è la cupezza che risuona nel racconto della Madre, che pare avvelenarne ogni traccia di desiderio fino a collassare la prospettiva del vivere: “Il mio latte era amaro, pieno di paura, era il latte della distruzione. Negandoglielo, avevo protetto mia figlia.”
Guarda la Figlia crescere nell’amoroso accudimento della propria madre e dell’affettuoso patrigno, sentendo di non appartenere alla loro vita “nella quale dimoravo come un fantasma venuto da un altro mondo.”
Un luogo da cui si sente esclusa e da non contaminare. Una faglia. La lacerazione di una perdita precoce brusca e insanabile?
“Era un altro mondo. Non l’avevo rovinato col mio latte. Un altro mondo che forse un giorno sarebbe sgusciato fuori da quell’esistenza sonnolenta. Le sarebbe sopravvissuto, senza guastare il desiderio della vita. Gustandone il latte, che non sarebbe stato amaro, ma un conforto.”
Quel latte, che ricorre nel racconto, assurge a simbolo di un desiderio di vita e di legame. L’Autrice – che dichiara la quota autobiografica della storia – sembra cercare l’elaborazione di un senso a un così difettoso incontro fra una madre e la sua neonata. Quel latte è rimarcato come qualcosa che la Madre ha ricevuto ma non ha saputo trasmettere e che la Figlia ha mancato ma del cui conforto vitale, tuttavia, dispone: “il mio grumo dolce mi dava forza”.
L’esistenza della Figlia è tesa fra la giornata luminosa con i nonni e la fosca stanza della Madre, piena di libri, fumo, alcool, un lento estinguersi che flirta con la morte: “Avevo paura di mia madre. A volte s’impossessava di lei una forza quasi satanica, che s’irradiava all’esterno annientando ogni cosa, soprattutto l’amore di chi le era più vicino.”
Distruttività e colpa, nel loro mefitico garbuglio, traspaiono nell’episodio del criceto, caparbiamente in fuga dalla gabbietta; la Nonna gli porta una compagna perché trovi pace ma il criceto invece divora il suo piccolo appena sbuca dalla tana, per poi tornare a protendersi nell’affanno di uscire. La bimba atterrita si barrica nell’ostilità, negandogli la libertà, finché la bestiola muore. Affranta e colpevole domanda: “Come si può mangiare il proprio figlio e poi morire di nostalgia per la libertà?” e la Madre, abbracciandola commossa, risponde: “Forse voleva evitare che finisse in una gabbia.”
Un’assenza di libertà avvelenante, così la Figlia si spiegherà l’inabilità alla vita della Madre, il buco nero che inghiottiva ogni cosa. E diventa la madre della propria madre, accudendola, soccorrendola, rigenerandosi a ogni suo slancio affettuoso, nell’apnea di moti d’odio subito repressi, cercando di insufflarle la vita per averne da lei.
Davanti a un quadro di Kuindži la Figlia avrà un mancamento: la tela raffigura la luce verde brillante della luna in un paesaggio avvolto dall’oscurità: “Lei non faceva che spegnere la luce della vita. Era quasi una lotta: io accendevo, lei spegneva.”
Il suo crescere è un delicato equilibrio di lente separazioni dalla Madre, e poco alla volta incontra – nella scuola e nella vita intorno – le spire del regime e l’annientamento del libero pensiero sulle persone. Inizia a cercare la storia della sua nazione al di là della sottomissione supina alle ragioni del sistema, ne impatta i dilemmi e le minacce, ritrova i moventi dello strazio materno.
Intanto i tempi cambiano, muore Brèžnev, crolla il muro di Berlino, torna a garrire la bandiera rosso-bianco-rosso. Nell’estate del 1989 oltre due milioni di persone si tengono per mano in una catena che attraversa Estonia, Lettonia e Lituania, è la Via Baltica che prelude alla ritrovata indipendenza del 1991. È la vita che riprende, che la Figlia sperava potesse lavar via tutte le ingiustizie della storia, irrompere e “lasciare la luce accesa.” Ma la vita della Madre ormai si è spenta, la ritrovata libertà non può più guarirla. Chissà se sarebbe davvero bastata a riaccenderla.
Il sogno della Figlia cambia, dalla lotta col seno della Madre esce un liquido che sa di camomilla e miele, ne beve senza placare la sua sete, e il seno della Madre è grande, caldo e morbido.
L’ascolto di un testo riempie di rivoli carsici, fa immaginare… Sul latte della madre-Nonna offerto nell’angoscia di morte (i bombardamenti e lo sfollamento, la perdita violenta del giovane marito, la solitudine successiva); sul vissuto profondo della Madre di portare dentro di sé qualcosa venefico, sulla nostalgia inconsolabile per un tempo di pace che non le era appartenuto; sull’allergia che la Figlia sviluppa per il latte, e appena si sente legittimata dalla Madre a rifiutarlo, scopre che può berlo senza più rigetto.
Non c’è solo quel che ci accade, diceva Anna Freud, ma ciò che facciamo di quel che ci accade.
È un libro che muove molti pensieri, sulla maternità che non è un fatto naturale, sull’importanza per lo psichico di disporre di un oggetto interno soccorrevole – e l’oggetto buono può trovare linfe diverse dal latte materno -, sulla possibilità e l’impossibilità di sanare le lacerazioni profonde.
Il racconto pone molto l’accento sulla mancanza di libertà, raffigurando per la Madre una sorta di sofferenza “etica” per il suo tempo.
Bleger ci ha offerto un modello efficace della depositazione inconscia dei nuclei primitivi dello psichico e della regressione difensiva all’ambiguità, per spiegare l’acquiescenza aconflittuale degli eventi in situazioni come quelle di uno stato totalitario; un servaggio e un’adattabilità che paghiamo con la lesione delle nostre competenze critiche e trasformative, della capacità di legame e della pietas, sostituiti da un’indifferenza alessitimica e da un cinico individualismo. Amati Sas ci ha descritto l’importanza della vergogna e dell’indignazione ma soprattutto di “un oggetto da salvare” per sopravvivere in condizioni estreme. Certo la libertà di optare di cui Freud parla ne l’Io e l’Es, non può prescindere dalla realtà che incombe.
Ma forse la vera domanda è: perché certe persone dispongono di una maggiore forza vitale?
Bollas nomina una capacità ricettiva al cuore dell’inconscio che definisce generi psichici, una disposizione dell’Io verso la realtà che contrappone al trauma. Laddove quest’ultimo blocca il Sé cercando di limitare i danni – ma in questo modo condannandolo alla ripetizione -, i generi psichici configurano la juissance della rappresentazione, la spinta all’elaborazione simbolica, riflettendo dinamiche introiettive, una messa in senso vivente dei moti del soggetto capace di generare movimento psichico e promuovere nuovi legami.
Il desiderio è l’ingrediente che tiene accesa la vita psichica. Quando la capacità di legamento prevale sullo slegamento la luce vince l’oscurità, o almeno si mantengono in un equilibrio sostenibile, perché non c’è mai l’una senza l’altra. A volte il masochismo è il garante della vita psichica, l’erotizzazione della distruttività può proteggere dal rischio del disimpasto pulsionale. A volte si resta prigionieri nei labirinti infausti della ripetizione dell’identico, a volte è muto e opaco disinvestimento.