La vista da Pompey’s Head
di Hamilton Basso (1954) trad. it. N. Manuppelli (Nutrimenti, 2019)
Recensione a cura di Barbara Giorgi
Parole chiave: #ritorno, #passato, #razzismo
“I ricordi erano come tanti ami da pesca aggrovigliati;
ne prendeva uno e venivano su tutti gli altri.”
Accade, nel nostro mestiere, di accogliere con piacere la visita di un paziente con il quale, tempo prima, si è conclusa un’analisi. Ci si incontra per un saluto, per condividere qualche cosa di nuovo, magari un cambiamento importante, oppure, può accadere, ci si incontra perché in quella analisi conclusa da tempo c’è qualche cosa in attesa di un ascolto, di una condivisione.
Con piacere e curiosità ho accolto la visita di un mio paziente, anni prima ci eravamo salutati dopo una buona analisi, lui prossimo alla laurea. Lo ritrovo avvocato e padre di un bambino. Tra le altre cose, trova lo spazio per raccontare di una sua recente lettura, “La vista da Pompey’s Head”, libro trovato per caso, di un autore,Hamilton Basso, non particolarmente conosciuto, nonostante facesse parte del gruppo di scrittori dell’editore Maxwell Perkins, e nonostante fosse amico di Thomas Wolfe e Francis Scott Fitzgerald. Eppure è un autore così capace di descrivere l’animo umano, e lui, il mio paziente, dentro alla storia di Anson Page, il protagonista del racconto, si è proprio ritrovato.
Anche Anson Page è un brillante avvocato, con la passione per la scrittura e socio di uno studio legale newyorkese che rappresenta quasi tutte le case editrici di New York, città dove Page vive da tempo con moglie e figli.
Ma il suo cuore è altrove, è in South Carolina, perché “da quando aveva lasciato Pompey’s Head, nessun luogo era sembrato appartenergli.”
Page è uno straordinario esempio, direbbe Bolognini, di una persona la cui residenza emotiva profonda non corrisponde affatto al luogo dove concretamente vive, una persona la cui geografia intrapsichica si muove su potenti legami, più o meno sotterranei, con il suo luogo natio.
“Era accaduto durante uno di quei freddi e umidi mattini di marzo a New York, mattini che invariabilmente provocavano in Anson un senso di tristezza e depressione (…) si era andato ripetendo che era assurdo uscire in una giornata del genere, davvero assurdo. Giù a Pompey’s Head doveva essere già primavera in quel momento (…) In momenti come quello, nella lugubre oppressione di un inverno newyorkese, il suo sentimento nei confronti di Pompey’s Head era più che una forma di attaccamento e di legame: era una fitta, un tuffo al cuore. (…) Ciò che pensava di Pompey’s Head, un pensiero elaborato con giudizio nel corso degli anni, lo aveva descritto, con gli opportuni camuffamenti, nel suo libro (…) I sentimenti di Anson verso Pompey’s Head differivano però da ciò che ne pensava; si trattava di un’attrazione puramente fisica. Una volta Meg gli aveva detto che era come un uomo che fosse stato costretto ad abbandonare un’amante di cui era ancora innamorato.”
Con una particolare attenzione ai dettagli, Basso descrive Pompey’s Head come un luogo del Sud, un luogo animato da regole sociali e da pesanti contraddizioni capaci di congelare le convinzioni e l’intera vita dei suoi abitanti che vivono “protetti dalle imponenti ombre del passato.” Solo chi ha antenati prestigosi a Pompey’s Head può erigersi socialmente: “portavi il suo nome, camminavi nella sua memoria e sapevi chi eri.”
E’ un luogo stritolato dal razzismo, dove, anni prima, il padre di Page ha testimoniato contro il signor Pettibone, uno dei cittadini più emminenti della città, a favore di Clifford Small, un uomo di colore. “Per suo padre la spiegazione era semplice. L’ho visto accadere, diceva, vuoi che me ne stia qua senza fare nulla?”
Ed è proprio nella nativa Pompey’s Head che lo studio legale decide di mandare Page, nel tentativo di risolvere una complessa questione legale fra il noto romanziere Garvin Wales e lo stimato e scomparso editore Philip Greene.
“Il fatto era che il suo non era un viaggio normale (…) Era uno straniero, ma non fino in fondo. Per lui Pompey’s Head era casa. Stava tornando a casa per la prima volta dopo quindici anni”.
Comincia così il coraggioso viaggio di Anson Page, un viaggio raffinato ed elegante (“Per Anson lo stile era una delle cose più importanti del mondo”) di un uomo attaccato al suo dovere e animato da un profondo senso di giustizia (un piacere leggere di lui in questi tempi!), in bilico tra il presente e il passato, appeso al filo della sua memoria: “riavvolse il filo dei ricordi ricostruendo la tela di una vita che sembrava quasi appartenere a un’altra persona.”
Molti sono i personaggi della vita di Page che Basso descrive generosamente, acute e sottili le descrizioni dei pensieri e delle sensazioni dello stesso Page in questo suo viaggio dal sapore squisitamente analitico, un’immersione dentro al suo passato alla scoperta di nuovi passaggi segreti, per citare ancora Bolognini. Un viaggio che non potrà che essere lento, fatto di attese e nuove scoperte, di sensazioni ritrovate e pensieri rinnovati, di luoghi che, nel tempo, si sono trasformati.
“Tutto era come prima e nulla era come prima. Era come tornare in una casa che avevi affittato a degli estranei e vedere i cambiamenti che vi avevano apportato: era la stessa casa con le stesse stanze, e l’orologio nella sala batteva nello stesso modo cadenziato, ma alcuni mobili erano stati riposizionati e le foto erano appese in modo diverso, e c’era la persistente presenza di forme estranee che rendevano quella casa loro e non tua.”
Ma Anson Page “sapeva che al di sotto di qualunque cambiamento si verificasse in superficie (…) nulla a Pompey’s Head era cambiato. Era ancora il posto dal quale era stato costretto a fuggire (…); le porte dell’armadio si erano aperte e i fantasmi ne uscivano a frotte.”
Soprattutto, è in questo viaggio che Page capisce che nessuno, in fondo, può fuggire completamente. E, se è vero che “se vuoi dimenticare qualcosa con tutto te stesso, c’è sempre un modo”, è altrettando vero che gli strappi si rattoppano lentamente, un punto alla volta, spesso con dolore.
“Se si poteva dire degli altri che erano stati menomati dal loro passato, non era forse lui quello che aveva riportato più ferite di tutti? (…) Ciò che aveva reso infermi gli altri, aveva menomato anche lui.”
Così, mentre “passato e presente si unirono con un tuono e lui si sentì padrone e proprietario di entrambi”, nell’incontro con Lucy, la moglie di Wales, colpevole di tenere il marito isolato dalla scrittura e da tutti, Page assiste, sbigottito e incredulo, alla messa in atto di un vero e proprio diniego della realtà con il quale il suo profondo senso del dovere dovrà fare i conti:
“aveva scoperto che la verità era troppo insopportabile per affrontarla (…) Se fingeva che non fosse vero, col tempo sarebbe riuscita persino a convincersene.”
In questo continuo confronto con se stesso, attraverso il ritrovare, o non ritrovare, ciò che ha lasciato, sarà proprio nell’incontro, tanto faticosamente cercato, con Garvin Wales che Page scoprirà non solo la verità dello scrittore, ma una nuova verità, ben più potente e profonda, che riguarda se stesso e le sue scelte di vita.
E qui Basso è bravissimo a descrivere l’apertura verso l’inconscio di Page, la profonda consapevolezza che sembra colpirlo improvvisamente, ma, in realtà, è il frutto del viaggio lento e paziente dentro di sé, degli incontri con persone ritrovate che offrono a Page delle coabitazioni psichiche (Bolognini) capaci di produrre in lui nuove aperture e trasformazioni. Come dire, un bello scambio inter- e intrapsichico delicatamente descritto con la forza della scrittura.
“Ora poteva vederlo chiaramente, l’intero panorama. Era come se finalmente potesse godere tutta la vista da Pompey’s Head.”
Così, Anson Page può salutare la “vecchia Pompey Heads” con due scomode verità in tasca, di quelle verità che ti fanno vedere le cose, dentro e fuori di te, in modo diverso rispetto a prima. Porta con sé, sul treno del ritorno, il profumo della donna che in realtà ha sempre amato e una nuova, più autentica, consapevolezza di sé.
Accade, nel nostro mestiere, di scoprire libri che ci regalano piacevoli ore di lettura. Libri scritti da tempo, autori che non ci sono più, storie da riscoprire che ci aiutano, perché no, ad accogliere quella cosa rimasta in attesa e a condividere, con il nostro paziente, un nuovo e diverso panorama. Anche questo accade, nel nostro mestiere.
Bibliografia
Bolognini S. (2019), Flussi vitali tra Sé e Non-Sé, Raffaello Cortina Editore