LA TUA VITA E LA MIA
Di Majgull Axelsson
(Iperborea, 2019)
Recensione a cura di Daniela Federici
“Oggi, al termine di tanti e perplessi
anni d’errare sotto varia luna,
mi chiedo quale caso di fortuna
volle che io paventassi gli specchi (…)
infiniti li vedo, elementari
esecutori d’un antico patto,
moltiplicare il mondo come l’atto
generativo, veglianti e fatali.
Fanno più vasto il vano mondo incerto
in un’allucinante ragnatela;
a volte nell’annottare li appanna
il tacito respiro di un vivente.
Il cristallo ci spia. Se tra le quattro
pareti della stanza v’è uno specchio,
non sono solo. C’è un altro: il riflesso
che innalza all’alba un segreto teatro.”
Borges, Gli specchi
Märit è sul treno per tornare alla casa d’infanzia e festeggiare il suo settantesimo compleanno con il gemello, quando un impulso incoercibile la induce a scendere a Lund, una cittadina a qualche ora dalla sua destinazione.
Vogliamo davvero andare su quella tomba dopo tutti questi anni?
Si palesa il Doppio, l’Altra, l’estranea interna che la influenza, che la protagonista ha sempre ritenuto essere la terza gemella morta durante il parto e stabilitasi dentro la sua testa. Sorella mancata cui ha dato un’occasione di vita, concedendosi al contempo un riflesso di presenza nella solitudine profonda della sua esistenza. In quel ‘noi’ del rimpallo delle voci narranti, Märit ripercorre le strade dove non mette piede da più di cinquant’anni, fuggita senza voler sapere.
L’intera comunità sembra aver rimosso il passato: quell’edificio maestoso, rinnovato nei toni chiari di un comprensorio scolastico, non conserva memoria del manicomio di Vipeholm.
Solo una fossa comune, non un monumento alla memoria delle colpe, ma una lapide minuscola da non rappresentare neanche un tiepido gesto di scuse per tutte quelle anime abbandonate a loro stesse.
Lì fu internato Lars, l’amato fratello maggiore, disabile intellettivo con tratti autistici. Un ragazzo che non sapeva parlare, che sfuggiva lo sguardo e faceva disegni bellissimi.
Le cinghie di cuoio che tenevano fermo nel letto quel poco che restava di mio fratello. I suoi occhi stravolti. I suoi versi disperati.
Il suo corpo livido di percosse su un tavolo d’acciaio, destinato alla dissezione, come un vuoto a perdere da non dover rendere a nessuno.
Märit singulta il ritorno su di sé delle memorie perdute, in un percorso a ritroso fra le ombre dei ricordi, i segreti di famiglia e i rancori rancidi.
Majgull Axelsson è una giornalista d’inchiesta, nota per i suoi reportage su spinose problematiche sociali, sulle crepe e le doppiezze della società svedese nel tempo in cui credersi illuminati misconosce la propria malvagità. Dietro ai propagandati modelli di uguaglianza e solidarietà sociale, si cela una storia di segregazione ed esclusione dei disagiati. Negli istituti per dementi della Casa del Popolo, le condizioni di vita erano disumane, gli internati erano cavie da esperimenti per i progetti di benessere a favore della collettività, una gerarchia crudele delle categorie dell’umano degradanti fino alla spersonalizzazione e alla soppressione di ogni diritto.
Un passato da non lasciar sprofondare nell’oblio, che la Axelsson porta in letteratura attraverso una storia di solitudini e degrado, una narrazione credibile sulla fragilità dei legami familiari che da voce anche alla condizione femminile.
L’espediente narrativo del Doppio, moltiplicato dal motivo dei gemelli, offre l’irradiarsi dei vissuti della protagonista fino alle più ambigue sfumature e il loro faccia a faccia.
Forse si nasconde dietro la mia amigdala, forse vorrebbe addirittura strofinarcisi contro per scatenare un’angoscia acuta o un terrore paralizzante: qualsiasi cosa, pur di bloccare i miei passi. Parassitare le capacità, disperdere la memoria, arruffare le emozioni. Il familiare si trasforma in perturbante.
La frantumazione è la traccia della mancanza di un doppio riflettente all’origine della vita psichica. Quel malfunzionamento dagli effetti stranianti rivela ciò che la psiche ha provato a iscrivere in carenza della necessaria funzione autoriflessiva, cercando di istituirla in quello sbiadito riflesso di presenza di un’altra da sé.
Quante volte Märit ha provato a dimenticare l’attimo in cui il mondo andò in pezzi, quando si rinchiuse in una membrana sottile come un guscio d’uovo.
Indurire il guscio va benissimo, però non devi farlo inspessire troppo, perché altrimenti diventi di pietra. E non c’è più posto per me. … Ciascuna per conto suo non siamo in grado di combinare granché.
Ha l’angoscia di rivelare qualche segno di una tara familiare, con quella voce assillante nella testa, ed essere internata anche lei. La violenza le sbiadisce la compassione, sente solo l’urgenza di rendersi invisibile e mettersi in salvo.
Forma di auto-contenimento dal significato narcisistico, il Doppio prende forza nelle catastrofi emotive o in prossimità di momenti di crisi e cambiamento, materializzando la personificazione del conflitto irresoluto fra tendenze opposte di cui è insostenibile l’accostamento. Esso partecipa della sfera profonda della persona, espressione di un tempo sospeso sulle cose, ne rappresenta l’incresciosa ‘messa fuori’, la spietata mancanza di un ‘posto per l’altro’.
Quando il riconoscimento rimane inevaso si resta soli nei propri gusci. E in quell’oblio ogni frammento è recluso intatto, dalla ferocia dei pensieri agli ingovernabili impulsi, odio e angosce, vergogna e incuria, il passato sofferto che abita la protagonista è in stallo sul fondo, senza trovare una via di soggettivazione, senza potersene liberare.
I ricordi sono il tormento delle notti e l’ombra dei giorni, sono la prigione in cui entrambe viviamo da sempre. … Tutto ciò che ha plasmato la sua vita e la mia.
Quel viaggio di ritorno slatentizza ciò che era sepolto, la spinta delle risposte inevase, dei vissuti mancanti di una testimonianza e di un’appropriazione, che sfocano realtà e fantasie tormentose, che temono di riportare alla luce ricordi per vederli mutare in un gemito sentimentale.
Per qualche istante ci ricongiungiamo, diventando un unico io.
Märit ha bisogno di far riemergere la storia, fiduciosa nel potere della parola che cambia.
Non perché la colpa si sarebbe dissolta, perché non può dissolversi, ma perché parlarne l’avrebbe resa più leggera da portare. Un fardello condiviso. E perché saremmo riuscite a trovare le parole per tutto ciò che è legato a quel giorno: la rabbia, il dolore e il mutismo delle nostre vite.
Quel che ha nutrito la scena psichica di presenze, può consentire di emanciparsi e rinunciare a bussare richieste a chi ha troppo da perdere a riconoscere i danni.
Come ho potuto subire per anni il terrorismo di una figura scaturita dalla mia fantasia?
L’Altra … è solo un aspetto di me stessa più sfacciato degli altri, una sinapsi troppo utilizzata.
Quella slogatura identitaria pare dischiudersi a un possibile riavvio delle trasformazioni.
La sua ricerca ancora vana di risposte fuori da sé fa scoprire a Märit l’alba di un dentro che può avviare dei lutti e con essi, delle integrazioni. Può riprendere il viaggio più intera di ciò che è mancato, del male subito e inferto, patendo la fatica del farsi largo dell’umano e il dolore per la fine dei dimenticati.
È il nostro racconto, una delle tante storie silenziose, importantissime e inservibili che dobbiamo portarci dentro fino al giorno in cui moriremo.
Una storia per tenere vivo il ricordo, che mi ha rimandata a L’isola delle anime della Holmström (L’isola delle anime di J. Holmström. Recensione di D. Federici), narrazione più intensa e forse meglio riuscita che ha cercato di immedesimarsi dal punto di vista delle internate invece che da quello di chi è rimasto ai margini dei guasti asilari, in cerca dei modi per non esserne inghiottito.
Balsamo M. Transizioni nella metapsicologia. Una rilettura del perturbante, Seminari del CPdR 2020
Funari E. (a cura di) Il Doppio. Tra patologia e necessità. Cortina, 1986