Nel saggio di apertura: "Proust, Freud e il lavoro del lutto", il lavoro psichico coinvolto nella scrittura, viene equiparato al lavoro psichico coinvolto nel processo di elaborazione, che essa riguardi il privato elaborare i propri dolori, o il lavoro dell’analisi vera e propria.
Ferrari a questo riguardo afferma una funzione terapeutico-riparativa della creazione artistica. "Riallacciandoci […] alla dimensione della terapia, di cui dunque l’arte è una speciale variante, occorre sottolineare che a sua volta il lavoro dell’analisi si pone evidentemente e naturalmente al servizio di quel processo generale che è l’elaborazione psichica" (31). La letteratura, o, tout court, l’espressione artistica non viene mai intesa qui come prodotto o espressione della nevrosi, una sorta di sintomo, bensì come un mezzo per controllarla o superarla. Questa tesi torna in un ulteriore capitolo del volume: "Scrittura come terapia", ed è approfondito, o meglio analizzato nelle sue diverse varianti, nell’ulteriore capitolo: "L’autonomia della scrittura nella terapia".
Nei casi di Proust, Svevo, Rousseau, nei vari capitoli: "J.J. Rousseau. Confessione, ricordo e fantasticheria"; "Fantasticheria e lettura: gli esempi di Rousseau e Proust"; "Svevo e la scrittura"; oltre al già citato capitolo d’apertura, Ferrari si addentra, con una piacevole scrittura, evidente risultato di una lunga e approfondita meditazione tanto delle questioni letterarie, quanto dei concetti psicoanalitici, nell’analisi della funzione della scrittura.
Per Proust, come per Svevo, la scrittura rappresenterebbe il mezzo per arrivare, come scrive Svevo, "al fondo tanto complesso del [proprio] essere… Io voglio attraverso queste pagine arrivare a capirmi meglio" (123-124). Proust, afferma Ferrari, scrive "per riscrivere il mondo, riordinarlo, rielaborarlo; dare un senso … alle cose, al desiderio, al dolore e perfino alla morte" (58).
Il rilievo che mi verrebbe da proporre a questo punto è che anche il delirio rappresenta il tentativo della mente psicotica, affacciata sul baratro della propria dissoluzione, di riordinare e dare un senso all’esperienza persecutoria della frammentazione. È quindi un tentativo auto-terapeutico. Personalmente ritengo che l’ipotesi che la scrittura possa curare sia tendenzialmente una ipotesi molto forte, a meno che, invece di funzione terapeutico-riparativa, si intenda una intenzione che può riproporsi inesausta, al di là della sua realizzazione.
Nel caso di Proust in particolare, mi pare che il lavoro capillare della memoria, che si esplicita nella "frase, [che] con quel suo procedere lento e protratto è […] la forma stessa che assume l’elaborazione psichica del dolore e della sofferenza" (43), sia sempre sull’orlo di divenire un compiaciuto restare nell’ambito di una contemplazione del proprio dolore, che attua la ricorsività di un tempo che non è né perduto, né ritrovato.
Così per Svevo, la suggestione, prospettata da Ferrari nel capitolo sull’autonomia della scrittura nella terapia, che lo scrivere, proponendosi polemicamente come alternativa all’analisi, rappresenti qualcosa di inerente a quelle che l’autore individua come resistenze, si viene a innestare nella problematica della relazione tra poetica implicita e poetica esplicita. Sono questi concetti a mio avviso estremamente importanti e dall’autore chiariti con semplicità.
La poetica implicita riguarda la "correlazione molto precisa tra le norme e le regole che [l’autore] si dà nel suo fare arte e i percorsi e i meccanismi che si connettono alle esigenze delle sue complesse strategie psichiche" (17).
Nel "dopo Freud" questa correlazione può venire a far parte della poetica esplicita: è proprio in questo passaggio che quella conoscenza naturale, tanto ammirata da Freud, che l’artista ha sempre avuto per la psicologia, rischia di perdere il proprio carattere autentico, dato dal contatto non intellettuale con la vita interiore.
Naturalmente, quella che ho cercato di tratteggiare non è che una prima linea guida di lettura ad un testo che, proprio per la sua natura di "raccolta" di saggi diversi, spazia in ambiti più vasti.
Personalmente sono stato particolarmente affascinato dal capitolo: "Buzzati, Kafka e il sogno: preliminari per una psicologia del fantastico", forse per una mia maggiore affinità con questi autori rispetto ai precedenti. Ma qui la problematica del contatto con il "perturbante", rappresentato anche dalla presenza ingombrante, per Buzzati, del raffronto costante col grande boemo, si dipana attraverso quell’aspetto della funzione riparativa della scrittura, che è qui dato "in particolare da certe caratteristiche, per così dire, oniriche della scrittura" (167), che a mio avviso avvicina più direttamente alla funzione di alfabetizzazione dei contenuti mentali di cui il sogno è preliminare passaggio e di cui la scrittura è ulteriore espressione.