WILLIAM BLAKE, PURGATORIO TAV. 80
La riparazione post traumatica nel Purgatorio dantesco
di Pierluigi Moressa
Parole chiave: #Divina commedia, #trauma, #soggettivazione, #riparazione
«Dante è passato attraverso le fiamme che mondano il cuore e l’occhio»
(G. Pascoli, Sotto il velame)
Il viaggio di Dante nell’oltretomba può essere inteso secondo diverse chiavi interpretative. Un punto di vista storico ed emotivo sulla vicenda del poeta ci consente di paragonare le tre cantiche a complessi passaggi esistenziali. L’Inferno può rappresentare il perpetuo esilio dell’anima dal bene, il Purgatorio la riparazione della colpa, il Paradiso la sublimazione di ogni pulsione nella contemplazione divina. Ancor di più, la condanna inflitta a Dante e il suo allontanamento dalla patria costituirono la base di un evento traumatico che generò non solo l’interruzione delle consuetudini quotidiane, ma anche la perdita totale dello status pubblico; rappresentò una gravosa e ingiusta pena, determinando la dannazione inappellabile dell’individuo e la gravosa deformazione della sua identità. Dante poté trovare giustificazioni e sviluppare elaborazioni soprattutto attraverso la scrittura della Commedia. Il poema sacro annuncia l’aspirazione alla giustizia ottenibile secondo l’ordine impresso da Dio alla realtà del mondo. Oltre a ciò, la rivisitazione della cultura classica e biblica fa da sfondo a un presente gravato di amarezze. Il sovvertimento dei valori morali e civili è motivo di franca denuncia e di acuta sofferenza, mentre la descrizione dei propri contemporanei permette a Dante di trovare uno schermo su cui proiettare, identificandosi o differenziandosi, moti profondi dell’anima.
Il trauma e la poesia del dolore
L’esilio da Firenze cui Dante fu costretto il 27 gennaio 1302 per la condanna seguita alle false accuse di baratteria, frode, estorsione e pederastia, fondò l’epopea del ghibellin fuggiasco. L’Alighieri ricevette un’ammenda di 5000 fiorini, il bando per due anni, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; poi, non essendosi presentato a discolparsi, venne condannato al rogo e alla confisca dei beni. Dante, exul immeritus, diventò l’emblema dell’ingiustizia esercitata da un potere ecclesiastico interessato più alle ricchezze terrene che al bene spirituale. La figura di Bonifacio VIII, pontefice avido e settario, si delinea soprattutto nei canti XIX e XXVII dell’Inferno, luogo cui lo stesso papa, con anticipo sulla propria morte, viene condannato. Ricorre poi con costanza in altri passi del poema, trovando acme di critica nel Paradiso, ove, lungo il canto XXVIII, l’invettiva di San Pietro individua i tratti dell’usurpatore e con veemenza coinvolge nell’accusa il papato avignonese. La certezza con cui la colpa deve essere punita costituisce la trama del mondo infernale e ispira la poesia dell’infinito dolore che lo permea. Considerando la gravità della condanna ricevuta dal poeta, mentre tornava in patria da un’ambasceria condotta a Roma presso lo stesso Bonifacio VIII, possiamo intendere il senso traumatico della vicenda. Il trauma psichico è una ferita emozionale, un evento improvviso e intenso cui l’Io del soggetto non riesce a far fronte; dotato di effetti perturbanti, può produrre disorganizzazione dell’equilibrio personale ed essere fonte di sofferenze emotive difficilmente tollerabili. Il trauma rappresenta un afflusso di stimoli dolorosi che incidono sull’Io fino a indurre sintomi d’angoscia destinati a riattivarsi quando si ripetano fatti capaci di evocare l’impatto originario disorganizzante. L’Inferno è, dunque, raffigurazione del trauma e della sua violenza. Spazio intriso di eterno dolore, segnato da lugubri procedure, svela, attraverso i percorsi strazianti della sofferenza, l’aspetto perverso del peccato e della sua punizione. L’anima dannata senza appello mostra l’esito di una dissoluzione psichica che rappresenta la definitiva morte al bene e la lontananza più completa dalla condizione umana. Così, la condanna subita dal poeta lo trascina entro l’inferno dell’esilio e lo segna con l’irrimediabile condizione del mancato ritorno. La poesia ha, tuttavia, consentito a Dante di opporre uno schermo emotivo al trauma dell’allontanamento dalla patria, tanto da poter descrivere con efficacia i tormenti dei dannati e l’inesorabile consistenza della giusta pena, attiva contro coloro che si mostrarono nemici del bene. La condanna terrena di Dante percorre l’intero poema[1]; si tratta di profezie post eventum: hanno inizio nell’Inferno (X, XV, XXIV), si rintracciano entro il Purgatorio (VIII, XI) e il Paradiso (XVII). Mostrano uno stato di consapevolezza ormai raggiunto e una dolorosa accettazione della nuova identità, quella che ha reso Dante «ben tetragono ai colpi di ventura»[2]. L’elaborazione dell’evento traumatico appare ormai possibile, tanto che l’Io poetico ha potuto impegnarsi nella creazione di un’opera per la cui stesura è stato necessario l’impiego di energie psichiche non gravate dal peso eccessivo dei conflitti emozionali.
L’etica della vita contemplativa
Entro la trama della seconda cantica, si può ricostruire il percorso di elaborazione compiuto dal poeta. Il ripristino della condizione etica dà forma ai comportamenti e ai pensieri delle anime che popolano il Purgatorio. Si percepisce la centralità del pentimento e della riparazione; questa, pur segnata da prove lunghe e dolorose, viene alleviata dalla certezza di raggiungere la contemplazione di Dio. L’etica dantesca è fondata sulla ricerca della felicità, sull’adesione a un bene superiore che risplenda a riflesso della giustizia eterna. Questo stato deve essere propagato sopra la terra, tanto nella vita quotidiana quanto nell’equilibrio tra il potere temporale e quello spirituale. Per meglio intendere il compimento dell’elaborazione psicologica condotta dal poeta, occorre partire dal finale: l’incontro di Dante con Beatrice nel paradiso terrestre. Il rimprovero cui la donna ricorre per riprendere Dante parte dalla descrizione del suo traviamento: «e volse i passi suoi per via non vera,/ immagini di ben seguendo false,/ che nulla promission rendono intera»[3]. Quale fu l’errore commesso dal poeta? Dante ha parlato di «sonno», di abbandono della «verace via»[4]; poi confessa l’adesione al «falso … piacer» delle «presenti cose»[5]. Beatrice sottolinea quanta importanza abbia avuto l’atto di mostrargli il destino delle «perdute genti»[6], di fargli toccare con mano la consistenza dei patimenti infernali. Concordo col Pascoli di Sotto il velame, quando asserisce che il poeta dovette ripulire, nel suo viaggio, «il cuore e l’occhio»[7] attraverso tortuosi percorsi su vie di dolore infinito, attraverso il contatto con la vampa delle fiamme, evocative del rogo cui l’autorità podestarile in Firenze lo aveva condannato. Il trauma ha costituito un elemento disorganizzatore, ma è dipeso, nella sua genesi, dal ruolo pubblico rivestito dal poeta. Il sonno della ragione e l’adesione a comportamenti ispirati a un bene non autentico possono essere intesi come il rifiuto degli ideali di bellezza interiore (rappresentati da Beatrice), attuati col ritiro dalla vita contemplativa e l’impegno in quella attiva: «questi si tolse a me e diessi altrui»[8]. «Nel 1295, iscrivendosi a una delle Arti, Dante si fa popolano … Abbandona la via della contemplazione e imbocca la strada della vita attiva»[9]. Da cinque anni è morta Beatrice. L’anno 1300 segna per il poeta l’inizio del periodo infausto che lo porterà alla condanna. Seguendo l’interpretazione che Giovanni Pascoli offre ne la Mirabile visione, «questa è la via non vera»[10]. L’ingresso nella vita attiva, non rappresenterebbe, dunque, cosa malvagia, ma «imperfetta e inefficace … e distante all’infinito da Dio»[11]. L’adesione all’attività politica è, dunque, lo stato che ha favorito un trauma capace di precipitare Dante entro gli abissi della disperazione, costringendolo all’esilio. Da quel trauma prende origine la Commedia. Il cammino diretto alla sommità del colle viene impedito dalle fiere, in particolare dalla lupa. Qui giunge il soccorso di Virgilio: «dinanzi a quella fiera ti levai,/ che del bel monte il corto andar ti tolse»[12]. Similmente la partecipazione alla vita attiva è stata del tutto preclusa all’Alighieri: «a Firenze si scatena la lupa e il poeta, agnello e nemico dei lupi, viene offeso e cacciato»[13].
Tra Catone e Matelda
Il percorso compiuto dal poeta per recuperare lo stato etico e rinnovare la disposizione alla vita contemplativa si snoda entro l’intera prospettiva offerta dal monte purgatoriale. Custode del secondo regno è Catone, figura che accoglie Dante dopo l’uscita «dall’aura morta»[14]. L’invito alla contemplazione è diffuso sui versi iniziali della cantica, ove sono descritti il color di zaffiro propagato sul cielo e lo splendore di quattro astri misteriosi, visti solo dai progenitori dell’umanità. «Goder pareva il ciel di lor fiammelle»[15]: la dimensione libidica si associa al recupero del benessere spirituale. In questo, il desiderio dell’individuo uscito dall’inferno del patimento psichico trova promesse di soddisfazione, aspirazioni alla trasformazione del doloroso smarrimento. Marco Catone viene indicato come figura dotata di valore e di profonde doti morali. Asserragliatosi in Utica, sul litorale africano, preferì darsi la morte piuttosto che cedere a Giulio Cesare, di cui osteggiava la politica. Martire nutrito di ideali stoici, rappresenta un esempio di esercizio del libero arbitrio; questo viene attuato anche attraverso il rifiuto della vita in nome di un bene superiore. Il recupero della posizione etica appare, dunque, conquista di libertà. A uno stato libero aspira la ricerca del poeta: «libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta»[16]. Quella stessa libertà fu conseguita da Catone, quando, vedendo ormai prossimo l’arrivo di Cesare e il suo trionfo, scelse di darsi la morte piuttosto che chiedere la grazia al dittatore, responsabile di avere determinato il sovvertimento completo dei principi repubblicani. Catone suscita al poeta la riverenza che un figlio deve al proprio padre e allo stesso tempo emana una luce densa di suggestioni materne, assumendo splendori solari adatti ad affascinare chi lo incontra. Significativa è la richiesta dell’anziano custode. Questi si rivolge a Virgilio, invitandolo a compiere un rito sulla spiaggia dell’antipurgatorio: « … e fa’ che tu costui ricinghe/ d’un giunco schietto, e che gli lavi il viso»[17]. La purificazione del viandante deve passare attraverso gesti evocativi di dolcezza e umiltà, cosicché egli possa presentarsi con occhi liberi e non offuscati da brame terrene all’angelo guardiano dell’alto monte. La soluzione del trauma è accompagnata da un contatto col Sé più intimo dell’individuo, disposto a entrare in comunicazione con le parti della mente legate al ripristino di affetti primordiali, già sperimentati nel corso dello sviluppo psichico. Questo passaggio appare un recupero di gesti semplici, necessari all’ingresso nello splendente emisfero. Le sue luci sono cariche di significati emotivi in parte idealizzati e annunciano un viaggio trasformativo, indispensabile per il ripristino della salute psichica, per la salvezza dell’anima. Il giunco colto da Virgilio immediatamente rinasce: simbolo di quella umiltà che sorge dalla misericordia e può nutrire se stessa all’infinito.
All’estremo opposto del monte, nel paradiso terrestre, avviene l’incontro con «una donna soletta che si gia/ cantando ed iscegliendo fior da fiore»[18]. Scopriremo solo nell’ultimo canto che si tratta di Matelda, simbolo della purezza di vita entro l’Eden primordiale. La visione della donna splendente viene preceduta dal sogno in cui il poeta scorge Lia e Rachele. Spose entrambe di Giacobbe, raffigurano l’una la vita attiva, l’altra quella contemplativa. Al risveglio, Dante è salutato da Virgilio che, allontanandosi definitivamente da lui, lo dichiara padrone del libero arbitrio. Anche Lia nel sogno ha raccolto fiori. La simmetria fra le due donne bibliche e le personalità di Matelda e di Beatrice aprono le considerazioni sullo iato esistente fra vita attiva e vita contemplativa. Matelda possiede funzioni determinanti per la salvezza di Dante. Come seguendo un rito sacerdotale, presiede alla sua purificazione attraverso l’immersione nei fiumi, il Letè e l’Eunoè, che solcano il paradiso terrestre. Sorta di nuovo battesimo, il doppio atto lustrale consente di rendere nuova l’anima che, dopo l’espiazione in Purgatorio, può dissetarsi alle rive del perdono. Le acque dei due fiumi hanno il potere di agire solo se l’immersione avviene in entrambi secondo una sequenza preordinata. Dapprima occorre entrare nel Letè, così da cancellare il ricordo dei peccati commessi; successivamente le acque dell’Eunoè ripristineranno la memoria del bene compiuto. L’efficacia del rito è ottenuta grazie al pentimento raggiunto dall’anima che si accinge alla purificazione: «Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi/ … al tuo fedele,/ che, per vederti, ha mosso passi tanti»[19]. Tre figure femminili, emblema delle virtù teologali (fede, speranza, carità), accolgono Dante dopo la prima purificazione e si rivolgono a Beatrice. Questa si toglie il velo per mostrare come la bellezza di cui risplende possa esaltarsi a specchio della infinita perfezione presente entro le beatitudini celesti. La riparazione del trauma è compiuta, il senso armonioso del vivere appare ripristinato. Dante, come un bambino che riconosce se stesso nel sorriso materno, può prepararsi all’ultima tappa del lungo viaggio spirituale.
Scias quod ego fui successor Petri
La riparazione è un atto psichico secondo il quale «il soggetto cerca di mitigare gli effetti delle … fantasie di distruzione sul suo oggetto d’amore»[20]. Il senso di colpa che deriva dal sentimento distruttivo accompagna il desiderio di ripristinare, in modo fantasmatico, i caratteri appartenenti all’oggetto amato fino a consentire all’individuo di identificarsi con i suoi aspetti benefici. Si tratta di un riconoscimento del proprio Sé profondo che accompagna nell’infanzia l’acquisizione della identità soggettiva, quella cui la madre offre sostegno. Non dissimile da questo passaggio è il percorso compiuto da Dante; egli ha potuto specchiarsi, attraverso il ritorno alla vita contemplativa, nel volto di Beatrice. Questo apre non solo la via del bene, ma permette anche l’accesso a un atto sovrumano: affacciarsi alla visione divina. Il ripristino del rapporto con l’oggetto d’amore consente, entro la Commedia, l’accesso a beatitudini superiori. Per realizzare questo, si rende necessaria un’ascesi ottenuta con la salita lungo i ripidi versanti del monte purgatoriale. Dante mostra di avere acquisito pienamente il sentimento della responsabilità; ne dà prova, indicando gli spazi entro cui, dopo la morte, egli stesso dovrà espiare i propri peccati. L’invidia è piccola colpa: «Gli occhi – diss’io, – mi fieno ancor qui tolti,/ ma picciol tempo; ché poca è l’offesa/ fatta per esser con invidia volti»[21]; per un breve periodo, Dante sosterà nel secondo girone ove ai penitenti gli occhi vengono cuciti. Più grave è il peccato di superbia: «Troppa è più la paura, ond’è sospesa/ l’anima mia, del tormento di sotto,/ che già lo incarco di laggiù mi pesa»[22]. Nel primo girone, le anime dei superbi procedono schiacciate sotto il grave peso dei massi che recano sul dorso. Anche a Dante toccherà questa pena. Leggendaria era la sdegnosa superbia dell’Alighieri, stato di superiorità che lo elevava sul volgo: «Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosafo mal grazioso non bene sapea conversare co’ laici»[23]. L’incontro con Oderisi da Gubbio, celebre miniatore, punito anch’egli per il peccato di superbia, ha aperto la riflessione sulla fugacità della gloria terrena: «Non è il mondan romore altro che un fiato/ di vento, ch’or vien quinci ed or vien quindi/ e muta nome, perché muta lato»[24]. Nell’attestare le proprie mancanze, Dante si mostra umano e dolente, presentando superbia e invidia come difese di un Sé fragile che si è allontanato dalla verità interiore del bene.
Seguendo affinità testuali ed emotive, lungo il Purgatorio si rintraccia la formazione di analoghi punti di vista etici. Significativa è la visione riservata alle figure dei papi, differente rispetto a quella assunta dal poeta nell’Inferno. Prendiamo, entro il canto XIX del Purgatorio, l’incontro con Adriano V Fieschi, pontefice ligure dei conti di Lavagna. Dante indica la vanità dei beni terreni attraverso il sogno in cui compare una «femmina balba,/ negli occhi guercia, e sovra i piè distorta,/ con le man monche, e di colore scialba»[25]. Simulacro di sirena che illude i naviganti, viene contrastata da una donna «santa e presta»[26], che riesce a svelare il contenuto putrido del suo ventre. La filosofia rivela quale inganno sia presente nella ricerca dei beni mondani, sostenuta da cupidigia e lussuria. Avido in vita fu il pontefice che Dante incontra nel quinto girone, ove si puniscono gli avari e i prodighi. Adriano svela amaramente la corruzione presente nella Chiesa, la «vita bugiarda»[27], la difficoltà a conservare il manto papale integro dalle indegne cure materiali. Icastica e latina, e dunque solenne, è la descrizione della sua missione, tenuta come successore dell’apostolo: «Scias quod ego fui successor Petri»[28]. Dante gli risponde con riverenza; si avvicina a lui con premura devota. Nel peccatore il poeta non vede soltanto l’individuo, ma anche l’incarnazione del ruolo pontificale. A questo omaggio Adriano risponde col brusco invito a considerare la parità degli esseri umani dinanzi a Dio: «Non errar: conservo sono/ teco e con gli altri ad una potestate»[29]. Onore al ruolo del pontefice, constatazione della uguaglianza tra gli uomini voluta dal progetto di redenzione: la nuova posizione etica è lontana dalle imprecazioni infernali contro il papato corrotto.
Ancor più manifesta è l’elaborazione del trauma che compare nel XX canto del Purgatorio. Qui Bonifacio VIII non viene più additato soltanto come colpevole di corruzione. In quanto vicario di Cristo, può essere, invece, rivestito di sacra dignità. Il riferimento è allo schiaffo di Anagni (7 settembre 1303): l’oltraggio subito dal pontefice per mano di Sciarra Colonna. Nel canto XX, si enumerano i crimini commessi dai discendenti di Ugo Capeto. Tra questi, l’attacco di Filippo il Bello, re di Francia, al potere pontificio. Se Sciarra Colonna è il materiale esecutore dell’oltraggio al pontefice, mandante è il sovrano francese, nemico del papa. Nei versi di Dante, la figura di Bonifacio si dissolve, per lasciare posto a Cristo, nuovamente oltraggiato e crocifisso:
“Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto/ veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,/ e nel vicario suo Cristo esser catto./ Veggiolo un’altra volta esser deriso;/ veggio rinnovellar l’aceto e ‘l fele,/ e tra vivi ladroni essere anciso./ Veggio il novo Pilato sì crudele,/ che ciò nol sazia, ma sanza decreto/ porta nel tempio le cupide vele”[30].
I vessilli francesi si innalzano con l’emblema del giglio ad Anagni, presso palazzo Caetani. Il papa, che esibisce le sacre insegne, viene catturato. Liberato, morirà tra profonde angustie circa un mese dopo (11 ottobre 1303). Dante porta sulla scena un nuovo venerdì santo in cui Bonifacio scompare, mentre Cristo prende il suo posto tanto da apparire la vera vittima del sovrano francese. Allo stesso modo, la sofferenza patita dal poeta finisce per svanire, mentre l’affronto subito dalla Chiesa assume la forma di un grave trauma che, secondo la visione dantesca, conduce a morte papa Caetani.
«Era già l’ora che volge il disio/ ai naviganti e intenerisce il core/ lo dì ch’han detto ai dolci amici addio»[31]. Il tema del disio apre il tempo del ritorno: quello entro se stessi; prepara l’approdo a una nuova terra: la visione di Dio. Allo stesso modo, l’esule sente che non potrà più tornare in patria. I luoghi del peregrinare segnano confini diversi. L’approdo alla città interiore della solitudine feconda e degli affetti immutabili ha ormai reso Dante più saldo, capace di affrontare le avversità, libero finalmente di sentirsi «puro e disposto a salire alle stelle»[32].
[1] Si fa riferimento a D. Alighieri, La Divina Commedia riveduta nel testo e commentata da G.A. Scartazzini, IV edizione nuovamente riveduta da G. Vandelli, Ulrico Hoepli, Milano 1904.
[2] Paradiso XVII, 24.
[3] Purgatorio XXX, 130 – 132.
[4] Inferno I, 11 – 12.
[5] Purgatorio XXXI, 34 – 35.
[6] Purgatorio XXX, 138.
[7] G. Pascoli (1886 – 1902), Scritti danteschi in Prose, 2 tomi, A. Mondadori, Verona 1971, tomo II, vol. II, p. 731.
[8] Purgatorio XXX, 126.
[9] G. Capecchi, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli, Longo, Ravenna 1997, p. 130.
[10] G. Pascoli, Scritti danteschi, cit., p. 920.
[11] Ibidem.
[12] Inferno II, 119 – 120.
[13] G. Capecchi, Gli scritti danteschi di Giovanni Pascoli, cit., p. 132.
[14] Purgatorio I, 17.
[15] Ibidem, 25.
[16] Ibidem, 71 – 72.
[17] Ibidem, 95 – 96.
[18] Purgatorio XXVIII, 40 – 41.
[19] Purgatorio XXXI, 133 – 135.
[20] J. Laplanche, JB Pontalis, Vocabulaire de la Psychanalyse, PUF, Paris 1967, trad. It. Enciclopedia della psicoanalisi, 2 voll., Laterza, Bari, 1997, vol. II, p. 557.
[21] Purgatorio XIII, 132 – 135.
[22] Ibidem, 136 – 138.
[23] G. Villani (1348), Nuova cronica, 13 libri, Giunti, Firenze 1559, libro X, p. 136.
[24] Purgatorio XI, 100 – 102.
[25] Purgatorio XIX, 7 – 9.
[26] Ibidem, 27.
[27] Ibidem, 108.
[28] Ibidem, 99.
[29] Ibidem, 134 – 135.
[30] Purgatorio XX, 85 – 93.
[31] Purgatorio VIII, 1 – 3.
[32] Purgatorio XXXIII, 145.