Cultura e Società

La psicoanalisi e i suoi confini

24/09/09

J. Altounian, P. Fonagy, G.O.Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J. P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik (2009)

A cura di G. Leo

Roma, Astrolabio, pagine 223, euro 20.00

Recensione di Gabriella Giustino 

Lo scopo principale di questo libro, scritto a più mani, è quello di sviluppare il tema dell’integrazione della nostra disciplina con altre scienze che si riferiscono a epistemologie diverse ma che sono comunque interessate alla comprensione della mente.

Il concetto di confine è inteso sia come limite che come zona di contatto e confronto. Dopo la crisi della psicoanalisi negli anni novanta, siamo attualmente di fronte al rischio di un eccesso di relativismo. I gruppi di ricerca della FEP (Federazione Europea di Psicoanalisi) hanno contribuito ad individuare numerosi modelli psicoanalitici. La tesi di fondo è che ciascun modello clinico può considerarsi valido purchè possieda una propria coerenza interna.

Il libro di cui stiamo parlando si spinge ancora più in là e cerca di risolvere il problema delle evidenze scientifiche e della coerenza “esterna” del metodo psicoanalitico.  L’integrazione tra psicoanalisi, neuroscienze e ricerca sull’infanzia è la ricetta proposta da Jiménez per il futuro della nostra disciplina, per pensare ad un nuovo paradigma scientifico per la psicoanalisi. Per l’Autore alcuni concetti o modelli che non vengano convalidati anche da altre scienze tendono a perdere d’importanza, altri invece, se le evidenze convergono, possono svilupparsi e progredire. Credo si possa affermare che questo processo si è già verificato nel corso dello sviluppo del pensiero psicoanalitico; talora un paradigma o un concetto veniva intuitivamente abbandonato perché emergeva che non dava risultati nella clinica mentre altri o nuovi paradigmi si consolidavano.  Tuttavia questo è avvenuto solo all’interno della disciplina e in assenza di una sistematizzazione scientifica. Jiménez descrive, ad esemplificazione del suo punto di vista, l’opposizione tra modello pulsionale e relazionale. Egli dimostra che l’incompatibilità tra i due modelli nasce anche dal modo di definire alcuni concetti base.

Se sostituiamo il concetto di pulsione con quello di motivazione, o addirittura di emozione, allora ci ritroviamo d’accordo anche con Freud.

Il modello relazionale ha determinato certamente un notevole salto di paradigma, considerando la relazione come fattore terapeutico principale e mettendo definitivamente in crisi il concetto di neutralità analitica. Gli studi sull’attaccamento e gli sviluppi che ne sono derivati, la ricerca e l’osservazione infantile e l’apporto delle neuroscienze hanno convalidato queste intuizioni. In ambito neuroscientifico molte ricerche sembrano convergere valorizzando il pensiero psicoanalitico; pensiamo, tanto per citarne solo alcune, ai neuroni specchio, agli studi di Singer sull’empatia, a quelli di Edelman sulla memoria. Allora, lungi dal cadere in esemplificazioni eccessive, evitando di correre il rischio di correlazioni ingenue tra le diverse discipline, sembra davvero auspicabile questo tentativo d’integrazione che non significa confusione o sovrapposizione ma confine e confronto.

Fonagy nel suo contributo al libro, illustra vari studi basati sulle evidenze empiriche in psicoterapia e psicoanalisi. La parte più interessante del suo lavoro riguarda le ricerche sull’attaccamento che spesso hanno fornito una convalida delle teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile.  A questo proposito è molto chiaro l’esempio di convergenza tra il concetto di “rispecchiamento rispondente”, che deriva dalla ricerca sulle interazioni precoci madre bambino, e il concetto psicoanalitico di madre contenitore di Bion .

Il contributo di Kernberg al libro è spiccatamente autobiografico. Egli, attraverso la descrizione del suo percorso formativo, illustra il suo modo di costruire un approccio psicoanalitico che integra vari modelli mettendo insieme elementi della psicologia dell’Io nordamericana, suggestioni kleiniane, le teorie di Edith Jacobson e della Malher. Ne deriva una complessa teorizzazione sul mondo interno dove la dinamica tra il Sé, l’oggetto e l’affetto corrispondente, sono considerati gli elementi principali per la diagnosi e il trattamento dei gravi disturbi di personalità. Kernberg afferma che proprio il suo personale atteggiamento, non  pregiudiziale, l’ha spinto ad elaborare il suo modello col desiderio di importare in Nordamerica alcune concettualizzazioni allora sconosciute o avversate. Questo merito gli va certamente riconosciuto ma, a mio parere, il suo modello risulta talora troppo complesso, quasi iperinclusivo. Tralascio, per motivi di spazio, altri contributi stimolanti come ad esempio quello di Grotstein sul concetto di O bioniano (confrontato con gli insiemi inconsci infiniti, simmetrici e indivisibili di Matte Blanco e con vari e autorevoli contributi neuroscientifici), oppure quello di Gabbard sulle patologie borderline o ancora quello di Resnik sul confine tra psicoanalisi e psichiatria e sul trattamento della psicosi.

Vorrei concludere ricordando che il recente congresso IPA di Chicago era dedicato alle convergenze e divergenze in psicoanalisi: ampi confronti tra modelli psicoanalitici e neuroscientifici hanno permesso di riflettere in dettaglio sulla nostra disciplina e sulla comprensione di varie psicopatologie. Quello che a mio parere sempre più si delinea all’orizzonte è lo sviluppo di modelli integrati, complessi e specifici che, lungi dal danneggiare la nostra disciplina, la rinforzano nella sua validità terapeutica. La mente è complessa ed anche la sua comprensione tramite il metodo psicoanalitico deve confrontarsi con tale complessità.

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