La più recondita memoria degli uomini
di Mohamed Mbougar Sarr (Edizioni e/o, 2022)
Daniela Federici
Parole chiave: #letteratura, #Africa, # memoria, #limite
Qui il tarlo nei legni
una sete che oscena si rinnova
e dove fu amore la lebbra
delle mura smozzicate
delle case dissestate.
Vittorio Sereni, Tempo provvisorio
Vincitore del Goncourt con un romanzo definito un inno alla letteratura, Sarr tesse una labirintica riflessione sul senso dello scrivere e della vita stessa, mettendo a nudo il paradosso che anima la ricerca di conoscenza: per ogni frammento di comprensione siamo demandati all’infinito ignoto che sottende, a un enigma che mentre mira a risolversi si rinnova.
Cercare di fare letteratura, si, ma anche parlarne perché parlarne significa anche mantenerla in vita, e finché sarà viva lei la nostra vita, per quanto inutile, per quanto tragicamente comica e insignificante, non sarà andata del tutto perduta.
Il protagonista del romanzo, Diégane, sembra un alterego dell’Autore: giovane scrittore trasferitosi in Francia dal Senegal per continuare gli studi, si muove in un ambiente dove poesia e letteratura sono il tramite vitale del pensiero, delle relazioni, della seduzione.
Il suo oggetto d’interesse fin dai tempi del liceo è il mitico Elimane, scrittore suo conterraneo che negli anni ’30 aveva scritto un libro di culto, Il labirinto del disumano. Il romanzo aveva al centro una profezia: quando un Re chiese alla terra il potere assoluto, questa pretese in cambio le ceneri dei vecchi. Il sovrano accettò; fece bruciare gli anziani del suo regno e ne disperse i resti intorno al palazzo, dove crebbe una foresta macabra che venne chiamata appunto il labirinto del disumano.
Incensato come il capolavoro della letteratura nera, il libro venne poi accusato di plagio e messo alla gogna. L’editore, macchiato dalle polemiche, fece ritirare e bruciare tutte le copie. Sparito dalla scena letteraria, Elimane aveva finito per alimentare un mito per chi ne conservava il ricordo.
Diégane, che come altri giovani letterati del suo circolo si interroga sul senso e la necessità della scrittura, brama di possedere il segreto, la verità pura e profonda di quel romanzo per scrivere un libro così essenziale da poter compendiare ogni storia, da rendere inutile ogni altra narrazione.
L’incontro con l’attempata e fascinosa Siga D., il Ragno Madre, una celebre scrittrice che lo seduce e gli consegna una copia del leggendario testo, esalta la sua ossessione, spingendolo a intraprendere una scrupolosa ricerca sulle tracce del romanziere scomparso.
Con questo espediente narrativo, Sarr ripercorrere la Storia – dalla colonizzazione agli orrori della seconda guerra Mondiale – ma soprattutto anima, attraverso il suo protagonista, una profonda riflessione critica sugli scrittori – e non solo quelli africani.
Le ambiguità a volte confortevoli, spesso umilianti, della nostra situazione di scrittori africani… l’esotismo compiacente… l’autofiction… un esangue realismo che si limitava a riprodurre il mondo senza interpretarlo o ricrearlo… Incapaci di creare le condizioni per estetiche innovatrici dei nostri testi, troppo pigri per pensare e pensarsi attraverso la letteratura, troppo asserviti ai premi letterari… troppo pusillanimi per osare una rottura…
Nel suo viaggio-diario Diégane si interroga sul rapporto fra la scrittura e la vita.
Voi credete che la letteratura corregga la vita, o la completi, o la sostituisca, ma è sbagliato. Gli scrittori, e ne ho conosciuti parecchi, sono sempre stati tra gli amanti più mediocri – gli dirà Siga D. – perché mentre fanno l’amore pensano già alla scena che quell’esperienza diventerà… sono intrappolati nelle loro finzioni.
Non si può vivere l’istante e scriverlo nello stesso momento.
Con quale significato allora si colma il divario fra vivere e scrivere?
Noi non scrivevamo né per il romanticismo della vita da scrittore, che è la caricatura di se stesso, né per i soldi… né per la gloria, né per il futuro… né per trasformare il mondo… non sapevamo più cosa bisognasse fare al mondo se non scrivere ostinati e stremati e gioiosi senza speranza ma senza facile rassegnazione, con l’unico obiettivo di finire il meglio possibile, cioè con gli occhi aperti. Vedere tutto, non farsi sfuggire niente, non battere ciglio, non rifugiarsi sotto le palpebre…
Ma è infelice chi ha visto e vive nel ricordo che ha della bellezza… se il ricordo gli impedisce di immaginare… se si scorda di essere capace di reinventare ciò che non vedrà più… Un uomo senza immaginazione è sempre infelice.
Il libro di Elimane – scrive Sarr – aveva qualcosa sia della cattedrale che dell’arena. Come si rende una scrittura che non ferma il momento in modo sterilmente contemplativo, occluso alla possibilità di andare oltre? Se il segreto è una scrittura viva che scruta nell’anima, come si imprime verità e bellezza a una storia? Si deve forse passare dal Male, dalla Disperazione?
Perché l’uomo soffre di ciò che non può dimenticare, né raccontare, né tacere e alla fine ne muore.
Sappiamo che all’Umano necessita di poter dare forma e voce al dentro per vivere. Ma la sapienza tecnica e il potere evocativo che occorrono per suscitare nel lettore l’effetto di straniamento, l’epifania identificativa che ci commuove e si fa universale, non è qualcosa che si possa mettere in atto scientemente in modo deliberato. “Lo scrittore può scegliere di cosa scrivere ma non a cosa è capace di dar vita” (F. O’Connor).
Con Il labirinto del disumano Sarr crea un mito di scrittura perfetta, così perfetta che vi è compresa la sua stessa caduta, la scomparsa dell’Autore nel lato nascosto del paradiso della letteratura. Quel romanzo nel romanzo intorno a cui tutto ruota, cui si allude attraverso le impressioni che suscita, rappresenta l’inafferrabile per definizione, che può essere solo sfiorato, intravisto. E schiude una sorta di mise en abyme nella trama.
Un grande libro parla sempre e soltanto di niente, ma dentro c’è tutto… un grande libro… cerca soltanto di dire o scoprire qualcosa, ma quel soltanto è già tutto…
Questa è la ferita che non si deve cicatrizzare ma ardere per sempre, rinnovando nella sua mancanza la spinta del nostro inesausto cercare: la vita ci appartiene solo quando ci sfugge.
Quello che cerchiamo, caro il mio diario, forse non è mai la verità in quanto rivelazione, ma la verità in quanto possibilità, in quanto luce in fondo alla miniera in cui da sempre scaviamo senza lampada frontale… Il fuoco di un’illusione, la passione del possibile. Che cosa c’è in fondo alla miniera? Ancora miniera, una gigantesca muraglia di carbone e il nostro piccone, i nostri colpi, i nostri ansiti. Ecco l’oro.
Per un senso della vita che si svela solo alla fine, l’importanza di trovare la propria domanda non è per vedere svelate le risposte, ma per affrontare il silenzio di una domanda che non ha risposta, il cui unico obiettivo è ricordare a chi la pone la parte di enigma portato dalla sua vita… per toccare con mano il fitto mistero al cuore del proprio destino, cosa che non gli sarà mai spiegata, ma che occuperà nella sua vita un posto fondamentale.
Questo il messaggio dell’Autore: Ogni libro che punta all’assoluto è votato al fallimento, e nella visione lucida di quest’imminente fallimento batte il cuore ardente dell’iniziativa. Desiderio di assoluto e certezza del nulla: ecco l’equazione dell’azione creativa.
Il desiderio che ha dentro un cuore di eterna mancanza.
“La bellezza non è che l’inizio del tremendo” diceva Rilke. Sembra risuoni anche nella mente di Sarr quando scrive: La letteratura mi apparve con le sembianze di una donna dalla bellezza terrificante. Farfugliai che la stavo cercando. Lei si mise crudelmente a ridere e disse che non apparteneva a nessuno. Mi inginocchiai, la supplicai… sarò uno scrittore! Ma nel percorso notturno arriva sempre quel terribile momento in cui risuona una voce che ti colpisce come un fulmine rivelandoti o ricordandoti che la volontà non basta, che l’ambizione non basta, che essere una buona penna non basta, aver letto molto non basta… perfino esser famoso.. avere una vasta cultura.. l’impegno, la pazienza… inebriarsi di vita pura non basta, né allontanarsi dalla vita, credere nei propri sogni.. disossare la realtà non basta, che l’intelligenza.. la strategia.. la comunicazione non basta, neppure avere cose da dire.. il lavoro accanito.. nessuna di queste qualità basta quando si tratta di letteratura, perché scrivere esige sempre altro, altro, altro…
Quel che esige la letteratura – e la vita stessa – è la capacità di fare il lutto.
La funesta pretesa del libro essenziale consiste nel circoscrivere l’infinito, il suo desiderio sta nell’avere l’ultima parola nel lungo discorso di cui è la frase più recente. Ma l’ultima parola non c’è…
Come nella profezia: se bruciare i vecchi – chi ci precede, le origini – è la ricerca vana di un potere assoluto di autogenerazione e immortalità, il misconoscimento del limite e dell’altro è il macabro disumano di una foresta impenetrabile e mortifera.
Chi eravamo per pretendere di non dovere niente a predecessori verso i quali avevamo un debito immenso e impagabile? … non rappresentavamo niente se non granelli di polvere nell’infinito della letteratura, lo sapevamo, ma allora perché eravamo così arroganti, pretenziosi e ingiusti quando con tutta probabilità non valevamo di più? ci chiedeva la nostra coscienza, e noi a rispondere: lo facciamo, come forse tutti gli scrittori, perché proviamo l’angoscia di non trovare niente e non lasciare niente, e in fondo critichiamo noi stessi, esprimiamo il timore di non essere all’altezza, perché ci sentiamo in una caverna senza uscita e abbiamo paura di morirci dentro come topi.
Forse quel libro (che sembrava aver scoperto la via assoluta, per poi ritrovare la memoria del suo vano anelarvi) incappa nell’accusa di plagio perché siamo semplicemente figli della storia, cascami di lasciti generazionali e trasmissioni inconsce, ife di identificazioni e continue rielaborazioni soggettive dei processi rappresentativi. La conoscenza è un divenire fra progressione e ritorni di ciò che si ripresenta, tracce, fantasmi, miti, esperienza e inespressi, che si stratificano e riscrivono nell’inesausto lavorìo traduttivo della memoria e dello psichico.
Le ceneri auspicabili sono quelle di far propria l’eredità dei padri per possederla davvero, come diceva Goethe, riconquistarla creativamente per fecondarne il nostro divenire, per imprimere la propria cifra autoriale nella scrittura della vita.
Un tempo da spalare, concludeva la sua poesia Sereni, quanti anni per capirlo (Sereni, Tempo provvisorio).
La destinazione si confonde con l’origine, ci ricorda Sarr, la più recondita e continuamente rimossa memoria degli uomini.