Cultura e Società

“La nobiltà degli inermi” di R. Valdrè. Recensione di D. Federici

11/11/24
"La nobiltà degli inermi" di R. Valdrè. Recensione di D. Federici 2

Parole chiave: #vecchiaia, #madre, #morte, #malattia

La nobiltà degli inermi

di Rossella Valdrè (MC Edizioni, 2024)

recensione di Daniela Federici

Mourir cela n’est rien,
mais vieillir, oh, vieillir…
Brel, Vieillir

Una raccolta di poesie affiorate dalla necessità: la propria madre ricoverata in una RSA dalla quale non uscirà più. Rossella Valdrè improvvisa versi fra i labirinti della sofferenza e della fatica.

Una solitudine senza solitudine.

Un tempo fuori del tempo quell’istituzione che revoca riservatezza e singolarità, una montagna che prova a incantare la brevità che resta nella monotonia di uno scorrere infinito.

Le immobili.
Capi chini, / colli storti, /
odori e voci / cantilenanti, sempre /
si fissa un punto vuoto /
… ma perché, la mente cerca /
un orizzonte?

L’impossibilità di risolvere il ‘non essere più quel che si era’, limbo disadorno di una vita ridotta al suo osso, l’abdicare del desiderio e il tormento della dipendenza, la progressiva trasformazione di un corpo estraneo, ostile, passivo.

L’aver conosciuto la malattia e il lavorarci accanto da psicoanalista non bastano a prepararsi, a quel che comporta un legame profondo e conflittuale alla prova dell’inermità, del deperimento, della lunga anticamera al laborioso momento del morire, i ricordi che rigurgitano contro il cuore, la memoria impietosa di una figlia madre con una madre bambina.

Con il prolungarsi dell’esistenza, sottolinea Valdrè, i figli sempre più spesso arrivano a guardare alla morte dei propri genitori da un’età in cui il riflesso si fa più vicino e difficile da sostenere.

Questa erosione del nulla.

Sembra essere l’ammutolirsi del dialogo ciò che temiamo ancor più della morte, la lotta a un silenzio che trabocca sulla carta.

Non mi piace la realtà /
ma capirla si, evasione stando dentro. 

È un bisogno lo scrivere, per salvarsi dalle angosce, per comprendere e dare significato all’esistenza, per sviscerare l’irriducibile che chiude il suo cerchio riconsegnandoci al fascino ripugnante dell’inermità in cui nasciamo.

Scrive Antonio Porchia: “Vengo dal morire, non dall’essere nato. Dall’essere nato me ne vado” (Voci, Hoepli).

La lingua ricerca le sue risposte mancate, è la parola che salva, solleva dal peso colpevole, anela a tornare a prima che il linguaggio ferisse.

L’abbiamo sgomberata, /
la tua biografia in scatoloni /
che mai aprirò. /
Dolore così bianco, /
così duro, preciso come un compasso.

La morte di un genitore è l’unica naturalmente prevista, ma è mutilazione di qualcosa di sé, dei conti in sospeso di desideri, rimproveri e colpe. 

Senso, / perché sei lieve e profondo, /
ti si prova come un odore /
o un gusto, /
non si condivide. /
Solitudine del senso, /
ciò che è grave, è solitario.

Chi cura le malattie dell’anima diventa sacerdote del lutto come strumento e processo che ha il compito di elaborare il distacco dagli investimenti e l’integrazione della perdita, un disimpasto che dissipa i contorni del legame nel lento indugio di un tempo liminare in cui l’altro resta a lungo con noi.

Tra piacere e dispiacere /
esiste un crocevia. /
Si chiama nostalgia.

Le pagine di Rossella Valdrè sono un guado attraverso sentimenti messi a nudo, dialoghi allo specchio negli occhi della persona che esiste da sempre – “tempo mitico delle madri” (Simone de Beauvoir Una morte dolcissima, Einaudi). La donna attraverso la quale siamo venuti a essere, che ci ha più o meno visti, nella quale – a pochi passi dal suo scomparire – più o meno ci rivediamo.

Il corpo e l’anima, la miseria e la sacralità del sentire, il tormento di chi se ne va e di chi resta. Non si può non ritrovarsi fra quelle righe che sbandano emozioni mentre le inanellano.

Siamo sempre grati a chi esplora il buio e le asperità, portolano che accompagna la navigazione con qualche mappa tracciata a vista. Per gli analisti è un mestiere quell’esserci già passati e farsi viandanti dedicati a stare accanto.

Come un genitore che apre la strada.

Quando ti spegnerai /  
io non sarò pronta. /
Sono così stanca /
d’esser pronta.

Poi la vita continua. Un canovaccio che aspetta il nostro ricamo.

C’è da immaginare che, dopo la poesia, l’Autrice continuerà a cercare, perché, come ci dice Piera Aulagnier, “il punto di resistenza e insieme di fascinazione che singolarizza il rapporto con la teoria analitica” – al di là “della lezione imposta dalla clinica, spesso sotto forma di scacco, e della necessità di restare ricettivi a ciò che altri scoprono e offrono al nostro pensiero” – porta ogni analista a privilegiare gli elementi che gli permettono di approfondire le proprie questioni fondamentali (L’apprendista storico e il maestro stregone, La Biblioteca 2002).

E quali questioni più universali delle origini e della fine, il compimento della nobiltà degli inermi che siamo, in prestito alla vita che cerca un senso da seguire e da lasciare.

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