parole chiave: #solitudine, #violenza, #perdita
LA MIA INGEBORG
di Tore Renberg
recensione di Daniela Federici
C’è solo una solitudine,
e quella è grande e non è facile a portare.
Rilke, Lettere a un giovane poeta
Appartengo al passato. L’epoca in cui viviamo adesso non è la mia. (…) Avrebbe cambiato tutto quello che avevamo, tutto sarebbe proceduto a velocità incalzante, non aveva nessun rispetto per quello che era vecchio. Per quello che era mio.
Perché tutti vogliono portarmi via il mio mondo?
Questo romanzo di Renberg dà voce alle atmosfere furiose della sofferenza e al vuoto inquieto della solitudine, lo fa con una scrittura potente, scarna e affilata, che scolpisce un protagonista scomodo e tormentato, capace di far riflettere e scavare l’estraneo dentro di noi.
Ho voltato le spalle a questa nuova epoca molto tempo fa. Sono rimasto qui, nella parte alta della valle, con Ingeborg, con la segheria, con i boschi e la montagna, con le mie mani, con la scure, e adesso sta arrivando la fine. Non ho più la mia Ingeborg, la piccola luce che avevo in vita si è spenta, ma ho ancora qualcosa: sono quello che sono.
Tollak è un uomo indurito dal tempo, scontroso e chiuso nel suo isolamento, con la bottiglia a sedare il sangue amaro, con i ricordi della moglie a invadergli le notti, ora che ha perduto il senso che lei aveva saputo dare alla sua vita.
L’amavo in maniera totale, come nessun altro uomo ha mai amato una donna e maledico le forze demoniache che me l’hanno portata via.
Lei brillava come una moneta al sole, allegra, gentile, tutti si stupivano che avesse voluto lui.
La madre gli aveva sempre detto: Quando due persone si incontrano e cadono uno nelle braccia dell’altra, allora la terra trema e succedono cose meravigliose. Conoscere Ingeborg aveva dato improvvisamente corpo a quella frase. Lei era la persona cui si era consegnato e che gli aveva permesso di essere il meglio di sé. Il sogno realizzato di quando ci si sente amati per quello che si è. Nonostante quello che si è.
Prima di incontrarti, ho fatto un mucchio di stronzate, le avevo detto. Se ti capitasse di sentire qualche brutta storia su di me, potrebbe anche darsi che sia vera. … Adesso non sono più così, avevo continuato. Non ho più motivo di esserlo.
Il suo amore con lei era un’intesa annidata dentro il suo mondo, l’unico che conoscesse e sapesse abitare. Non riesco ad avere troppa gente intorno. Con il passare degli anni lo aveva capito poco alla volta e alla fine avevamo trovato il nostro modo quieto e silenzioso di vivere, il mio.
Poi erano venuti i due figli, e dopo qualche anno anche le difficoltà con la segheria, quell’eredità che il padre gli aveva garantito lo avrebbe tenuto al sicuro. Ma l’aria era cambiata, la gente aveva iniziato a comprare legno a buon mercato, non voleva più la qualità di pinete cresciute lentamente. E Tollak non sapeva più come stare al passo con i tempi.
Ma forse anche Oddo aveva contribuito a cambiare le cose: un ragazzino problematico che la madre abbandonava a se stesso per il paese, che lui le aveva chiesto di poter portare a casa loro e crescere come un figlio. Ingeborg ci aveva pensato e aveva provato a convincere i ragazzi ad accoglierlo come un fratello, ma non era facile, lui era diverso e sapeva di esserlo.
Negli anni i figli erano cresciuti e se n’erano andati lontano, a inseguire le lusinghe della città.
E all’improvviso, in tutto quell’isolamento, Ingeborg era scivolata in un periodo buio.
Si era insinuato come fa la bruma notturna quando cala sui campi.
Capivo poco e chiedevo poco… aspettando che tutto finisse…
Tollak ricordava quel che gli aveva detto il padre di Ingeborg quando si erano fidanzati: sarai una disgrazia per lei e per tutti noi.
Poi un giorno era tutto passato…
E lui non si era più chiesto nulla.
Vengono in mente le parole delle Lettere a un giovane poeta: “penetrare in se stessi e non incontrare nessuno per ore”. Anche se quello di Rilke era un invito alla solitudine, come da bambini, quando gli adulti intorno sono affaccendati in cose importanti e nulla si comprende del loro agire; da quel centrarsi su di sé, esortava il giovane poeta a porre attenzione a tutto ciò che sorgeva nell’animo per trarne ispirazione e scriverne.
Perché la solitudine è anche una dimensione costitutiva e generativa del nostro psichismo.
Ma quella che descrive Renberg attraverso il flusso di coscienza del suo struggente protagonista, è un’interiorità desolata, il male del tempo che si arresta, il franare della prospettiva in un eterno presente che si svuota di senso, un pietrificarsi che diviene inaccessibile, che muta la percezione di sé sigillando nel dolore l’esistenza del soggetto.
Lei mi manca così tanto che mi sembra di sanguinare dietro gli occhi.
Il passare degli anni senza di lei è la perdita di sé di chi non ha a chi affidarsi. E la presenza di Oddo, quel ragazzino dagli occhi spauriti che vede cose che può vedere solo lui e che gli è cresciuto accanto in modo irriflesso, suona come un alterego.
Ha un mondo tutto suo in cui vive. Non sa come vivere nel nostro…
Come quando aveva ucciso il suo cane, senza sapere perché; aveva perso il controllo, e dopo piangeva ininterrottamente, correndo per i boschi e urlando il suo nome.
Non c’era nulla che potessi fare. … Non sono mai riuscito a trovare una spiegazione a quel suo gesto…
Perché “la ragione sa solamente quello che è riuscita a conoscere (certe cose, magari, non le conoscerà mai), mentre la natura umana agisce nella sua interezza, con tutto quello che contiene, coscientemente e inconsciamente, e magari dice il falso, ma vive” (Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, 1942).
La vita di Tollak è uno stare di fronte alle cose così come accadono, senza che possano essere davvero comprese, contenute, orientate.
Ho lasciato stare. – aveva pensato – Oddo ha diritto di essere ciò che è.
L’Autore rende in modo toccante la solitudine che appartiene all’indicibile, ciò che si compie in uno spazio mai calpestato dalle parole.
In lui c’è un giovane furibondo che non bisogna liberare, in lui c’è un bambino che piange, a cui non fa bene che lo si liberi. Oddo ha bisogno di spazi piccoli, non sa molto bene come rapportarsi con gli esseri umani, si sente a suo agio con la natura e con quella che è la sua percezione del tempo, che nessuno può violare né infrangere. Io sono suo padre e da qualche parte dentro di me esiste uno come lui.
Dal pozzo trasognato di ricordi e visioni sfocate dall’alcool, dall’incuria ormai degradata del suo quotidiano, Tollak richiama i suoi figli, vuole dire loro la verità prima che il male che lo sta divorando metta fine a tutto.
Li ho lasciati all’oscuro troppo a lungo.
C’è un sottile crinale fra la rinuncia e la possibilità di prendersi cura, quando la solitudine della propria chiusura “si vorrebbe volentieri scambiarla per una qualche compagnia, per l’abbaglio di un minuscolo accordo” (Rilke, Lettere a un giovane poeta).
Quello che non ho visto allora, lo vedo adesso…
L’Autore sviluppa come un giallo la tessitura degli accaduti cui il protagonista non ha voluto guardare per anni e che ora vuole rivelare, chissà se per provare a sistemare dei nodi nel filo della vita con i suoi figli, o per un desiderio di pace.
La sua è stata una vita fissata alle proprie mancanze, condizionata dalla forza dei fantasmi fra brevi intermittenze di riflessività, incapace di sostenere i conflitti e di riparare. E alla fine, dissepolta dal silenzio, si affaccia anche la colpa depressiva: quello che ho da dirgli non lo vogliono sentire… non ci sarà nessun perdono per me…
Tollak è un personaggio tragico che si percepisce in tutta la sua umanità: le metamorfosi dell’angoscia, il male di vivere nei suoi lati più oscuri, la fragilità e il potere della distruttività con le sue incandescenze emozionali.
Quello di Renberg è un romanzo intenso e lucido sul deserto di sopravvivenze mutilate, che mostra quanto in esse possa la dimensione della relazione per portare un legame, un senso, la possibilità di dare parole al dolore e alle matrici della violenza insensata che altrimenti ci lascerebbero sulla soglia del pensabile, soli e perduti a noi stessi.