Gli esiti sono quelli di una vera e propria "asfissia" che, nei casi più gravi, può condurre alla psicosi. L’Autrice (psicologa e psicoterapeuta) esamina l’influenza dei meccanismi psichici propri di una madre invadente e iperprotettiva, che ama il figlio in modo "incondizionato” e mette in luce la componente d’illusione insita nella ricerca (come a volte accade) di una tale madre, erroneamente intesa come disponibile e capace di amare. Può essere pericoloso – è il messaggio sotteso – coltivare l’ideale di una madre che “ama troppo” e bisognosa di sentirsi “perfetta”. E’ implicito, in questo bisogno materno, non tanto una capacità d’accudimento e disponibilità verso i figli, quanto la necessità narcisistica di sentirsi confermate nel proprio ruolo. Spesso, questo bisogno resta “camuffato” da una posizione ideologica veicolante un insegnamento moralistico e dogmatico secondo la quale non vi sarebbe amore più forte, più generoso e più incondizionato di quello di una madre. Dalla lettura, si comprende quanto questo libro sia nato dall’esperienza condivisa con i pazienti nella cura, dove i veri interpreti d’ogni seduta sono le fantasie e il mondo interno dei due partecipanti alla scena analitica. I fantasmi/attori sono spesso, in primis, le figure genitoriali (in particolare la figura materna), e c’è un aspetto del paziente che fa da regista e mette in scena le proprie rappresentazioni affettive. Quale madre attrae e al tempo stesso terrorizza i nostri pazienti, e ancor più, il genere umano? Si potrebbe rispondere: una madre simbiotica, capace di offrire empatia, accudente e gratificante, ma che può diventare pericolosa, inglobante, invadente e mortifera laddove non fosse in grado di cogliere i bisogni di autonomia e di crescita del figlio. Questo, naturalmente, può valere anche per lo psicoterapeuta o lo psicoanalista nel momento in cui non sapessero cogliere i movimenti di autonomia del paziente che si esprimono talvolta, per esempio, attraverso particolari fenomeni di transfert negativo, leggibili come goffi tentativi di differenziazione e autoaffermazione. Chi ha la responsabilità della cura, madre o psicoterapeuta, avrà come compito quello di facilitare il faticoso percorso d’individuazione e separazione, caratterizzato dalla conquista di uno spazio e un tempo diversi rispetto all’esperienza originaria.Le storie narrate e vissute dai pazienti, riportate nel corso del lavoro di Capolupo, esprimono spesso una domanda, implicita o esplicita, rivolta al terapeuta chiamato a svolgere un compito impossibile: sostituire una madre idealizzata.L’Autrice, ricorrendo alla mitologia e attraverso una breve analisi del mito delle Grandi Madri, evidenzia quanto prestigio e onnipotenza siano attribuiti all’imago femminile. La Grande Madre è in grado di generare e di permettere la prosecuzione della specie, detentrice del potere di vita e di morte sui figli. Più che di una madre, intesa come persona, la mitologia sembra riferirsi ad un “simulacro” rivestito di attese e aspettative. Se un terapeuta si vivesse, fraintendendo il controtransfert, come “grande madre”, rischierebbe di lasciare il paziente in uno stato di regressione e dipendenza dalla “cura”, che, in quel caso, non curerebbe affatto. Il rischio, cioè, sarebbe il ripetersi (poiché già avvenuta nella storia del paziente) di una relazione speculare, in cui l’analista, bisognoso di un investimento narcisistico da parte del paziente, favorisse, in realtà, il perpetuarsi di una “follia a due” a danno del “terzo” rappresentato dalla cura stessa e dal cambiamento. La conseguenza di tutto ciò sarebbe di mantenere la persecutorietà scissa, esclusa dall’analisi, anziché accoglierla, comprenderla ed aiutare il paziente a trasformarla.
Carlo Pasino