La gioia avvenire
di Stella Poli (Mondadori, 2023)
di Daniela Federici
parole chiave: #abuso, #pedofilia, #violenza sulle donne, #avvenire
Una delle poche cose che ho capito.
Che l’unica cosa che dobbiamo tenerci saldissima è questa:
concederci, soprattutto concederci,
non che ci concedano, di scegliere.
Rinegoziare, sottrarci. Cambiare idea. Smettere.
La gioia avvenire
C’è una fiducia di base che nomina l’origine del nostro essere nel mondo, un contratto narcisistico di benevola complementarità con un ambiente esterno dal quale dipendiamo non solo per la nostra sopravvivenza fisica ma anche per l’integrità psichica. Quando l’inermità affidata di un piccolo incontra un adulto abusante, si infrange il patto fra gli umani, inverando l’opposto di un riconoscimento, una disparità di forze che oltraggia la mente ancora più del corpo.
Quello di Stella Poli è un libro che va ascoltato nel profondo, perché tratta di uno di quei temi su cui non bisognerebbe mai smettere di pensare, per quel che di pulsionale ci abita e che ci spetta di addomesticare e per ciò che, sul piano sociale e culturale, è ben lontano dall’essere trasmissione di un’etica di rispetto per l’altro.
D’un tratto lui mi guarda… Ride, le volte che scherzo. Quando mi metto un costume rosso, in piscina, mi dice tu mi turbi. Che a me, non me l’aveva mai detto nessuno. È una cosa lentissima, non bisogna pensarla in fila, un anno tutto di movimenti minuscoli, pulviscoli, avvicinamenti così “quasi” che non li puoi neanche dire, figurati a non saperli. … E io per un tratto di tempo non percepii pericolo. (Non sapevo di cosa avrei dovuto preoccuparmi, penso. Ma peggio, molto più giusto e peggio di così, a me lusingava, tutto questo, e il poco pericolo che la mia quattordicennità mi consentiva d’intravedere, lo nascondevo sotto l’onda del turbarmi, del turbarmi del turbare. È un’illusione sottile, pensare di condurre un gioco che invece perdi sempre più forte, ma anche solo, come facevo io, stando fermissima, a guardarlo pianissimo scivolare).
La gioia avvenire è un racconto asciutto, duro e poetico a un tempo, che non dipinge mostri né mette in scena violenze inaudite che tanto favorirebbero il distanziarsi da vittima e carnefice, ma rappresenta una sorta di banalità del male che ha il pregio di risuonare molto da vicino.
Il facile scivolare nel lento adescamento della lusinga, l’imprigionamento dentro una proiezione narcisistica che sfoca la possibilità di sottrarsi. L’Io dubita e annaspa: è difficile il recupero della propria autonomia dentro l’esperienza, se chi manca alla funzione di protezione fa saltare i punti di riferimento e lascia l’accadere improvvisamente privato di senso.
Consenso significa aderire all’altrui volontà, essere dello stesso sentimento o parere; aderire, concordare, indursi a credere…
L’abbaglio seduttivo su un’età che sboccia al desiderio di essere visti e misurare la propria forza di attrazione, lì dove si prepara il terreno ai legami e a un sessuale che l’intrusione adulta forza di un’iniziazione confondente.
Sullo sfondo, una situazione familiare che si è fatta via via distratta, fino alla trascuratezza e alla connivenza.
Era il marito dell’amante di mio padre. Un marito che sapeva, che non poteva non vedere. Quando mio padre ballava con lei, occhibistrati, al piano di sotto, lui mi avvicinava. Ma anche questo l’ho capito poi. Fra la vendetta e il baratto tribale, pensai un giorno. Ero un piano, quindi? Un affronto? Il peggior oltraggio che tu possa fare a questo rivale che si permette di farla ballare nella tua cucina, senza musica? Sono un regolamento di conti? … Forse per questo gli servo, non solo gli piaccio. Sono il colpo da maestro, il più basso, il più crudele.
L’Autrice rende con struggimento l’attesa di un padre che veda e difenda, il vuoto affettivo che disarticola i legami e li sigilla nel segreto, che aggiunge al trauma dell’abuso quel che Ferenczi definiva il secondo trauma del diniego da parte degli adulti.
L’urto del disconoscimento è una ferita all’integrità dell’Io, l’intrusione concreta squalifica di essere solo oggetto parziale per l’altro, in un incontro menzognero che amputa l’esercizio dei pensieri e dell’immaginario. L’impatto sul corpo lo congela in una paralisi irrequieta, lo sporca e lo denigra, forgiandolo di agiti e sintomi che insistono tormentosi, stendendo una patina sul vivere, dove il passato troverà sempre aperte le strade per i suoi rigurgiti acidi.
Ho ventitre anni. Mi hanno violentata quando ne avevo quattordici. A volte la vita mi pare tutta qui. È come un cratere lunare. Per la concavità e per la pomice, quell’idea di sangue di calce, non so se si capisce, di sbriciolato e di irrimediabilmente secco. Distese di pomice in cui puoi pure dragare tutta l’acqua del mondo, tutta la vita che trovi, in una disperazione man bassa, ma verrà inghiottita con una crudeltà implacabile, misteriosa, asciutta.
… resta questo sapore come una coperta, limaccioso e denso come una palude, a ricordarti che qualcosa non va via…
La violazione che diventa accusa: chi sono veramente io negli anfratti della mia anima?
Fiducie violate, una faglia che fessura l’identità e segna indelebilmente la vita affettiva, un dolore intorno a cui ci si organizza.
C’è stato un momento in cui speravi che la rabbia diventasse spinta. Come caricare i montanti. Invece è un dilagare di impotenze, una sconfitta a domino, gradoni di gradoni di disfatta. … Hai pensato che fosse un diritto del dolore, uscire. Spezzare gli argini dell’efficacia, i meccanismi che fanno la plausibilità delle vite. Hai pensato fosse come un febbre, un sintomo. Che bruciato l’infetto, strabordate le lacrime, sarebbe calata, saresti guarita. Ci vedi una parabola naturale. Una sacca che va svuotata. Un tempo che va concesso. … E se non finisce?
Il sé segnato dalla violenza necessita del rapporto con l’altro per essere riparato, quando l’indicibile diventa narrazione e incontra la testimonianza di un ascolto. Accogliere il trauma è sciogliere la solitudine barricata nel silenzio, accreditare l’offesa, dare voce agli accadimenti e rendere agibili i vuoti del non-pensato.
Perché a non dirle le cose, restiamo compatti come le sfere, abbiamo altre incidenze, traiettorie, solvibilità. Ogni parola ci sfrangia come un handicap, si fa tallone, lembo afferrabile, giugulare che spunta…
… una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce quasi.
Labirinto? Labor intus, la fatica dentro?
Il racconto duplica i piani di rifrazione, perché la storia di Nadia la racconta la sua terapeuta, rivolgendosi a un avvocato per ottenere giustizia a distanza di tanti anni, dopo che due tentativi di denuncia erano stati dissuasi dall’autorità cui Nadia si era rivolta al tempo dell’abuso.
Come nel rovesciamento figura-sfondo, l’Autrice racconta anche l’altra protagonista:
Sembra fatta di argini. Sembra essersi messa addosso tutte queste linee immaginarie dietro cui ricordarsi di stare.
Da terapeuti, come ci si sente quando si misura l’impotenza? Com’è la messa a terra del dolore degli altri da tenere senza impazzire? E la partecipazione come risuona del proprio dentro?
“Niente di ciò che è umano mi è estraneo”, scriveva Terenzio.
In ogni terapeuta c’è un paziente che cerca di offrire l’accudimento che ha ricevuto. Perché riattraversare il dolore, riappropriarsene e prendersene cura, è l’unico modo che l’essere umano ha per averne tregua e potersi aprire a un avvenire diverso.