La doppia morte di Gerolamo Rizzo. Diario “clinico” di una follia vissuta
di Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta
(ed. Alpes, 2020)
Recensione a cura di Lucia Monterosa
In questo volume Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta portano alla luce la storia di Gerolamo Rizzo, ricostruita attraverso il ritrovamento di un suo memoriale, rinvenuto per caso “spulciando i faldoni dell’ex Ospedale Psichiatrico di Cogoleto”.
Girolamo ha circa trenta anni, è un insegnante elementare con una discreta cultura quando, in una notte d’estate del 1904, “subisce l’irruzione allucinatoria che non lo lascerà più”. Da quel momento scivolerà progressivamente in un grave scompenso psicotico di marca persecutoria, che finirà per sgretolare irreparabilmente l’esame di realtà. Quattro anni dopo, armato di rivoltella, uscirà dalla sua abitazione in preda alla disperazione e, per porre fine ai suoi tormenti, ucciderà un prete a lui sconosciuto, in una via centrale di Genova. Verrà arrestato e, sei mesi più tardi, trasferito in Manicomio. Dopo circa ventitré anni di degenza, il giorno stesso in cui sarebbe avvenuta la sua dimissione, sarà ucciso da un altro ricoverato, senza un’apparente ragione.
Girolamo, presumibilmente nei primi anni del suo ricovero manicomiale, redige il suo memoriale con una straordinaria chiarezza retrospettiva. Il suo testo inizia con la descrizione della prima irruzione, nella sua camera da letto, di voci e di presenze brutali e minacciose che lo interrogano e gli danno ordini. Successivamente, attribuirà la genesi del meccanismo persecutorio ad una macchina – il macrocacofono – che, più avanti nel tempo, prenderà le vesti di una macchinetta tascabile a forma di sigaro. Girolamo ritiene che entrambi i congegni, utilizzando le onde radio scoperte in quegli anni da Guglielmo Marconi, potevano influenzare il suo funzionamento cerebrale attraversando la sua scatola cranica.
Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta non si limitano a restituirci la cronaca della “discesa agli inferi” del protagonista, ma commentano i punti cruciali di questa memoria autobiografica con annotazioni “di carattere psicopatologico-critico”. Elaborano, quindi, un sottotesto in cui vengono messe in evidenza le forti connessioni tra il racconto di Gerolamo e l’impianto concettuale della psicopatologia fenomenologica e psicoanalitica. Essi sottolineano i momenti in cui il mondo interno del paziente si esternalizza e lo spazio intimo è progressivamente distrutto, il drammatico muoversi dei suoi pensieri tra sprazzi di lucidità sempre più contaminati, il naufragio di tutte le sue richieste di aiuto e il viraggio dell’iniziale assetto paranoicale verso una deflagrazione paranoide di segno schizofrenico.
Il volume è arricchito dai contributi di altri autori che offrono ulteriori e interessanti approfondimenti.
Rita Corsa osserva come il macrocacofono di Gerolamo Rizzo sia una singolare variante della macchina influenzante descritta nel 1919 nel saggio di Viktor Tausk: Sulla genesi della macchina influenzante nella schizofrenia. In quel testo lo psicoanalista slovacco traccia la dinamica psichica alla base del delirio di influenzamento psicotico. L’autrice mette in dialogo, inoltre, il delirio di influenzamento e di trasformazione corporea di Rizzo con quello descritto da Schreber in Memorie di un malato di nervi, opera pubblicata nel 1903. Ravvisa la consonanza in entrambe le Memorie con le ipotesi di Tausk “quando interpreta la macchina influenzante come la proiezione del corpo (e più frequentemente dei genitali) del malato, sede delle pulsioni”. L’autrice rileva un’ulteriore funzione della macchina influenzante che può mutarsi in “una sorta di contenitore autistico, che può lenire l’angoscia”. Inoltre, ipotizza che il macrocacofono e le sue successive varianti “sostituissero l’oggetto primario, traumaticamente perduto, sotto forma deumanizzata e macchinica”. Rita Corsa nota anche come la malattia mentale dell’insegnante ligure si nutra di tecnologia “quasi anticipando, in una sorta di vaticinio distopico, la damnatio della contemporaneità, che sembra condannata a piegarsi al dominio di τέχνη”.
Pierpaolo Martucci, nell’approfondire alcuni aspetti del profilo criminologico di Gerolamo Rizzo, ci propone alcune notazioni sul clima sociale dell’Italia agli albori del secolo scorso e le loro probabili influenze nel decorso psicopatologico del paziente. Osserva come il macrocacofono costituisca una sorta di “avventurosa anticipazione che ancora non si chiamava fantascienza”, inaugurata dai romanzi di Jules Verne. L’autore intreccia alla vicenda di Gerolamo quella del suo uccisore: Francesco Merlati, un ex squadrista fascista. Viene sottolineata una particolare coincidenza della vicenda narrata “con la storia più grande”. Infatti, “l’ultimo giorno di vita di Gerolamo, oltre a cadere nell’anniversario delle apparizioni di Lourdes, è lo stesso in cui Mussolini andò in visita in Vaticano. Era il primo Capo di Stato italiano ad essere ricevuto dal Papa, dopo la breccia di Porta Pia”. Contemporaneamente a questo evento “si chiudeva il cerchio del destino di Gerolamo Rizzo, messo a morte da un ex squadrista per il suo crimine sacrilego di ventiquattro anni prima”.
Paolo Francesco Peloso, consultando i giornali dell’epoca in cui avvenne il delitto, delinea il rapporto di Rizzo con Genova: la città che, dopo essere stata sorda alle sue richieste di aiuto, finirà con espellerlo. Attraverso l’esame attento delle cronache, coglie l’intensità della solitudine che lo avvolse. Emerge un altro tassello della sua storia: il ricovero in manicomio di una sua sorella, avvenuto nello stesso anno dell’esordio (togliere il doppio esordio) psicotico del paziente. L’autore acutamente nota come questo “sarebbe senz’altro un elemento da non trascurare”. Emerge in modo drammatico, da queste cronache, come le manifestazioni del profondo disagio e le richieste di aiuto di Rizzo siano state inascoltate, al pari di quelle dei suoi alunni, che avevano ripetutamente segnalato ai loro genitori lo strano comportamento del loro insegnante, che “dopo aver smaniato tutto il tempo della lezione, talvolta si allontanava dalla classe senza farsi più vedere”.
Alcuni memoriali di pazienti, a partire dal testo di Schreber, hanno contribuito non solo a fare luce sul funzionamento mentale dei protagonisti, ma anche a illuminare i rapporti tra psichiatria e giustizia penale cercando di decifrare le relazioni di potere all’interno delle quali si collocano. È stato questo il focus scelto da Michael Foucault e dal suo gruppo, in un lavoro sul caso di Pierre Rivière (1973). Il protagonista della vicenda era un contadino ventenne autore, nel 1835, del triplice omicidio di un fratello, di una sorella e della madre, compiuto – a suo dire – per liberare il padre dalle persecuzioni di quest’ultima. La Memoria, scritta dal giovane omicida, diventerà un documento del processo a suo carico, a cui i giudici ricorreranno per valutare se graziare l’imputato dalla condanna a morte. L’esame di questo materiale d’archivio, riemerso dopo quasi centocinquanta anni, è alla base di una ricerca che indaga sulle motivazioni dell’insano gesto. “È così che narrazioni di questo genere potranno svolgere il ruolo di elemento di scambio tra il familiare e il notevole, fra il quotidiano e lo storico” (ibidem, p. 223). In questa prospettiva il delitto viene interrogato non tanto per gli aspetti psicopatologici del suo autore, ma viene analizzato nel quadro della modernità ed assume i connotati di un’ombra che attraversa il nostro quotidiano. (Foucault, 1994).
Notevole interesse hanno anche suscitato gli scritti di Louis Wolfson. L’autore, nato a New York 1931, frequenta regolarmente le scuole. Poi, durante gli studi universitari, comincia a rifiutare in modo radicale di esistere all’interno della sua lingua madre. Wolfson si fabbrica uno strumento per impedire all’inglese di raggiungere le sue orecchie: una radiolina a transistor, sintonizzata su programmi in lingua non inglese, su cui è stata fissata col nastro adesivo la testina di uno stetoscopio. Anche in questo caso compare un congegno, che qui assume vesti salvifiche. Le condizioni di Louis degenerano e trascorrerà molto tempo in diversi ospedali psichiatrici.
Affidato poi alla tutela della madre, nel 1970, pubblicherà Le Schizo et les langues, dove descrive il suo «procedimento» di purificazione di quella sostanza patogena che è la lingua inglese. Pubblica poi, nel 1984, sempre in lingua francese il testo: Mia madre, musicista, è morta, in cui la sua mente schizofrenica fa la cronaca della terribile malattia della madre, seguita scrupolosamente. Ciò che Wolfson, nel suo testo apocalittico, si augura è la fine del mondo a partire da sé stesso, attraverso l’estinzione della propria origine. Mentre la madre muore, egli sente la necessità che il pianeta Terra si disintegri, scriverà al Presidente Jimmy Carter per suggerirgli il diritto alla propria distruzione e a quella dell’umanità, tramite bomba termonucleare.
In queste Memorie veniamo colpiti dalla lucidità di alcuni passaggi. Gli autori del testo sulla Doppia morte di Gerolamo Rizzo sottolineano come il protagonista annoti, con molta saggezza, l’insensatezza per essere stato recluso in carcere per sei mesi in condizioni terribili. Scrive Gerolamo: “Io non ho mai potuto comprendere come si possa mandare, in osservazione, in un carcere per vedere se è matto un uomo che commette in un momento di sovreccitazione un omicidio o un ferimento, ciò ripugna il mio buon senso. Il posto naturale è un manicomio, dove ci sono medici specialisti che visitano diverse volte al giorno e curano gli ammalati, e dove, dopo attenta osservazione di qualche tempo, possono farsi un criterio esatto se un uomo è matto o no”. Queste righe ci commuovono e ci fanno pensare a “quell’angolino dell’animo” in cui “si teneva gelosamente celata una persona normale che osservava come spettatore imparziale il trascorrere della malattia e del suo tumulto” (Freud, 1938, p. 628).
Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta, in questo volume, non compiono solo un’operazione scientifica ma cercano di far arrivare, non esclusivamente agli specialisti del settore, una richiesta di giustizia inevasa e chiedono “idealmente, come psichiatri, perdono. Perdono per non aver capito, per non aver compreso, per esserci limitati a fare il rogito notarile di una storia clinica che parte da un’esecuzione e culmina con un’esecuzione. E tra le due esecuzioni nulla, tranne la reclusione”.
Noi accogliamo con gratitudine “questo messaggio nella bottiglia che ha superato l’oceano della storia” e che arriva fino a noi grazie alla passione e all’impegno etico con cui i curatori e tutti gli autori hanno svolto la loro ricerca.
Bibliografia
Focault M (1973). I delitti che si raccontano, In: Focault M. (a cura di), Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Torino, Einaudi, 1976.
Foucault M. (1994). Il ritorno di Pierre Rivière. In: M. Foucault, Follia e psichiatria. Milano, Cortina, 2005.
Freud S. (1938). Compendio di Psicoanalisi. O.S.F., 11.
Schreber D.P. (1903). Memorie di un malato di nervi. Milano, Adelphi, 1974.
Tausk V. (1919). Sella genesi della “macchina influenzante” nella schizofrenia. In: Scritti psicoanalitici. Roma, Astrolabio, 1979.
Wolfson L. (1984). Mia madre, musicista, è morta. Milano, SE, 1897.