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parole chiave: #legami, #genitorialità, #filiazione, #vergogna
La bellezza delle cose fragili
di Taiye Selasi (Einaudi, 2013)
recensione di Daniela Federici
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Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa,
se è un piano che si svolge giorno dopo giorno
e non te ne accorgi
se non guardando all’indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.
Borges, Contano i legami
Ci sarebbe stato tutto il tempo fra la prima fitta e l’ultimo respiro.
Kweku, il grande chirurgo, lo sa, ma rimane affacciato sul suo giardino a pensare che a volte il mondo è troppo bello. Che non ha peso, il mondo – la rugiada sull’erba, la luce sulla rugiada, la sfumatura di quella luce -, ed è un’idea difficile da accettare, per un medico come lui, consapevole che queste cose esistano nel mondo ma non per il mondo, non a lungo, almeno; per il mondo come lo vede lui, un posto brutale, un posto che confonde, che ti sfianca. Difficile accettare che queste cose o verranno spezzate o fuggiranno via lasciandosi dietro un senso di perdita.
Fin da bambino, in Africa, aveva appreso che la perdita è solo un concetto che viene formulato per mezzo di parole: per questo non si dava un nome a un neonato che poteva morire, perché non si può dire di aver perso una cosa cui non si è permesso di esistere sotto forma di pensiero. Una sterilizzazione dell’emotività. Ma quando era nata sua figlia, in bilico sull’orlo di un precipizio, che tremava per lo sforzo di esistere, con quella pelle sottile come un petalo e i pugnetti chiusi pieni di determinazione a stringere la speranza, aveva saputo che quell’essere prezioso e perfetto gli apparteneva, e lui a lei. Ed era rimasto in terapia intensiva neonatale per giorni senza quasi dormire finché non aveva sconfitto il suo avversario, finché le era stato dato un nome.
È alla sua famiglia che pensa Kweku mentre una morsa gli imperversa nel petto, sul lato sinistro, dove sente la morte e raduna le forze, una frustrazione acuta e stridente. Perché la sua famiglia non è lì con lui, in quella casa che aveva disegnato lui stesso su un tovagliolino di carta tanti anni prima, una stanza per ognuno dei suoi quattro figli e per la moglie Fola, l’amore della sua vita.
Si erano conosciuti in Pennsylvania, lei nigeriana in fuga da una guerra, lui ghanese animato dal desiderio di un riscatto dalla povertà dei bordi logori del mondo, tutti e due in cerca di un posto da chiamare casa e di avventure da vivere. Lei aveva rinunciato alla facoltà di legge e lo aveva seguito, convinta che un sogno solo sarebbe bastato per entrambi, e lui era diventato il chirurgo più geniale di Boston. Almeno fino a quell’intervento impossibile. Nessuno avrebbe potuto fare di meglio, ma la ricchissima famiglia finanziatrice dell’ospedale aveva preteso un capro espiatorio: il suo futuro a pegno del dispotico rifiuto della morte. Mesi di contestazioni legali contro un licenziamento ingiustificato, tutto vano. E nascosto, perché ogni mattina lui era uscito come se ancora lavorasse, fino al giorno in cui non aveva avuto il coraggio di rientrare in casa. Solo una telefonata, per dirle che non era mai stato degno di lei, che aveva annientato la loro esistenza per l’ostinazione di vincere una scommessa impossibile.
È la sua vita che rivede Kweku, in quei lunghi minuti di fitte che lo piegano a terra. In quella casa che è stata una forma di esilio, escluso dalla famiglia, con l’espressione di un uomo senza onore, di un uomo che pensa questo è il mio destino… disposto ad accettare la sconfitta, senza opporre resistenza, senza obiettare…
Perché ti ho lasciato?
Se solo fosse rientrato in casa quella sera. Quel se un corpo che gli giace accanto ogni mattina al sorgere del sole.
Ma era stato lui a lasciarla, scappando per non scorgere nei suoi occhi l’insopportabile fallimento, troppa vergogna per spiegare, per comportarsi in modo responsabile e farsi perdonare? O era stata lei, per la quale niente era peggio dell’abbandono, un fiume che si era seccato mentre lei piangeva… qualcosa di avanzato, vistosamente sola come una cosa lasciata su una spiaggia al buio. Aveva venduto casa per saldare i debiti, trovato un avvocato e divorziato, trasferendosi con i figli. Così quando lui era tornato, mesi dopo, non aveva trovato più nessuno.
Senza perdono.
Due persone alla deriva. Un’esistenza andata a rotoli.
L’unico scopo di una relazione è quello di inscenare, in miniatura, tutto lo stramaledetto dramma della vita e della morte. L’amore nasce come nasce un bambino. L’amore cresce come cresce un bambino. Un uomo sa bene che deve morire, ma non avendo conosciuto altre realtà che la vita non crede veramente nella propria morte. E poi, un giorno, il suo amore si raffredda. Il cuore dell’amore smette di battere. L’amore muore. In questo modo l’uomo impara la realtà: che la morte può esistere nell’essenza di una persona.
Quel genere di momenti in cui uno non capisce bene cosa sta succedendo. Una fine. Uno sparo di avvertimento. Un confine che si stabilisce. Tra «le cose com’erano un tempo» e «l’istante in cui tutto è cambiato», un momento in cui non si nota nulla, ma di cui si ricorda ogni particolare.
La morte deve avvenire nel cuore per essere creduta.
Un romanzo folgorante, una scrittura splendida che inanella una trama articolata e avvincente, un accurato scavo dei personaggi, da ciascuno dei quali leggiamo la personale visione della storia, dalla solitudine determinata di Fola, ai quattro figli, le vicende della loro crescita e i conti da fare con quel padre assente da così tanto tempo che il suo non esserci ha completamente sostituito la sua esistenza. Sparito dai loro racconti e dalla loro infanzia, murato fuori dalla loro vita.
Il coacervo dei sentimenti, il desiderio di riscatto, le invidie e le gelosie, il tradimento, la delusione, la paura di legarsi e di perdersi, i segreti, il dolore nudo del fallimento, il corpo, il peso dei fantasmi. E la ripetizione, quel tragico finire a replicare ciò che si è subìto, gli stessi errori dei propri genitori, ciò che ci si era giurati non sarebbe mai accaduto.
Una storia di grande forza sulla bellezza insita nelle cose fragili.
Pagine d’incanto, come la notte in cui la figlia sorprende il padre addormentato sul divano e gli vede per la prima volta le piante dei piedi segnate dall’infanzia povera e scalza di cui non sapeva nulla. L’epifania, una nuova strana specie di tristezza, a metà fra il dolore e la compassione, una tristezza gonfiata con l’elio, troppo leggera da sopportare… una possibilità che lei non aveva mai contemplato: e cioè che lui era un uomo vulnerabile. E se lo era lui – il loro granitico padre – allora lo era anche lei, lo erano tutti, e la cosa peggiore era che probabilmente non se ne rendevano nemmeno conto… il fatto che avesse qualcosa da nascondere, implicava che lui si vergognasse di qualcosa. E questa idea era insopportabile.
Non ci si sente mai a casa quando si prova vergogna.
La vergogna segnala l’offesa a un equilibrio narcisistico, un conflitto fra le esigenze narcisistiche, e può chiamare in causa il disonore per l’impossibilità di rinunciare a una rappresentazione di sé che pretenderebbe di essere senza macchia.
In “Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico”, Freud descrive le persone che ritengono “di avere già sofferto e subìto un numero sufficiente di privazioni, si considerano in diritto di essere risparmiate da ulteriori pretese, non vogliono più sottoporsi ad alcuna spiacevole necessità poiché si ritengono eccezioni e tali intendono rimanere” (OSF v.8, p. 631). “Tutti crediamo di aver motivo di rancore verso la natura e il destino per le menomazioni congenite e infantili; tutti pretendiamo una riparazione che ci indennizzi delle antiche mortificazioni che ha subìto il nostro narcisismo, il
nostro amore per noi stessi” (ibidem, p.633): l’azione inconscia di erigersi a eccezione mira a compensare e risarcire il vissuto di ingiustizia per questi torti.
A questo mi ha fatto pensare un’altra bellissima scena in cui Kweku è seduto in auto davanti a casa, con il figlio che ha riportato da scuola e che l’ha visto mentre veniva buttato fuori dall’ospedale. Il bambino gli chiede se voglia vedere il disegno che ha fatto in classe: è una donna che tiene per mano un ragazzo, entrambi di spalle; gli spiega che la donna è la madre. E quando Kweku chiede se il piccolo sia lui, Kehinde risponde: “Sei tu papà, perché mamma dice: Tocca sempre a me essere la persona più grande”. Kweku ride e piange per quella genialità di sguardo e per la mortificazione insopportabile di aver deluso la moglie che quella sera non gli darà il coraggio di rientrare in casa.
Perché sfuggire colpa o vergogna impedisce l’accesso alla responsabilità.
I sentimenti sono una dimensione irrinunciabile per la nostra esistenza, ci orientano nella realtà e nei rapporti con gli altri; la salute psichica – che è capacità di far fronte a ciò cui la vita ci destina – implica poterli riconoscere e gestirli.
In un’epoca di rimozione della vulnerabilità, questo libro stupendo è un elogio del valore della fragilità e della potenza dei legami.
Perché “l’esperienza della lettura prefigura quella dell’analisi” scrive Pontalis (Finestre, E/O 2001), entrambe transfert/trasferimento fuori di sé, da ciò che si crede di essere, per sentire “le voci dall’entroterra”, esperienza di ciò che è estraneo e al contempo quanto di più vicino all’origine.