Stella Bolaffi Benuzzi (2013)
La Balma delle streghe. L’eredità della mia infanzia tra leggi razziali e lotta partigiana.
Giuntina, Firenze
Commento di Anna Ferruta in occasione dell’iniziativa del CMP “Aperitivo con l’Autore”
“Zia Gabriella ha trovato in affitto a Vonzo una vecchia baita in pietra viva che ci sembra subito una reggia: il tetto è coperto da lose, lastroni di pietra locale, e la cucina, provvista di una stufa a legna, ha una parete di roccia obliqua che fa anche da tetto alla crota, una cantina naturale cui si accede da una porticina. Se è ricavata da grossi massi e completata da pareti in muratura, nelle valli di Lanzo è chiamata balma. Una ripida scaletta esterna in pietra porta a due stanze da letto di cui una abbellita da un balcone di legno molto rustico detto lobia nel dialetto locale” (p.37).
In questa Balma si svolgono alcuni anni importanti dell’infanzia di Stella: un rifugio nel quale possono trovare accoglienza e svilupparsi sogni, affetti, esperienze, che così vengono protetti e sviluppati, sottraendosi alla persecuzione annientante delle leggi razziali e alle minacce di una rigida organizzazione superegoica.
Il libro racconta in contrappunto la storia di questa infanzia sconvolta dalla guerra e dalla lotta partigiana e la storia del percorso analitico classico, a tre sedute, anch’esso dipanatosi in un’altra Balma, la stanza di analisi, un rifugio scomodo e provvidenziale per la sopravvivenza e per la crescita personale.
Il tratto comune che attraversa queste due storie intrecciate è la vigorosa e appassionata vitalità della protagonista: la sua attenzione si dirige naturalmente verso la descrizione di quel mondo e di quel tempo, con appassionata curiosità, senza idealizzazione e senza lamentazione.
Nella semplicità austera della Balma di Vonzo e dell’analisi viene accumulata e sviluppata una ricchezza personale magnifica. Il racconto della vita da perseguitati in clandestinità ricorda qualcosa del libro di Imre Kertész Essere senza destino (1975): come nel campo di sterminio si viene privati di tutto a cominciare dalla identità personale, si diventa un numero, così qui i fratellini Bolaffi devono rinunciare al nome diventando Ferrari, e alle relazioni familiari (è la signorina maestra Gabriella Foà che si prende cura di loro nella Balma di Vonzo e che devono chiamare zia): per mesi e mesi non hanno notizie del padre, rimasto in città e poi unitosi alla lotta partigiana delle Brigate di Giustizia e Libertà. Eppure gli occhi di Stella si aprono alla meraviglia del mondo e dei giochi ‘da maschiaccio’ con i compagni e alla ricchezza delle esperienze che si dispiegano nelle campagne dell’alta valle di Lanzo.
Ci possiamo chiedere da dove vengono questa forza e ricchezza personale che trova ospitalità nella Balma, invece di andare a finire nel vicolo cieco dell’idealizzazione e della persecuzione. I nemici nazifascisti sono presenti, talvolta fanno incursioni e perquisizioni, ma non diventano l’attrattore gravitazionale della vita del gruppo umano che è protagonista della storia. Così pure la gioia e l’entusiasmo dei giorni della Liberazione esplodono in tutta la sua colorata commozione, ma non si sostituiscono per il loro carattere di evento eccezionale e unico alla vivacità e all’interesse dei numerosi episodi di vita narrata.
“ Tutti urlano e noi bambini più di tutti e questa volta la zia non ci zittisce. Ci sentiamo liberi di cantare finché avremo fiato e magari anche di gridare che ci chiamiamo Bolaffi e non Ferrari perché alfin liberi siam. (…) infine un camioncino zeppo di uomini anche in piedi sui predellini si ferma proprio vicino a noi: arrivano da Torino. Dall’abitacolo scende un uomo molto magro, abbronzato, in divisa da alpino quasi completa, una striscia nera di lutto cucita sul bavero della giacca. Porta sulla spalla destra una parabellum, una pistola e una bomba a mano balilla alla cintura. Scende e si guarda intorno, noi non lo riconosciamo, ma lui nota subito le mie inconfondibili trecce, ci vede, mi guarda, ci chiama, ci bacia.” (p. 99-100).
Analogamente si svolge la seconda parte, ‘Torniamo a vivere in città’, quella talvolta più difficile, quella del ritorno a casa, dopo anni di tensione e di vita certamente non regolata da ritmi di regolarità quotidiana, ma esposta a continui sobbalzi di gioia e paura, come è proprio del tempo di guerre e di adolescenza.
“Io odiavo vivere in città, rimpiangevo la vita di Vonzo e mi sentivo dentro un po’ tutta strappata, come il territorio del Moncenisio che avevano separato dall’Italia. (…) Cercavo di reagire alle mie tristezze causate da quel deserto di affetti con un comportamento un po’ troppo indipendente, esuberante e ribelle e sfogandomi con lo sport; almeno questo mi veniva concesso: sci e scherma.(…) La dura esperienza di Vonzo, la minaccia sempre incombente di venire catturati dai nazifascisti, i tanti cambiamenti di stile di vita nella mia infanzia mi avevano forgiato il carattere, forse anche troppo, come lamentava nonna Vittoria.” (p.120, 121, 124)
Anche questa seconda parte del ritorno a casa e dello sviluppo personale, come ricerca di una propria identità professionale e femminile, si svolge in modo molto vivo, senza idealizzazione e senza paranoia. Tutte le occasioni di fare esperienza vengono colte con interesse e apertura, a cominciare dall’aria vibrante del Trentino.
“ Venne l’estate. Per la prima volta avevo seguito Anna Maria e la sua famiglia in Trentino: da anni la mia compagna di scuola mi parlava di quelle bellissime montagne dove andava da tempo in villeggiatura. (…) Camminavamo sul muschio e lungo il sentiero i mirtilli si alternavano ai funghi dai più svariati colori fra cui spiccava il rosso intenso dell’ammanita muscaria. ‘Anna Maria, ma questo è un luogo incantato, non mi meraviglierei di incontrare le fate o un Principe Azzurro!’ esclamai estasiata. Dopo due settimane incontrai Alberto. Era un giovane alto, sportivo, studente di ingegneria, che mi insegnò a discendere dalle pareti verticali delle Dolomiti a corda doppia.”(p. 146)
La ricchezza delle esperienze non viene evacuata con ‘perette’ ma conservata nella Balma dell’inconscio e nei diari della memoria, e poi digerita, con l’aiuto dei processi di maturazione spontanea, con gli affetti originari del padre e del fratello e quelli nuovi del marito Alberto e con il percorso analitico. Un miscuglio di kashèr e tarèf.
“Avevo ingurgitato un miscuglio di cibi kashèr e tarèf (rispettosi delle norme religiose alimentari oppure no e pertanto proibiti) che si facevano ancora guerra…intestina. E poi le persecuzioni erano diventate anche una dura realtà.”(p. 29)
Ci possiamo chiedere quali sono stati gli elementi di forza di un percorso così costruttivo, transitato per incubi e persecuzioni, sulla base di un terreno personale di partenza senza dubbio dotato di potenzialità.
Una traccia fondamentale credo che sia stato il senso di continuità con un legame di fiducia che è rimasto intatto lungo tutto il cammino accidentato. Questo legame senza dubbio era costituito dall’amore del padre Giulio Bolaffi per i figli Stella e Alberto, da quella lista nera sul bavero della giubba di alpino che possiamo vedere nelle foto che compaiono alla fine del libro. Sapere che qualcuno ti ha in mente tiene in vita, più delle condizioni ambientali materiali (mancanza di cibo, sonno, abiti, rifugi). Questo aspetto di continuità attraverso gli sbalzi, i sobbalzi, le interruzioni, è un elemento fondamentale per una sana crescita psichica. Ed è anche un elemento strutturale della cura psicoanalitica. Molte volte i pazienti protestano: “A che cosa servono le sedute, se poi quando sto male e ho bisogno lei non c’è, se devo aspettare il giorno stabilito per il nostro incontro?!”.
Nel libro Stella più volte parla dell’assenza del padre: durante la resistenza per più di nove mesi, e anche dopo, al ritorno in città, è spesso via per lavoro, all’estero. Eppure c’è, come continuità di qualcuno che avendo in mente la figlia la tiene in vita. Già, Stellina, il nome dato alla formazione partigiana, nella quale Giulio Bolaffi non aveva mai detto ai compagni di avere dei figli: per proteggerli e per evitare pericoli e ritorsioni li teneva nella Balma del suo cuore e della sua mente. Questa presenza nella mente di qualcuno come elemento che tiene in vita la ritroviamo nelle parole di Luciana Nissim: nell’intervista, l’ultima, a Anna Maria Guadagni, racconta della prima uscita, nel 1942, con Franco che diventerà suo marito: “Quella sera disse: ‘E’ piacevole e preoccupante come mi piace stare con te.’ Era la sua dichiarazione, è sempre stato parco di parole d’amore. Però questa frase me la ricordo bene. Al campo mi ha tenuta viva. Ho sempre pensato: ‘Fuori c’è Franco, e mi aspetta…’ “. (Guadagni, 2007, 281in Chiappano, 2008). Essere presente nella ‘balma ‘ di qualcuno è una forza, la stessa del racconto che sospinge Primo Levi fino a casa a Torino dopo la prigionia e il lungo viaggio attraverso l’Europa della Tregua (1963): qualcuno lo aspetta, è sicuro di essere rimasto vivo nella mente di qualcuno che c’è.
Un altro elemento che la Balma di Vonzo e dell’analisi hanno tenuto vivo è costituito dalla ricchezza di esperienze che vi si sono dispiegate, in libertà e senza sanzioni: l’asinello di nome Marco, i salti nella neve soffice, il paiolo delle castagne lesse, la tana della volpe, gli assalti dei maschi, la monta del toro come speciale educazione sessuale, i giochi di cercare funghi, lumache, erbe, rincorrere pipistrelli, e via dicendo.
“Vivere a Vonzo era proprio bello!Andavamo per legna nei boschi o al pascolo con gli altri bambini del paese, giù per le ‘rive’ scoscese con le capre e quando calava il sole rientravamo a scaldarci in qualche stalla dove c’era la stufa accesa perché le mucche non dovevano soffrire il freddo. (p.39)
Tutta questa ricchezza di esperienze personali si prolunga nella seconda parte, respirando l’aria del Trentino in tutti sensi, nel gruppo degli tzofim simile agli scout, anche nel Circolo Giovanile Monarchico, nella bellezza dell’ambiente delle Dolomiti e nella solida e ruvida autenticità degli abitanti. Ma anche nella contiguità tra la vita e la morte, che continua a essere presente, nella morte in montagna dell’amico Giulio che unisce per sempre nella vita i due giovani Stella e Alberto.
“ Alberto ruppe infine il lungo silenzio e mi disse: ‘Quando ci sposeremo, se nascerà un maschio, ti va di chiamarlo Giulio?’ Gli risposi subito di sì: mai avevo sentito la vita così vicino alla morte. “ (p.154)
Anche le sedute di analisi sono raccontate con la qualità di esperienze vive: sappiamo che una peculiarità della cura psicoanalitica consiste proprio nell’essere una pratica che non dà indicazioni o risposte. Anche in questo caso i pazienti protestano: “ Ma lei non mi dice che cosa fare, allora vado da un cognitivista che almeno mi dà risposte!”. Le sedute che Stella riporta con puntigliosa successione conservano la loro qualità di vive esperienze, di incontri e scontri tra due persone che interagiscono a livello conscio e inconscio, senza intellettualizzazioni e prescrizioni. Ancora una volta, si mescolano kashèr e tarèf.
L’uso di queste due parole ci introduce in un’altra dimensione peculiare del libro della Balma: il linguaggio. Più e più volte Stella raccoglie parole del dialetto piemontese o del lessico ebraico -piemontese (usato anche da Primo Levi) che altrimenti sarebbero andate perdute: parole che condensano storie e emozioni, dense di sensorialità e simbolizzazione insieme, un concentrato di poesia. (arnasin per trappola, brocca per chiodi, pisciacan per tarassaco, ecc.). Una ‘lingua salvata’ come recita il titolo di un libro di Elias Canetti (1977). In questi reperti linguistici salvati c’è la consapevolezza dell’importanza non solo delle esperienze vissute in prima persona, ma anche della necessità, per farle proprie, di trasformarle in linguaggio verbale, quello che usa la psicoanalisi nella cura. Non è che il linguaggio sia superiore alle esperienze ma ne è la naturale trasformazione in comunicazione, in quanto il linguaggio è vettoriale, è sempre rivolto a un altro, anche il linguaggio del più solitario poeta ermetico.
Il fatto che il linguaggio sia rivolto a un altro e che sia veicolo condiviso, né mio né tuo ma nostro, ha anche fare con il tema della testimonianza delle persecuzioni storiche collettive: il linguaggio nel quale le storie sono raccontate trasforma i lettori in testimoni, in depositari di qualcosa che deve essere superato ma non dimenticato, perché, che, dice Ricoeur, è gewesen è stato (Ferruta, 2007). La cura analitica trasforma anche perché coinvolge l’altro in una comunicazione che entra a fare parte del tessuto interumano condiviso, personale e sociale insieme.
Non a caso lungo il libro a più riprese viene segnalata l’importanza che la famiglia di Stella conferisce allo studio e alla scuola. Nonostante i tempi bui, ai figli viene garantita la cura dell’apprendimento, durante lo sfollamento da zia Gabriella:
“ Zia Gabriella continuava a farci scuola pure ad Oglianico, ‘così non perdete un anno, quando la guerra sarà finita’, e, forse per farci cambiare un po’ umore oltre che l’aria, ci assegnò un tema dal titolo: Il mio sport preferito.”(p.75).
A 15 anni la nonna Vittoria tenta di organizzare un matrimonio combinato:
“ Per fortuna quella volta mio padre si oppose con decisione: prima di sposarmi dovevo terminare i miei studi. (p.123)
E anche dopo Stella non tiene conto della soluzione liquidatoria proposta per i suoi sintomi ossessivi dalla psichiatra consultata (“Sposati e vedrai che ti passerà tutto”, p. 127), ma intraprende il suo intenso percorso di analisi che termina sul finire del quinto anno alla seduta 497°:
“Paziente: Come altre volte le ho detto, sapevo di essere una ribelle, ma anche una ragazza cattiva e ciò mi riempiva di sensi di colpa dai quali poi ero perseguitata, come nella realtà lo ero stata dai nazifascisti. Invece ora capisco di essere stata una ribelle, ma di segno positivo.
Analista: Ribelle? Nello stesso senso di suo padre, il partigiano ‘ribelle’ di cui mi ha raccontato?
Paziente: Già, è vero, in certi casi è bene sapersi ribellare, è liberatorio, come gli ebrei del ghetto di Varsavia: salvare almeno la dignità di esseri umani, se non la vita.
Analista: Lei sta sperimentando una forza nuova che le proviene da un padre coraggioso che l’ha aiutata a uscire fuori dal suo ghetto interno in cui aveva cominciato a isolarsi.
Paziente: Vuol dire il ghetto delle mie paranoie, vero? Ero proprio ridotta male quando finalmente sono giunta da lei, dottoressa! Ha fatto molto più lei della Croce Rossa al tempo delle persecuzioni e della Shoah!” (p. 176-177).
Tutti questi elementi hanno contribuito a formare la personalità di una donna forte e ribelle, in un’integrazione felice. La ricchezza di Stellina.
Bibliografia
Canetti E. (1977). La lingua salvata. Adelphi, Milano, 1980.
Chiappano A. ( a cura di). (2008). Ricordi della casa dei morti e altri scritti. Giuntina, Firenze.
Ferruta A. (2007). Cambiamento dell’immagine etica dell’uomo? Memoria e funzione mitica. Rivista di Psicoanalisi, 2, 529- 538.
Kertész (1975). Essere senza destino. Feltrinelli, Milano, 1999.
Levi P. (1963). La tregua. Einaudi, Torino.
Dicembre 2015
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