Cultura e Società

Intervista ad A. Schön per approfondire la riflessione fra psicoanalisi e letteratura. A cura di D. Federici

14/12/22
“DICO, dunque siamo” di A. Schön. Recensione di D. Lisciotto

PSICOANALISTI SCRITTORI 

Intervista a Alberto Schön per approfondire la riflessione fra psicoanalisi e letteratura

a cura di Daniela Federici

parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura, #psicoanalisieletteratura

“Leggete in profondità, non per credere, 

non per accettare, non per contraddire, 

bensì per imparare a partecipare 

dell’unica natura che scrive e legge” 

Bloom, Come si legge un libro

Alberto Schön, classe  1934, specialista in Neurologia, psicoanalista membro ordinario SPI-IPA.

Si interessa di processi creativi come umorismo, poesia. I pazienti gli hanno spiegato bene le angosce, dubbi, contraddizioni, per cui adesso può insegnare queste importanti materie. 

Qualche libro: “Vuol dire” (Bollati Boringhieri, 1997), “Vizi virtù & Co” CLEUP, 2002), “Infallibili errori. Disforismi” (CLEUP, 2007), “Rotatorie. Dall’irritazione alla narrazione” (CLEUP, 2014), “Natali per una modesta bellezza” (CLEUP, 2015), “Dico, dunque siamo” (CLEUP, 2020), “Batterdocchio. Disegni senza matita” album fotografico con Beatrice Piccoli (ed. Bette, 2021), “Urbs ri-picta.” con Beatrice Piccoli (ed. Bette, 2022).

Per meriti letterari è stato nominato socio dell’Accademia Galileiana Patavina. 

D.F. Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel farsi psichico che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza del profondo, perché attingendo a fonti personali e invisibili, riescono a dare forma a ciò che lo studioso arriva a comprendere solo attraverso un lavoro faticoso. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.

Come arrivi alla scrittura di un testo e quali scrittori ti hanno ispirato di più?

A.S.  Da giovane ho imparato in famiglia e un po’ in sinagoga l’importanza e il rispetto per il libro e la parola. Al liceo mi è sembrato un bel gioco scrivere. Era un’attività spontanea e piacevole con l’aiuto dei maestri di scrittura. In ordine cronologico ho ammirato Manzoni, Bulgakov, Dumas, Jerome, Calvino, Carlo e Primo, Levi, Zanzotto, Meneghello, Queneau. Per me conta molto il ritmo e il suono della parola e delle frasi, poi anche che abbiano un senso. 

D. F. Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo. 

Nel tuo lavoro di scrittore quanto hai attinto a modelli narrativi o strutture simboliche di matrice psicoanalitica? Quanto pensi che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla tua scrittura nel costruire trama e personaggi? 

A.S. La relazione col mio analista ha contribuito all’emergere di narrazioni, sia per quanto proveniva da me, sia per emulazione  e competizione visto che anche l’analista scriveva e dava qualche esempio di competizione. Poi molto hanno contribuito i pazienti, cui devo gran parte del materiale narrativo. Tutti sanno che Freud era un ottimo scrittore, premio Goethe. Mi ha insegnato a essere meno prolisso di lui, che usava ancora modelli ottocenteschi. Le vicende emotive, come dici giustamente, sono importanti in psicoanalisi, in poesia e in narrativa. E nell’altro linguaggio, quello della musica. Petrolini cantava “Io tutto quel che sono, non ve lo posso dire, se a dirvelo non son buono, mi proverò a cantar (Fortunello)”. 

Al liceo mi aveva molto colpito la sentenza agostiniana “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”. Che poi deve essere la lezione di Socrate. In più la riattivazione del progresso evolutivo, prodotto dal buon lavoro tra analista e paziente, mi pare un bel gioco che produce piacere accanto alla fatica. E anche questo passa nei racconti e nei versi. 

Devo precisare che ho scritto molti aforismi, un bel po’ di versi, nessun romanzo, perché a pagina tre ero già stufo, e un po’ di racconti brevi, di poche pagine. 

D.F. Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.

Quanto da scrittore hai misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Ti sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non avevi considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la tua scrittura o leggerti ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro?  

A.S. La “sorpresa” nel mio modo di sentire è che mi venga in mente un gioco di parole, una caricatura ironica o una parola inventata, come “monapattino”, che sottintende un pensiero. Non mi appassiona il giallo e il come va a finire. Da anni leggo pochi romanzi, mai troppo lunghi. Altra cosa è “la curiosità di vedere fin dove va a finire”. Sì, qualche volta nel raccontare una storia vera ho inventato una conclusione diversa, quella che avremmo preferito o che sembrava più emozionante. Più spesso ho modificato dettagli, i tempi, la scelta lessicale, lasciando l’essenziale vicino alla verità storica, almeno per come mi pareva si fosse svolta la vicenda. 

I lettori a volte scoprono nei miei racconti contenuti che non mi era noti. Qualche volta il paziente mi ha direttamente suggerito un certo modo di esprimersi. Tre pazienti adulti sui sessanta anni in corso di analisi si sono messi per la prima volta a scrivere, uno a tenere un blog. Uno ha avuto riconoscimenti. 

D.F. La finzione letteraria può essere una via d’accesso alla consapevolezza o ciò che ci permette di fuggire la realtà, può fungere da filtro e visione riflessa per poter scrutare verità altrimenti intollerabili. Nella tua esperienza di lettore quanto consideri che i buoni libri siano strumento elaborativo per il nostro mondo interno? E quanto lo è la scrittura? 

A.S. I buoni libri per quasi tutti promuovono e facilitano le esplorazioni del mondo interno e non solo del nostro. Leggere, ripensare, associare, riavvolgere la pellicola sono operazioni di evidente valore maturativo. La scrittura ne è una possibile ulteriore evoluzione. Si scrive per fare ordine, per ricordare, per trasmettere, per capire e/o fuggire la realtà, per cambiarla in modo più tollerabile, per raccontare storie molto peggiori o migliori di quelle che ci sono capitate davvero, per finire un discorso senza essere interrotti …

D.F. Com’è il misterioso salto da fruitore a creatore di un’opera letteraria? L’imponderabile esperienza estetica che si offre all’identificazione, che favorisce il dispiegarsi dell’immaginario e permette il godimento di fantasie e di risonanze con aree più o meno profonde del Sé, si dispiega alleviata dalla censura in una mescola ottimale fra rivelazione e travestimenti di quanto si muove nell’altra scena dell’inconscio. Così l’Autore deve trovare un equilibrio fra una scrittura che attinga a una verità del profondo per riuscire a coinvolgere il lettore e allo stesso tempo contenere una presenza di misurata astensione di sé per poterne fare una storia di tutti.

Quanto è stata naturale e quanto complessa una scrittura che riuscisse a rendere le intenzioni?  

A.S. La prima stesura la lascio libera, senza correzioni. Poi il lavoro di dare la forma adatta può essere molto lungo. Si tratta di trovare la forma sintattica, lessicale, estetica, sintetica che abbia la mia approvazione e sia accettabile da altri, certo non tutti. La sola intenzione cosciente quando scrivo è di raccontare qualcosa di vivo, fertile, e aggiungerei in varia misura le motivazioni elencate nella risposta precedente.

Certo c’è un salto da lettore a scrittore, ma per me resta misterioso. A volte un racconto parte da eventi realmente accaduti e poi prenda una strada di fantasia che costeggia le intenzioni meno coscienti. 

D. F. In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che da forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensi che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Credi che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza? 

A.S. Sì, ripeto qualcosa detto prima; penso che la buona letteratura sia un modo raffinato per provare piacere, pensare, recuperare pensieri, organizzarli e esprimerli in forma comprensibile ad altri. Gli psicoanalisti conoscono molti meccanismi del pensiero ed è bene che trovino il modo per mettere altri in condizione di migliorare il proprio modo di pensare e di essere consapevoli. 

L’analisi, la talking cure, mi ha permesso di vedere in me e in altri un orizzonte più vasto nel mondo interno, con ampliamento dei linguaggi, dalla madrelingua ai dialetti, al motherese, alla lingua delle nonne, che Zanzotto nel suo dialetto solighese chiama petèl ed è la lingua delle nonne, il “vècio parlar che tu à inte ‘l to saòr un s’cìp de lat de la Eva” – vecchio linguaggio che nel suo sapore conserva un goccio di latte della (prima madre) Eva.

D. F. Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).

Pensi che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano? 

A.S. In passato erano in pochi a leggere. Oggi siamo più alfabetizzati. Non è detto che i libri più venduti siano i migliori. Credo che non scompariranno i libri, di certo cambierà il supporto, non saranno più tutti di carta, ma fantasie, narrazioni, avventure, trame e strategie narrative resteranno importanti. Scrittori e analisti continueranno a restaurare i ricordi di lettori e analizzandi. 

Le immagini prefabbricate ci sono sempre state: crocefissi, altari, templi, statuette votive, santi e madonne. Erano poche e adesso molte di più. Infatti provo una sazietà spiacevole guardando la pubblicità. 

D.F. Quando le parole finiscono e riponiamo il libro su uno scaffale, il significato continua a lavorare in noi, con i suoi dubbi, i pensieri, le prospettive. 

Bloom scriveva che la lettura è il più terapeutico dei piaceri, che rafforza l’Io cogliendone i veri interessi e fa tornare a casa. 

Perché avere luogo è dove le cose accadono. O almeno possono accadere.

A.S. Penso come te. Le parole che leggiamo nel libro hanno una fine, ma continuano a significare e stimolare. Aver luogo può significare anche svolgersi. Un evento avviene, si svolge, ha luogo. Nei mezzi di comunicazione detti social intere frasi sembrano non luoghi. Però non ho intervistato i giovani che li frequentano. Magari loro sarebbero capaci di spiegare e dare senso ai servizi di messaggeria breve e/o multipla (SMS, MMS), con annessi cinguettii. Riconosco che tag è più spiccio di etichettare e meno vago di qualificare. 

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