Cultura e Società

Intervista a Vittorio Sermonti

24/05/10

 

 

A cura di Laura Contran

Vittorio Sermonti, narratore, saggista, traduttore, docente, regista, poeta, attore, si è sempre occupato del rapporto tra la scrittura e la voce, dell’energia vocale latente nel linguaggio letterario. Ha pubblicato, tra l’altro, tre romanzi; un libro di racconti praghesi (Il tempo fra cane e lupo, Bompiani, 1980); La Commedia di Dante (Rizzoli, 1988-2001), racconto-commento in tre volumi; Ho bevuto e visto il ragno, cento pezzi facili (il Saggiatore, 1999) Sempreverdi 14. Opere in forma di racconto. (Rizzoli, 2002) e L’Eneide di Virgilio (Rizzoli, 2007)

Ha letto La Commedia di Dante tra il 1995 e il 1997 nella Basilica di San Francesco a Ravenna. Tra il 2000 e 2002 ai Mercati Traianei e al Pantheon a Roma. Dal 2003 al 2005 al Cenacolo di Santa Croce a Firenze e nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. A Bologna, l’Inferno nella primavera del 2006. Nell’autunno del 2006 e del 2007 ha letto i XII libri dell’Eneide (tradotti e introdotti da lui) nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano e nell’Esedra.

Questa intervista trae spunto dal suo ultimo libro Il vizio di leggere (Rizzoli, 2009).

D. Professor Sermonti, nel suo ultimo libro Il vizio di leggere si dichiara un bibliodipendente mai pentito. Suona quasi sovversivo in quanto introduce l’elemento del piacere in un’epoca contrassegnata dalla velocità e dalla voracità con cui si consumano gli oggetti (anche quelli del sapere e delle conoscenza). Milan Kundera scriveva che c’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. La lettura è una pratica che richiede e contempla un tempo per il pensiero che oggi non riusciamo più a concederci? O forse come Lei sostiene vengono pubblicati più libri di quanto ne vengano letti e sono sempre più rari – e uso una Sua espressione – quelli veramente «capaci di sgomitarci l’anima»?

R. Una precisazione preliminare: se a un certo punto ho suggerito l’epiteto «bibliodipendente», che peraltro non mi incanta, è stato solo per scongiurare un «bibliofilo» che mi era stato apposto dall’editore. Di fatto la gelosia del collezionista di libri non mi abita affatto, anzi è difficile che a una collana di volumi d’un qualche pregio non me ne manchi almeno uno (prestato? Perso in corso di trasloco?); e non sarà un caso …

Ciò non toglie che per l’oggetto-libro io abbia nutrito nei decenni una devozione quasi indecente. Una volta il mio primo approccio con un libro era quello di aprirlo a caso e annusarlo (d’altra parte un tic del genere, lo ho condiviso con molti lettori eccellenti: Contini, Garboli …). Ecco una prima intenzione di voluttà. Come posso amare i volumi incorporei evocabili su lavagnetta elettronica che le nanotecnologie ci promettono per il futuro prossimo? Non posso. D’altra parte, se la lavagnetta è inodore, troppo spesso anche il cosiddetto «cartaceo» sembra aspirare all’uniformità del deodorante. Mentre – come insegnano i sociologi – il tempo del consumo stringe sempre di più, troppi perdono il proprio a scrivere romanzi, e pretendono di perdere anche quello degli altri pubblicandoli. Per non parlare di una saggistica fluviale che spreme da Internet una illimitata erudizione senza cultura. Situazione imbarazzante per uno che pratica la lettura (mi permetterò di citarmi) con la perseveranza, con l’abnegazione, con l’inconfessabile piacere con cui coltiva i suoi vizi più ostinati. Sto dicendo che l’epoca che ci è toccata non produce scrittori e saggisti geniali? Nemmeno per idea. Che io sappia, ne produce molti, e moltissimi certamente ne produce che io non so. Certo produce anche una pletora di non-scrittori che scrivono. A scanso di equivoci, non sto parlando degli autori di «intrattenimento», talora simpaticissimi.

Quanto agli abbinamenti suggeriti da Milan Kundera, ho qualche dubbio. Forse un lento, lungo, discontinuo oblio non è affatto incompatibile con le cupe delizie della lettura, e con quel loro regime di resorgiva. Penso che colga nel profondo Gabriella Ripa di Meana quando scrive che «l’oblio non dimentica».

D. Nella prefazione definisce questa antologia «un campionario degli autori più amati»: è una traversata letteraria, tra capolavori “assoluti” e opere quasi sconosciute al grande pubblico, che lascia intravvedere vizi e virtù dell’animo umano. Ci sono Hölderlin, Tolstoj, Pound, Catullo, Gadda, Faulkner, (per citarne solo alcuni), ma non mancano Karl Marx e Friedrich Engels. Poi, inaspettatamente, troviamo L’Almanacco illustrato del calcio del 1983 (appartenuto a suo figlio bambino) che trova posto tra Ferdinando Pessoa e Plutarco; oppure la traduzione inedita di due paginette tratte dal Dictionnaire des injures di Robert Édouard preceduto da alcune strofe delle poesie di Saffo. Avvisa inoltre il lettore che «la successione dei testi è accidentale anche se imperfettamente accidentale: è una tombola con il trucco». I brani scelti vengono presentati da brevi, ma puntuali “noticine” (noticine che in realtà potrebbero costituire nel loro insieme un libro nel libro), nelle quali si intrecciano riflessioni letterarie con ricordi personali e autobiografici legati anche alla Sua vasta esperienza di lettore-scrittore, e non solo. Delle scelte fatte sul filo della passione e della memoria, potremmo dire, e guidate da libere associazioni che poi, come sappiamo, tanto libere non sono?

 

R. Un critico molto intelligente ha scovato una linea di continuità fra un dialogo della Queen Victoria di Lytton Strachey, tre pagine della seconda parte della Gita al faro di Virginia Woolf e un coro dell’Agamennone di Eschilo. Fra i primi due testi il legame è assolutamente ovvio: Strachey e la Woolf erano molto amici, pezzi pregiati del famoso circolo di Bloomsbury, ecc. ecc.; ma il nesso fra l’Agamennone e To the Lighthouse è più nascosto: in tutte e due i casi si canta con luttuoso languore il ritorno a casa, irriconoscibili e irriconosciuti, in capo a dieci anni abbuiati dalla guerra. È un buon esempio di connessione. Deliberato? Diciamo, preterintenzionale. In tutti i casi la serialità che ho più o meno applicato ha i caratteri del «domino»: un testo è connesso al precedente secondo un criterio che non è mai quello in forza del quale si connette al successivo. Il resto è affidato appunto alle libere associazioni, contando proprio sul fatto che tanto libere non sono, e che tanto libere non saranno nemmeno quelle di chi dovesse avere la pazienza di leggere il mio Vizio di fila.

Fra pagine di libri prediletti e talora francamente sublimi, ho lasciato piovere i coriandoli di letture accidentali e del tutto extraletterarie: ma come l’intensa trivialità della lettura pretenziosa e scadente non trova spazio nel mio Vizio, lo trovano scritture marginali e appetibili, il lessico esoterico e la tortuosa sintassi di competenze che mi sfuggono e mi seducono, e anche l’inoppugnabile tenuta stilistica della stupidità. Ad esempio, credo che trascrivere con puntiglio su carta le scritte murali di un quartiere le associ perfidamente all’epopea dell’idiozia quotidiana.

D. So che Lei è anche un attento lettore di testi psicoanalitici e incontriamo, infatti, un breve saggio di Freud La finezza di un’azione mancata dedicato a una «paroletta abusiva» (590) scritta dallo stesso Freud su un biglietto di accompagnamento a un regalo. Un lapsus, in questo caso una difficoltà estetica, svela un conflitto pulsionale espressione di un desiderio inconscio che riguarda cioè l’etica. Ritiene e in che modo che questi due versanti etico ed estetico appartengano all’esperienza poetica e letteraria?

 

R. La domanda meriterebbe in risposta un saggio che non sono in grado di scrivere. Me la caverò con una oscura esemplificazione: credo che alla pienezza dell’«esperienza poetica e letteraria» (che, beninteso, include l’esercizio della lettura) pertenga tanto la verticalità dell’etica quanto l’orizzontalità della morale, e che fra le due l’estetica tracci una emozionante diagonale.

D. Per restare in un ambito psicoanalitico e sapendo quanto Freud e la psicoanalisi abbiano attinto dalla letteratura Lei afferma che «ognuno si sogna i suoi sogni: i poeti anche quelli degli altri». E a proposito del sogno racconta un aneddoto riguardante uno dei più grandi pensatori del 900 Theodor W. Adorno conoscitore critico della teoria psicoanalitica, il quale per 35 anni ha scrupolosamente trascritto i propri sogni rifiutandosi categoricamente di indagare il loro significato. Così facendo, «sapeva benissimo in che tautologia sintomatica si andava cacciando […] prendendosi la inesplorata libertà di non sognarsi di sapere chi fosse ad avere sognato quel sogno» (523). Mi sembra che Lei ponga, non senza ironia, la questione dell’estraneità del soggetto dell’inconscio che tuttavia, a dispetto dell’io cosciente, prende la parola (ça parle) attraverso il sintomo della/ nella scrittura.

R. Sono contento di quello che Lei pensa, perché mi pare proprio di condividere le Sue conclusioni. Ma per esserne sicuro, temo che dovrei sottopormi ad autoanalisi. Che per intanto io non sappia «con ragionevole approssimazione» chi sia l’autore del mio libro lo segnalo in premessa. Più in generale, Lei si renderà conto di come mi risulti difficile imbastire una qualche interpretazione ulteriore di un libro costituito da 160 interpretazioni di 160 testi di altri.

D. Un’ultima domanda a proposito dello stile. Che cosa è lo stile? si chiede, sottolineando che non esiste, tra le migliaia, una definizione passabile (15), ma solo degli “indizi”. Tra i vari indizi rintracciabili qua e là nel Suo libro ne riporto alcuni; a partire da Cristina Campo, la quale, nel porsi lo stesso interrogativo offre dello stile un’immagine suggestiva «[…] una virtù polare grazie alla quale il sentimento della vita sia nello steso tempo rarefatto e intensificato». Oppure nel riferirsi a D’Annunzio Lei ne sottolinea la “maestria stilistica sublime fino al ridicolo e ridicola fino al sublime” (526). Mentre Di Gogol’ e del suo capolavoro Le anime morte scrive «Lo stile di Gogol’ non trascende e non riscatta nulla. E’ lo stile dei giorni che se ne vanno uno dietro l’altro, senza nemmeno accennare alla curvatura di un senso» (522). Spostando la questione in ambito psicoanalitico J. Lacan nell’Ouverture dei suoi Scritti dà dello stile una definizione alquanto enigmatica «Lo stile è l’uomo a cui ci si rivolge, si ripete senza vedervi malizia né essere inquieti che l’uomo non sia più un riferimento così sicuro». Sappiamo che Lacan trae spunto, facendone una parodia, da un motto di George Louis Leclerc, conte di Buffon, considerato un “modello” di retorica, per introdurre “qualcosa” nell’ordine della differenza tra il soggetto umanistico e quello psicoanalitico, tra il sapere accademico e quello psicoanalitico. Non è forse questo “qualcosa” che va nel senso della rappresentazione (e dell’invenzione) ad accomunare, per molti aspetti, la psicoanalisi, la letteratura e la poesia?

 

R. Direi di sì: questo lacaniano «qualcosa», nel sottrarre al soggetto umanistico lo statuto di riferimento perentorio e rassicurante di ogni pensiero e di ogni «movimento umano», accomuna per molti aspetti psicanalisi, letteratura e poesia (ma anche, immagino, ogni esperienza del sacro). D’altra parte la conclamata eccedenza del significante sul significato mi pare da tempo carichi il miglior discorso analitico – specie in area lacaniana – della metaforicità, della allitteratività, della musicalità (generalmente atonale), dell’inevitabilità, insomma della responsabilità stilistica del discorso poetico. Dubito invece delle competenze incrociate. La lettura analitica di un’opera di poesia o comunque di un testo letterario può sedurmi e abbandonarmi, ma rischia di non lasciarmi convinto, come mi insospettirebbe la trattazione di un caso clinico a rime baciate. Me la cavo con un maldestro aforisma, perché il tema meriterebbe un discorso molto molto articolato.

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