parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura
PSICOANALISTI SCRITTORI
Intervista a Giuseppe Martini: una riflessione fra psicoanalisi e letteratura
di Daniela Federici
parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura
“Leggete in profondità, non per credere,
non per accettare, non per contraddire,
bensì per imparare a partecipare
dell’unica natura che scrive e legge”
Bloom, Come si legge un libro
Giuseppe Martini è psicoanalista della SPI, attualmente membro della redazione della Rivista di Psicoanalisi. Già primario del Dipartimento di Salute Mentale Roma 1, ha insegnato presso le scuole di specializzazione in psichiatria di diverse università italiane. Campo elettivo della sua attività clinica sono le depressioni, i disturbi di personalità e le psicosi, mentre in ambito teorico si interessa dei rapporti tra psicoanalisi e filosofia ermeneutica e tra psicoanalisi ed arte con particolare riferimento alla letteratura ed al cinema. Nel corso del 2024 ha coordinato i seminari dedicati a Arte tra psicoanalisi e filosofia: pulsione creativa e piacere estetico, organizzati dal Laboratorio di Psicoanalisi, Ermeneutica e Fenomenologia, di cui fa parte. Oltre che di numerosi lavori apparsi in riviste scientifiche, è autore di un romanzo: Le storie infrante (Fattore Umano edizioni, Roma, 2016) e di diversi saggi, in cui peraltro ricorrono racconti brevi: Ermeneutica e narrazione (1988), La sfida dell’irrappresentabile (2005), La psicosi e la rappresentazione (2011), L’identità in questione (2020, in coll. con V. Busacchi). E’ di recente pubblicazione un suo ultimo saggio: L’inconscio filmico (Jaca Book, Milano, 2024).
DF: Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel ‘farsi psichico’ che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza dell’anima, perché attingendo a fonti profonde, scoprono e danno forma a quel che lo scienziato impiega un lavoro faticoso per portare alla luce. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.
Come arrivi alla scrittura di un testo letterario e quali scrittori ti hanno ispirato di più?
GM: Inizio col ringraziarti molto di questa tua intervista, da cui sono lusingato, ma mi corre l’obbligo ammettere che la dizione “psicoanalista scrittore” mi si adatta poco (aggiungo: purtroppo) se con essa ci si riferisce alla scrittura letteraria e non a quella saggistica. Mentre della seconda ho infatti una certa esperienza, quanto alla prima essa si limita ad un solo romanzo (ed a un abbozzo di un secondo che al momento non mi soddisfa e dunque non so se mai vedrà la luce). Diciamo che mi sento, ahimè, più uno scrittore “in potenza” che “in atto”. Ciò premesso, già questa tua prima domanda è per me molto intrigante, non solo per quanto mi chiedi sul percorso che mi ha condotto alla scrittura, ma soprattutto per il modo in cui poni la questione.
Cominciando comunque dalla domanda in sé, posso rispondere, in sintesi, che, al di là dei tentativi “letterari” adolescenziali, penso di essere giunto alla scrittura attraverso la psicopatologia, affascinato dai grandi narratori di matrice psicoanalitica e psichiatrica, quali ovviamente Sigmund Freud e Ludwig Binswanger in primis. Così, ho cominciato a inserire nei miei libri non solo delle vignette cliniche, ma dei veri e propri racconti brevi a mo’ di intermezzo della trattazione clinica o teorica che fosse. Dunque i primi racconti, presenti nel mio Ermeneutica e narrazione. Un percorso tra psichiatria e psicoanalisi e in La psicosi e la rappresentazione, avevano la funzione di illustrare la psicopatologia in modo differente non solo dalla descrizione clinica nosografica, ma anche dalle esposizioni di taglio psicoanalitico dei casi clinici. Questo intento didattico è poi venuto meno (se vuoi rimane nel sottotesto) nella scrittura del mio romanzo, dove si è invece amplificata l’attenzione alla storia in sé. Un aspetto, se così posso dire, “atipico” per uno scrittore che è psichiatra e psicoanalista, lo si potrebbe intravedere nel fatto che nelle storie che compongono i vari capitoli il terapeuta non c’è (o rimane sullo sfondo): ci sono solo i pazienti di cui il primo rievoca le vicende in una sorta di dreaming state nel dormiveglia. (Naturalmente ciò è vero solo limitatamente alla superficie del testo: lo psicoanalista c’è, anche se non si vede: c’è soprattutto attraverso i processi di immedesimazione: poi riprenderò brevemente la questione). Quanto alla seconda questione che poni (gli scrittori che più mi hanno ispirato) è giocoforza che faccia innanzi tutto riferimento sia agli psichiatri e agli psicoanalisti scrittori, sia ai pazienti scrittori (come non ricordare Schreber?). Ma naturalmente c’è anche la grande letteratura. Anche qui un posto particolare va riservato ad Arthur Schnitzler, che ha scritto pagine in cui riesce straordinariamente ad immedesimarsi nella follia, soprattutto in Fuga nelle tenebre (1931) e La signorina Else (1924). Poi ci sono gli autori che da sempre più amo: Proust, Conrad, Pirandello, Pavese, Hesse, Woolf… l’elenco sarebbe naturalmente ben più lungo: cito solo coloro cui ho fatto riferimento nei miei lavori.
Vengo ora però alla tua riflessione iniziale, che tocca problemi estremamente complessi e importanti per noi psicoanalisti, cercando, anche se in modo un po’ confuso, di dire la mia. Quando tu dici la parola nasce nella carne, mi verrebbe da aggiungere e alla carne ritorna. Appena pochi giorni fa forse non avrei avanzato tale considerazione, ma giusto lo scorso sabato mi è capitato di fare conoscenza, in modo del tutto superficiale, con quello che è considerato il più grande poeta brasiliano contemporaneo: Manoel De Barros. Purtroppo quasi nulla è stato tradotto in italiano (io non conosco il portoghese), a parte una raccolta da Feltrinelli e qualche singola poesia reperibile sul web. L’associazione di cui faccio parte, Laboratorio di Psicoanalisi, Ermeneutica e Fenomenologia, gli ha dedicato un seminario, cui sono intervenuti due relatori brasiliani, nell’ambito del ciclo dedicato a Pulsione creativa e piacere estetico. Nelle sue poesie, come ci hanno illustrato i relatori S. Aires e J.L. Borges Zamchi, De Barros mira proprio a questo: scomporre il linguaggio, scomporre la parola per riavvicinarla alla materialità originaria, alla cosa. A me sono venuti in mente, per associazione, due versi di una nota poesia di Rimbaud: «A nero E bianco I rosso U verde O bleu/ vocali dirò forse un giorno le vostre nascite latenti», ma a ben riflettere qui è in gioco esattamente il movimento contrario. Mentre in questi versi il movimento è dalla carne alla parola, nell’opera di De Barros l’aspirazione è muovere dalla parola alla carne, alla materialità. Detto in altri termini: nella poesia di Rimbaud c’è una vettorialità dalla rappresentazione di cosa alla rappresentazione di parola, che mira a cogliere la genesi del linguaggio, in De Barros la vettorialità è dalla rappresentazione di parola alla rappresentazione di cosa: è messa in gioco una potenzialità distruttiva, ma creativa del linguaggio, in analogia – mi verrebbe da dire – con un altro poeta, un gigante della letteratura di tutti i tempi, che ha pagato con la follia il suo avvicinamento a questa dimensione magmatica e primordiale da lui definita l’aorgico: Hölderlin.
Così, De Barros evoca parole decomposte, parole fino alle macerie, invita a sbucciare le parole, a iniettare la follia nei verbi in modo che trasmettano i loro deliri ai sostantivi e insieme osserva che i poeti e i folli si compongono di parole, che il poeta è un essere che lecca le parole e si allucina, per altrove concluderne: uso la parola per comporre i miei silenzi.
E qui arrivo all’(inevitabile) paragone tra psicoanalisi e letteratura. La psicoanalisi è attraversata da questa stessa dialettica. Dall’irrappresentabile alla rappresentazione, certamente, ma anche dalla rappresentazione a un nuovo irrappresentabile di arrivo, auspicabilmente liberato dai radicali di angoscia e sofferenza che contraddistinguevano il primo (e qui sta la differenza rispetto alla letteratura). Del resto questa dialettica è propria di ogni pensiero simbolico che, nel momento in cui svela e rappresenta, lungi dal chiudersi e dall’esaurirsi, apre a una ulteriorità di significato che ancora non ha accesso alla rappresentazione, e così via all’infinito.
DF: Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo.
Quanto pensi che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla tua scrittura nel costruire trama e personaggi?
GM: Riferendomi al mio Le storie infrante, ma anche all’abbozzo del secondo romanzo e dei tanti numerosi il cui progetto è nel cassetto e che mai probabilmente saranno realizzati, posso senz’altro affermare che personaggi e trama nascono strettamente dagli incontri che ho avuto nel corso della mia esperienza clinica, integrati beninteso da riferimenti autobiografici -in modo conscio e inconscio, mi verrebbe da dire- come del resto è inevitabile per ogni scrittore, anche se magari per alcuni in forma più palese. Nei racconti inseriti nei miei saggi e nelle vignette cliniche in forma narrativa che pure in essi compaiono (ve ne sono un paio anche in L’identità in questione, che pure è un testo di psicoanalisi e filosofia, scritto in collaborazione con Vinicio Busacchi), i pazienti sono semplicemente mascherati come si usa fare, per ovvie ragioni d’ordine deontologico. Nel romanzo ho utilizzato invece una tecnica un po’ più complessa: ho mescolato i vari pazienti tra loro, uomini e donne, giovani e anziani, in modo tale da creare un nuovo personaggio, magari con qualche aggiunta di pura fantasia, che è quasi sempre “reale” nei singoli frammenti, ma immaginario considerato come persona nella sua interezza.
C’è un altro punto che vorrei toccare in risposta alla tua domanda che fa un riferimento specifico a quanto abbia pesato “l’esercizio della funzione maieutica”. Come ho già detto, nella scrittura ho adottato la scelta di non descrivere una relazione terapeutica (come invece fecero ad esempio, in modo straordinario e commovente, Madame Sechehaye con il suo Diario di una schizofrenica [1955] e anche il meno noto Mario Isotti con Amore, mio nemico [1977], oggi purtroppo introvabile, che mi colpì moltissimo influenzando probabilmente la mia pratica terapeutica quand’ero ancora studente). Piuttosto, la mia scelta è consistita nel farmi da parte e dar voce ai pazienti, alla storia. Questo nasce, se vogliamo, dalle mie riflessioni teoriche sulla narrazione e sull’identità, di cui attraverso la scrittura letteraria ho voluto sperimentare il lato più personale, più intimo per così dire. Un passaggio stilistico fondamentale nel mio libro, cui magari il lettore potrebbe non dare l’importanza che invece ha per me, sta nella transizione dalla prima alla terza persona: il protagonista, in certo modo, si mette da parte, “frena” la sua soggettività, quasi si “impone” di trattare sé come un altro (espressione di Georges Bernanos che dà il titolo ad una delle opere fondamentali di Paul Ricoeur, filosofo di mio costante riferimento).
DF: Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.
Quanto da scrittore hai misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Ti sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non avevi considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la tua scrittura o leggerti ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro?
GM: La tua espressione «Farsi carico dell’alterità di noi a noi stessi» è molto bella e rende, forse in modo ancora migliore, quanto ho inteso dire sopra. Naturalmente anche qui c’è una dialettica cui non si sfugge. All’aspirazione dolorosa, ma al tempo sublime e idealizzata, del curato di Bernanos che appunto invita a «amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque come altro membro sofferente di Gesù Cristo» (Diario di un curato di campagna, 1936) occorre affiancare la turbolenta alterità dell’inconscio, sia dei fantasmi dell’inconscio rimosso, sia, ancor più, del vuoto dell’inconscio non rimosso che anela alla rappresentazione ma si trova la strada barrata (per molteplici ragioni che ora attengono a dinamismi psichici fisiologici e creativi, ora alla psicopatologia) e deve misurarsi con l’incompiuto. Nei casi non gravati da una eccessiva sofferenza mentale (che renderebbe impossibile o troppo dolorosa la scrittura) la felicità dello scrivere nasce proprio da questo: cominciare senza sapere dove si va a finire, con l’ausilio di un abbozzo di trama certamente, ma che ancora non ha raggiunto uno statuto rappresentazionale definito. Tutto può cambiare da un momento all’altro sotto la spinta degli impulsi generativi che sorgono dal mondo emozionale. È la scrittura stessa che attiva l’inconscio non rimosso. E’ quella dimensione creativa dell’irrappresentabile (o, se si preferisce, dell’irrappresentato) che fa da pendant all’irrappresentabile della psicosi o del trauma e, al contrario di questo, apre le porte alla creatività, mossa dalla curiosità di guardarsi dentro, o meglio: di guardare fuori (inventare il plot della narrazione) per guardarsi dentro.
Quanto a lettori che hanno colto sfumature che non avevo considerato, o su cui non mi ero soffermato troppo a riflettere, mi piace ricordare che Anna Nicolò, nella sua recensione comparsa nella Rivista di Psicoanalisi (2017, 63/3), parla della mia scrittura come una «forma di mantenimento della mente dell’analista o dello psichiatra al lavoro». Effettivamente, penso che abbia colto nel segno: scrivere è stato per me anche una sorta di “ristoro”, un unguento per mitigare le bruciature che le temperature roventi creatisi nell’incontro con alcuni pazienti, specie psicotici o borderline, hanno potuto provocare. Quanto ai pazienti come possibili lettori, ho da raccontare un’esperienza veramente bella e intensa che mi è capitato di fare in Sardegna, presso il Dipartimento di Cagliari. Alessandro Coni, collega junghiano che ne è il direttore, mi ha invitato a una presentazione ed io mi sono ritrovato, a sorpresa, nel mezzo di una festa organizzata dagli operatori della salute mentale insieme con i “guarenti” (termine alternativo a “pazienti” adottato dalla sua équipe) e alla cittadinanza tutta di un piccolo borgo ove l’evento si svolgeva. Tra le diverse attività della giornata era prevista la presentazione del mio libro, ma in forma del tutto particolare. Le settimane precedenti gli utenti del Centro Diurno avevano effettuato un laboratorio di lettura, ognuno aveva scelto il personaggio del libro con cui più s’era identificato ed ora offriva una lettura a voce alta di un brano, ma in modo del tutto originale. Alcuni infatti hanno “trasformato” il testo attraverso un’intonazione molto personale, che recava in qualche modo traccia del loro vissuto, altri sono addirittura intervenuti sul testo effettuando delle modifiche e adattandolo alla loro storia o alle loro fantasie. E’ stata un’esperienza davvero corale e commovente. Come accennavo sopra, la mia speranza nello scriverlo era di trovare lettori sia tra i colleghi, sia tra giovani psichiatri o psicoanalisti interessati a un modo diverso di vedere la sofferenza mentale e di apprendere la psicopatologia, sia soprattutto tra i “non addetti ai lavori”, ma non avevo affatto pensato alla possibilità che destinatari fossero coloro che avevano vissuto sulla propria pelle esperienze analoghe a quelle dei pazienti di cui racconto.
DF: La finzione letteraria può essere una via d’accesso alla consapevolezza o ciò che ci permette di fuggire la realtà, può fungere da filtro e visione riflessa per poter scrutare verità altrimenti intollerabili. Nella tua esperienza di lettore quanto consideri che i buoni libri siano strumento elaborativo per il nostro mondo interno? E quanto lo è la scrittura?
GM: Esiste una letteratura solitamente definita “di evasione”, esiste una letteratura “impegnata”, e infine, semplicemente, la “grande letteratura”. Non che la prima non possa esserlo, o comunque non avvicinarcisi (penso, sempre con riferimento alle mie personali preferenze, ad autori del romanzo noir o poliziesco come Chandler e Simenon), ma certo il testo eminente richiede di frequente una certa fatica nella lettura, peraltro ampiamente ricompensata. Testo eminente è un’espressione che mi piace molto e che dobbiamo al filosofo Gadamer, che lo definisce come una esposizione poetica che «non è mai esauribile tramite la sua trasformazione in concetto» (Verità e metodo, 1986, p.338), «che vuol essere letta di nuovo, continuamente di nuovo, anche se è stata capita da sempre» (p.339). Nel mio ultimo libro, L’inconscio filmico, io ho utilizzato questa espressione anche in ambito cinematografico: film eminente versus blockbuster. Quest’ultimo solitamente consente appunto di fuggire la realtà, se con beneficio o meno è altro discorso. Parlando di film eminente, ho aggiunto alle considerazioni di Gadamer, un punto di vista complementare di taglio psicoanalitico, che beninteso non si applica solo al cinema ma ad ogni testo eminente, letterario in primis. Possiamo considerare testo eminente quello particolarmente idoneo a favorire l’interscambio tra la sensorialità e l’area della rappresentazione e dunque altamente dotato della capacità di attivare il circolo tra rappresentabile e irrappresentabile, traducibile e intraducibile. Questa generatività emozionale fa riferimento a qualcosa di ben differente da specifiche e definite emozioni, “nobili” (commozione, indignazione) e meno nobili (odio, rabbia), che anche testi mediocri possono suscitare, magare andando a sollecitare l’inconscio rimosso e le sue pulsioni. Nel nostro caso il riferimento è piuttosto al simbolo e ai processi di simbolizzazione (su cui tornerò a conclusione), anch’essi di certo collegati al mondo emozionale, ma in modo totalmente difforme.
Queste considerazioni valgono, elevate alla potenza, anche per la scrittura di un testo, oltre che per la lettura. Quindi in prima battuta la risposta alla domanda relativa a quanto la scrittura sia uno strumento elaborativo per il nostro mondo interno è: molto. Però bisogna fare attenzione e non generalizzare. Recentemente ho visto una signora giunta a chiedere il mio aiuto perché la decisione in tarda età di scrivere le sue memorie, molto dolorose sia in termini di storia personale che di Storia collettiva, aveva generato, giunta a metà del testo, una notevole angoscia depressiva. Sono questi i “rischi della narrazione” (così mi è capitato di chiamarli). Se la depressione è lieve o di media entità, la scrittura può essere un aiuto, ma se è grave può essere iatrogena. Ecco un’altra grande differenza tra la letteratura e la psicoterapia (che io non intendo, specie con riferimento alla psicoanalisi, come terapia attraverso la parola, bensì attraversata dalla parola). Pavese purtroppo non si è salvato scrivendo, e nemmeno, sul fronte del trauma, Primo Levi. A questo proposito cito spesso un’opera di Jorge Semprún, il cui titolo è molto esemplificativo di quanto voglio dire: La scrittura o la vita (1994). Semprún, dopo una lunga e tremenda esperienza in campo di concentramento, riesce a ricostruirsi una vita non priva di successi e anche brillante e mondana. Giunto a tarda età deciderà e riuscirà a scrivere quanto aveva sempre allontanato, le memorie del campo di concentramento, e al tempo stesso ci confessa di aver sino allora dovuto decidere se vivere o scrivere: la scelta per la vita significava prendere le distanze dal ricordo traumatico e dallo scriverne. In questi casi meglio dunque la letteratura d’evasione rispetto a una letteratura che ci avvicina troppo «a realtà altrimenti intollerabili», come tu dici. Per queste è necessario il setting analitico, fermo restando che ciò non significa certo garanzia di risultato, ma sicuramente esso è dotato, rispetto alla scrittura, di più strumenti per contenere la sofferenza che può emergerne, per convertirla, come dice Ricoeur con specifico riferimento alla psicoanalisi (2003), da insopportabile a sopportabile.
DF: Com’è il misterioso salto da fruitore a creatore di un’opera letteraria? L’imponderabile esperienza estetica che si offre all’identificazione, che favorisce il dispiegarsi dell’immaginario e permette il godimento di fantasie e di risonanze con aree più o meno profonde del Sé, si dispiega alleviata dalla censura in una mescola ottimale fra rivelazione e travestimenti di quanto si muove nell’altra scena dell’inconscio. Così l’Autore deve trovare un equilibrio fra una scrittura che attinga a una verità del profondo per riuscire a coinvolgere il lettore e allo stesso tempo contenere una presenza di misurata astensione di sé per poterne fare una storia di tutti.
Quanto è stata naturale e quanto complessa una scrittura che riuscisse a rendere le intenzioni?
GM: Sono d’accordo con quanto dici e soprattutto noto una consonanza (debbo anche in tal caso aggiungere: purtroppo) con un problema che mi arrovella e che temo di non essere riuscito a risolvere: quanto tu chiami la «presenza di una misurata astensione di sé». In effetti trovo che quando le storie prendono una eccessiva piega autobiografica, si accresce per me sia il rischio di essere poco coinvolgenti per il lettore, sia di adottare uno stile troppo melenso e intimista, che può risultare decisamente infelice. Naturalmente non mi azzarderei di certo a generalizzare. Molti capolavori della letteratura mondiale hanno dichiaratamente o implicitamente, in modo conscio o inconscio, un carattere autobiografico. Epperò, mi riferisco sempre a me stesso, le cose si fanno più difficili, sono più frequenti gli scivoloni soprattutto sul piano stilistico. Certo a un genio come Proust è successo il contrario: proprio la dimensione autobiografica si è meglio combinata con quello stile straordinario che tutti gli riconosciamo e che non ha per me uguali nella letteratura mondiale. Forse in Le Storie infrante sono riuscito a raggiungere un certo, seppur discutibile equilibrio, nel secondo libro in fieri ancora no: per questo lo tengo nel cassetto. Insomma io vorrei scrivere della materia di Proust, ma con lo stile secco del romanzo americano degli anni di Hemingway, Steinbeck, Chandler e così via. Naturalmente questo è solo un delirio d’onnipotenza…
DF: In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che da forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensi che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Credi che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza?
GM: Qualche tempo avrei risposto alla prima domanda: senz’altro sì, oggi, sebbene non abbia cambiato idea, sono più incerto. Mi spiego meglio. In prima approssimazione è indubbio che la buona letteratura favorisca le risorse del pensiero e consenta di mettere in forma il non detto, attivando le capacità simboliche. Questo Ricoeur lo esprime con un felice e lapidario aforisma, che compare già nel suo studio su Freud del 1965: il simbolo dà da pensare. Tuttavia a questo mi sento di affiancare altre due considerazioni, certo meno edificanti. La prima è che la parola di per sé, in quanto concetto, è neutrale, ma poi non lo è mai nelle sue espressioni, e può essere caricata di molteplici valenze: può far volgere al dubbio, al senso di responsabilità, alla relazione, alla cura, ma anche al contrario di tutto ciò. Anche la grande letteratura, nel corso dei secoli, ha soggiornato alla corte dei potenti, è stata sedotta dall’odio, dalla violenza, dalla pulsione di morte (negli ultimi due secoli è accaduto molto meno, anzi piuttosto il contrario). Occorre allora prendere parte e correrne il rischio.
Venendo alla seconda questione, che tu giustamente interlacci con la prima, mi pare che gli analisti non si siano mai sottratti a una presa di posizione e oggi, con particolare riferimento all’Italia, siano pronti ad esporsi con coraggio laddove necessario. Certo è tremendamente difficile (per tutti gli uomini di buona volontà, direi, non solo per gli analisti!) riuscire a raccogliere i risultati del loro impegno. Del resto, il “principio di speranza” deve limitare, ma non ignorare (se non a costo di gravi rischi) l’azione di quella che Freud chiamava pulsione di morte. In ogni caso lo psicoanalista è consapevole che le potenti forze pulsionali non possono essere negate per dare spazio a una visione idealizzante e pericolosamente utopica, che l’eros si combina con quanto alcuni continuano a chiamare pulsione di morte o che potremmo rideclinare come il vuoto, l’informe, la perdita delle capacità simboliche e del senso del limite. Anche in questo la grande letteratura ci ha preceduto e ci segue… il pensiero va inevitabilmente a un altro gigante della letteratura che sopra non ho citato, ma di cui ricordo aver discusso a lungo con Salomon Resnik: Fëdor Dostoevskij. A contrastare Thanatos Freud evocava, in Perché la guerra? (1932), l’amore, l’identificazione e anche il processo di civilizzazione. Potremmo aggiungere: l’arte e la letteratura? Mi sentirei di rispondere indubbiamente di sì, ma insieme a preavvertire che anch’esse non sono mai neutrali, ma eticamente esposte. Del resto queste considerazioni sono strettamente interconnesse a un tema d’ordine forse ancor più generale che pure che tu hai posto: quello del limite. I limiti del pensiero sono vistosi, il pensare rischia sempre l’implosione. E’ indubbiamente auspicabile un pensiero emozionale, e in questo certamente la grande letteratura ci è di notevole aiuto, ma anche le emozioni sono turbolente, contraddittorie: noi psicoanalisti lo sappiamo bene e in fondo il nostro lavoro consiste nell’andare ove la letteratura si arresta, talvolta per consentire che queste emozioni giungano a espressione, talaltra per addomesticarle…anche se il termine può non piacere.
DF: Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).
Pensi che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano?
GM: La mia è ancora una volta una risposta incerta. Sicuramente si legge di meno a tutto vantaggio di un immaginario prevalentemente visivo. Le serie televisive hanno preso il posto del romanzo d’appendice ottocentesco o delle collane dedicate a certa letteratura scadente che fino a pochi decenni fa facevano bella mostra di sé presso le edicole dei giornali. Ma di questo non c’è da rammaricarsi, poco è cambiato. Quello che è preoccupante è che l’immaginario visivo in questione è un immaginario saturante (tu dici: «prefabbricato»), dunque uno pseudoimmaginario, che blocca la simbolizzazione anziché attivarla. Il fantasticare richiede una dimensione di indefinitezza e incertezza. A riprova di quanto dice Calvino a proposito della capacità di evocare immagini in assenza, vale la considerazione che la fantasia visiva può essere paradossalmente attivata più da un libro che da un film che ci descrive molte (troppe) cose in merito a un evento o un personaggio. Oggi in campo artistico -e di certo non solo letterario- c’è a mio avviso un po’ troppo spazio per due opposti estremismi: da un lato una narrazione piatta e saturante, dall’altra un compiacimento dell’incomprensibile e dell’irrazionale, magari spacciato come “opera aperta”. Ma dove ritrovare lo spazio del simbolico? Temo che queste due vie, nella loro radicalità manchino la loro funzione simbolica (e ricordino piuttosto le due polarità delle psicosi: la monotonia narrativa dello psicotico cronico, quand’anche infarcita di bizzarri deliri, e la disorganizzazione ideica della crisi).
Mi sentirei di concludere così: pur nelle loro numerose differenze letteratura e psicoanalisi hanno una meta condivisa in quanto ambedue cammini verso la simbolizzazione. Ma cos’è il simbolo? Cosa intendiamo per processi di simbolizzazione? Qui il discorso si riaprirebbe e rischierebbe di protrarsi all’infinito. Vista l’altra mia passione di cui ho detto, il cinema, meglio allora lasciare la parola a un grande artista, in tal caso non uno scrittore, ma un regista, Andrej Tarkovskij, che in un suo scritto teorico dove molto parla di immagine, immaginario e immaginazione, scrive: «Il simbolo (io lo chiamo “immagine”) è veramente tale solo quando esso è inesauribile e sconfinato nel suo significato, quando esprime […] qualcosa di inesprimibile […] i simboli sono indicibili e inspiegabili» (Scolpire il tempo, 1986, p.98).