Cultura e Società

Intervista a E. Masina: una riflessione fra psicoanalisi e letteratura. D. Federici

3/12/24
"Non so mai dove sei" di E. Masina. Recensione di B. Giorgi e F. Mancia

parole chiave: #psicoanalisi, #letteratura

PSICOANALISTI SCRITTORI

Intervista a Emilio Masina: una riflessione fra psicoanalisi e letteratura

di Daniela Federici

“Leggete in profondità, non per credere,
non per accettare, non per contraddire,
bensì per imparare a partecipare
dell’unica natura che scrive e legge”

Bloom, Come si legge un libro

Emilio Masina è psicologo e membro ordinario della SPI, dopo essersi formato come psicoanalista nell’AIPsi. Specialista in Psicologia Clinica e in Psicoterapia dell’Infanzia, dell’Adolescenza e della Coppia è stato socio ordinario dell’ARPAd e della SIPPSIA. Ha insegnato per un lungo periodo di tempo Psicologia e Psicoterapia dell’Adolescenza, prima nella Facoltà di Psicologia della Sapienza e poi nella Scuola di specializzazione in Psicoterapia Psicoanalistica – Intervento Clinico e Analisi della domanda “SPS” (diretta da Renzo Carli). Dopo aver lavorato diversi anni in un Servizio psicopedagogico del Comune di Roma ha fondato con un gruppo di colleghi la Cooperativa-Onlus di aiuto psicologico agli adolescenti “Rifornimento in volo”. Già membro della redazione della rivista “Interazioni”, ha scritto numerosi articoli sulla psicoterapia degli adolescenti nel Terzo settore e ha curato i volumi “Laboratorio sul disagio dell’Adolescenza. Appunti di lavoro” (Kappa) “La trattabilità in adolescenza” e, con A, Novelletto, sempre per Franco Angeli,  “Disturbi di personalità in adolescenza”.

Nel settembre 2019, alle soglie del Covid, ha pubblicato il suo primo romanzo, “La speranza che abbiamo di durare” (Emersioni) e nel maggio 2024 il secondo, “Non sai mai dove sei” (Elledilibro).  

DF: Per riflettere sulla letteratura partirei dalla parola: da analisti ne conosciamo bene l’importanza come strumento per portare alla coscienza, per quel ‘farsi psichico’ che si appropria della realtà conferendole un senso, che costruisce il mondo interno facendone uno strumento di contenimento, elaborazione e comunicazione. La parola nasce nella carne, la sua magia e il suo potere evocativo scaturiscono dal linguaggio primordiale che l’ha vista prima di tutto un atto senso-motorio. Freud considerava poeti e scrittori alleati preziosi, spesso più avanti nella conoscenza dell’anima, perché attingendo a fonti profonde, scoprono e danno forma a quel che lo scienziato impiega un lavoro faticoso per portare alla luce. E suggeriva agli psicoanalisti di coltivare interessi umanistici per non trovarsi smarriti di fronte al narrarsi del paziente, perché il lavoro analitico è un dialogon, l’incontro di due testi che si intrecciano trasformandosi, estendendo lo psichico e il senso nella polisemia delle forme simboliche, in uno spazio intermedio che è comune all’opera creativa.

Come arrivi alla scrittura di un testo letterario e quali scrittori ti hanno ispirato di più?

EM: Avevo all’incirca quattro anni e indossavo un cappottino rosso perché a Milano faceva già freddo anche se eravamo alla fine di settembre. Allora i bambini si portavano al guinzaglio per paura che finissero sotto una macchina, nel traffico caotico. Entrato nel giardino comunale vidi su una roccia sopra il sentiero un bambino più grande con un occhio pieno di sangue, colpito dal piombino del fucile di un coetaneo. Sperimentai un’emozione intensa di paura ma anche un brivido di eccitazione nel vedere quei ragazzi così liberi e intrepidi – più tardi avrei divorato “I ragazzi della via Paal”.. Quando fui in grado di leggere incontrai quasi subito Charlie Brown e Linus. In un loro fumetto due genitori portavano in giro il figlio nascosto sotto il telaio della macchina perché il bricconcello diceva a chiunque incontrasse la verità: se la nonna aveva i baffi, lui le rideva in faccia, se un cameriere era sgarbato, gli diceva che non si doveva pemettere. Intuii, che quelle esperienze si sarebbero potute raccontare: il guinzaglio poteva essere tolto e il bambino riemergere da sotto il pianale con la sua lingua affilata, magari solo un poco più attrezzata a capire quando era meglio utilizzarla e quando no. Sbizzarrire la mia fantasia scrivendo fu inizialmente una goduria. La maestra delle elementari una volta diede un tema dal titolo “Parlate del vostro compagno scrittore”, perché sembravo già molto determinato. Ad esempio, nel gemellaggio con una classe di Empoli, mentre i compagni, più pigri o meno narcisi, si scrivevano con una coetanea toscana, io comunicavo contemporaneamente, ricambiato, con quattro o cinque di loro.

A quell’epoca, scrissi un racconto lunghissimo imperniato su un gruppo di esploratori che, persa la pista nel deserto del Perù, avevano scoperto una alta parete di roccia solcata da una fenditura misteriosa: penetrati all’interno trovarono la città perduta degli Incas, completamente costruita in oro e gemme preziose. In quell’occasione ricevetti molti complimenti ma presagii inconsciamente (forse il futuro psicoanalista già sorreggeva il narratore principiante) che la scrittura poteva essere un pericolo, oltre che una risorsa: si prestava infatti a rivelare problematiche nascoste, ambiguità non ancora risolvibili. La fessura nella parete, potremmo chiederci oggi, rivelava la voglia di sviluppare il mio nascente istitnto epistemofilioco? Oppure, il desiderio di reinfetarmi, per scoprire i tesori contenuti nella pancia della mamma, inclusi i bambini non nati? E poi della scrittura probabilmente vedevo altri difetti: a cosa serviva vergare pensieri astratti raffinatissimi se poi non si era capaci, come gli adulti di casa mia, di attaccare un chiodo alla parete o sostituire una lampadina? Forse anche per questi motivi la vena si prosciugò e rimase arida per molto tempo. Devo dire che io sono un figlio d’arte e la scrittura è stata per me parte di un faticoso processo di identificazione/disidentificazione con mio padre Ettore, giornalista e scrittore e con mia madre Clotilde, traduttrice prima e psicoterapeuta poi, che per addormentarmi mi declamava le poesie di Emily Dickinson, quasi sconosciuta allora in Italia, su cui aveva appena scritto la tesi di laurea. Pensa che a ottanta anni mia mamma ha avuto la forza di scrivere “Il dinosauro era ancora lì”, in cui ha riportato e catalogato i sogni dei suoi pazienti raccolti in quaranta anni di professione che riteneva tracce implicite di una memoria fetale!

Quindi ho avuto bisogno di un lungo periodo di rielaborazione dei miei pensieri per depurarli da aspetti imitativi e poco autentici, tanto che sono riuscito a scrivere il mio primo romanzo solo a sessantuno anni compiuti. Nella prima adolescenza però l’idea di scrivere ha continuato a covare in una sorta di rifugio della mente, dove erano ammessi Salgari, Verne, Ivanohe e i libri che raccontavano le importanti scoperte archeologiche che avvenivano in giro per il  mondo. Poi, quando ho cominciato l’università ho rotto gli indugi e ho letto tantissimo: i classici della letteratura occidentale ma anche Tolkien (allora i tempi non erano sospetti) e gli scrittori laitino-americani come Coloane, Vargas Llosa, Marquez, Arguedas che continuavano a nutrire i miei desideri di avventura. Lo studio della Psicologia e soprattutto della Psicoanalisi mi ha fatto infine compiere una vera e propria conversione: dai libri che stimolavano l’amore per i viaggi all’esterno verso quelli che spingevano a viaggiare nel mondo interno. Infatti, i miei due romanzi sono nati dentro quella meravigliosa navicella spaziale che è la stanza analitica.  

DF: Freud scrisse a Schnitzler che vedeva nella letteratura una sorta di doppio della psicoanalisi: condividendone fonti e oggetto, autore e psicoanalista utilizzano entrambi l’interpretazione, l’uno per creare, l’altro per penetrare la tramatura invisibile del racconto del paziente, slegando l’elaborazione secondarizzante. La psicoanalisi deve molto al rapporto con l’intelligenza letteraria, così come quest’ultima è stata influenzata dal sapere analitico sulle dinamiche del profondo.

Nel tuo lavoro di scrittore quanto hai attinto a modelli narrativi o strutture simboliche di matrice psicoanalitica? Quanto pensi che l’esercizio alla funzione maieutica accanto ai pazienti abbia inciso sulla tua scrittura nel costruire trama e personaggi?

EM: Sono stato molto ispirato dai modelli narrativi che andavo studiando nei seminari del training e praticando nelle mie due analisi. E successivamente dal mio lavoro con i pazienti: dalla opportunità di creare e ricreare narrazioni che dessero senso ai loro e ai miei vissuti. Ma penso che sia stata estremamente importante l’esperienza che ho fatto  studiando la psicologia delle coppie – sia quella madre-bambimo e padre-bambino che quella coniugale – e delle famiglie: entità dinamiche, potentemente interattive, che inverano nell’azione fantasie e modelli mentali, consententendo agli interlocutori di vederli in azione e di comprenderli. In particolare, è stata utilissima  l’esperienza di frequentare come osservatore per due anni una famiglia in cui era appena nato un figlio. I report che scrivevo per resocontare quella esperienza – e successivamente le sedute per i casi in supervisione – mi hanno aiutato ad allontanarmi dalle diagnosi “precotte”, dalle interpretazioni di scuola e ad aprirmi alla potenza dell’inconscio. Intendo dire dell’inconscio in azione, quello che come una piovra ti attira e ti costringe a un incontro/scontro che non è mai uguale a se stesso. Per scrivere bene bisogna avere la pazienza di ascoltare e osservare l’imprevedibilità che assumono le relazioni umane, – ovviamente anche quelle fra gli oggetti interni – che si vanno facendo a seconda degli incontri con l’Altro e il contesto in cui sei inserito.

DF: Proust dice che ogni lettore legge se stesso, che un libro è uno strumento ottico che ci permette di comprendere quel che forse, senza di esso, non avremmo mai conosciuto di ciò che siamo. Scrivere, così come leggere una storia, è sempre l’occasione di un viaggio per farci carico dell’alterità di noi a noi stessi – come accade nei sogni – e della possibilità di farci trasformare da quell’incontro. Ogni personaggio offre l’opportunità di rappresentare degli aspetti della propria vita psichica, così nella tessitura di una storia si oscilla fra uno scrivere per la trama, per ciò che già si “conosce” e si vuole rappresentare, e l’esplorazione che il punto di vista di un altro ci permette, scavandolo da dentro e schiudendo traiettorie impreviste.

Quanto da scrittore hai misurato la sorpresa dell’inconscio al lavoro, da inseguire per la curiosità di vedere fin dove va a finire? Ti sono capitati riscontri di lettori che hanno colto sfumature che non avevi considerato? I pazienti fra i possibili lettori hanno influenzato la tua scrittura o leggerti ha creato effetti imprevisti nelle relazioni analitiche con loro? 

EM: Evviva Proust e la sua capacità di rimanere per pagine e pagine su minuscoli dettagli: un sapore, un odore, che rimettono in gioco le potenti esperienze sensoriali a cui facevi riferimento all’inizio dell’intervista. Per quanto mi riguarda, l’Inconscio è un ospite sempre atteso, direi anzi stabilmente presente in casa mia perché senza di lui non saprei cucinare né apparecchiare la tavola. A volte mi spiazza perché come un amico che ti viene a fare una visita ma si ritira subito, chiamato da altri e più urgenti impegni, mi costringe a scrivere una pagina e si dilegua subito, senza nemmeno apprezzarla. Altre volte, come gli ospiti che si fermano troppo, condizionando i ritmi e le attività della tua giornata non se ne va finché non gli hai dato soddisfazione scrivendo un capitolo compiuto, o magari un sonoro calcio nel sedere, dimostrandogli che è inutile che insista con le sue sollecitazioni morbose: l’ispirazione non arriverà se la coscienza ha perso l’autobus e il suo posto a tavola è rimasto vuoto. Penso spesso alla bilogica di Matte Blanco (per me una specie di nonno e di zio per questioni di parentela analitica). Come scrittori e come analisti dobbiamo rimanere sempre permeabili alle emozioni ma anche essere capaci di mescolarle alla coscienza, di alfabetizzarle e disciplinarle. Finire un romanzo in questo senso è difficile come cominciarlo perché al terrore della pagina bianca si sostituisce una sorta di troppo pieno: l’esigenza impossibile di dire tutto, e a tutti. Riguardo ai pazienti sono sempre per me una fonte di ispirazione, quasi mai come singoli individui ma piuttosto come piccolo gruppo che sottolineaa gli snodi, le gioie e le fatiche della vita contemporanea. Pochi di loro stranamente leggono i miei romanzi o almeno non me ne parlano – perché so da piccoli cenni che ne sono a conoscenza. Forse questo riguarda il tentativo di mantenere libera la relazione analitica da influssi esterni, dall’esibizionismo o da alcuni tratti di personalità dell’analista che nella terapia riesco a tenere più a freno e che invece nella scrittura si rendono più visibili. Un’ eccezione che ha confermato la regola è stato un paziente che ha letto avidamente un mio libro con l’illusione di trovare in quella sede più di ciò che conosceva di me nella relazione con me in analisi. E si è dovuto ricredere: non poteva vedermi se non, come tu scrivi, dialogando con sé e con me medesimo. Però qui dobbiamo effettivamente fare attenzione: non basta nascondere l’eventuale contributo del o della paziente alla storia che stiamo narrando camuffandolo sotto altre identità. Dobbiamo cercare di condurre l’inevitabile lavoro di promozione dei nostri scritti pubblici cercando un equilibrio tra il dire e il non dire, tra l’esserci e il non esserci. Altra cosa sono i lettori profani: da loro mi sono arrivati spesso prospettive e punti di vista sui personaggi o sulla trama che non avevo affatto previsto. L’inconscio collettivo è sempre più potente di quello individuale: peccato non aver potuto riscrivere insieme!

DF: La finzione letteraria può essere una via d’accesso alla consapevolezza o ciò che ci permette di fuggire la realtà, può fungere da filtro e visione riflessa per poter scrutare verità altrimenti intollerabili. Nella tua esperienza di lettore quanto consideri che i buoni libri siano strumento elaborativo per il nostro mondo interno? E quanto lo è la scrittura?

EM: Sarebbe interessante confrontarci su che cosa sia un buon libro. Personalmente ho trovato spunti elaborativi importanti anche in libri per così dire di serie B oppure decisamente pessimi che mi erano capitati fra le mani. Leggere qualcosa scritto da altri vuol dire per me imbattermi sempre in un mondo diverso dal mio, in frammenti di un prisma che consente di cogliere più approfonditamente la vita, il modo di vedere e di pensare, o addirittura, per converso, di negare e pietrificare la realtà interna-esterna. Credo che per lo psicoanalista scrivere sia un’esperienza imprescindibile e trasformativa: lo facciamo sempre, in fondo, anche quando appuntiamo un passaggio di una seduta interessante. A volte, dopo un solo minuto le parole che noi o il paziente abbiamo detto si sono già volatilizzate e non c’è verso di ritirarle fuori. Altre volte si sono stampate indelebili nella memoria per tutto il giorno. Possiamo addirittura recuperarle il mese successivo. Penso quindi che tutte le tue ipotesi siano veritiere: la finzione letteraria può consentire di figgire la realtà, come quando una stanza si è fatta troppo claustrofobica; oppure fungere da specchio in cui guardare per riconoscersi senza infingimenti, o anche come filtro ulteriore per decriptare e trasformare pensieri complessi e difficili.

DF: Com’è il misterioso salto da fruitore a creatore di un’opera letteraria? L’imponderabile esperienza estetica che si offre all’identificazione, che favorisce il dispiegarsi dell’immaginario e permette il godimento di fantasie e di risonanze con aree più o meno profonde del Sé, si dispiega alleviata dalla censura in una mescola ottimale fra rivelazione e travestimenti di quanto si muove nell’altra scena dell’inconscio. Così l’Autore deve trovare un equilibrio fra una scrittura che attinga a una verità del profondo per riuscire a coinvolgere il lettore e allo stesso tempo contenere una presenza di misurata astensione di sé per poterne fare una storia di tutti.

Quanto è stata naturale e quanto complessa una scrittura che riuscisse a rendere le intenzioni? 

EM:.La scrittura dei miei due romanzi è stata piuttosto complessa proprio per i motivi che tu dici: però non si è trattato solo di rivelare o cansurare quello che si muoveva a livelli diversi di consapevolezza ma anche di cercare di sgravarmi di quell’apparato concettuale psicoanalitico che rischiava di rendere lo scritto più un saggio per addetti ai lavori che un prodotto in cui si potesse compiere quel “show, don’t tell” che suggeriscono i maestri di scrittura: dire quello che succede senza bisogno di interpretarlo, lasciare che il lettore faccia uno suo uso personale di quello che abbiamo scritto, magari molto diverso da quello che noi speravamo facesse! C’è un autore, mi pare La Capria, che ha detto che si scrive bene quando il lettore ha l’impressione di vedere un’anatra che scivola placidamente sull’acqua, senza accorgersi della fatica frenetica compiuta dalle zampe dell’animale per farlo avanzare con così apparente disinvoltura.

E poi ho dovuto cercare di sbarazzarmi di una sorta di Super-Io legato alla Comunità psicoanalitica. Specialmente nel primo romanzo ho toccato alcune questioni ancora poco dibattute, come quella delle violazioni del setting o delle incongruenze nei colloqui di selezione, in modo “politicamente scorretto”. Ho dovuto faticare per cercare di dire verità sconode senza essere, o apparire, troppo distruttivo. 

DF: In questo nostro tempo in cui languono le capacità simboliche e la nebulizzazione del senso del limite rende sempre più difficile avere a che fare con le angosce e con le perdite, coltivare dubbi e un senso di responsabilità, la parola che da forma al non detto dentro ognuno di noi (e che quando manca lascia preda di un agire acefalo) non è solo contenuto, è anche atto sociale e relazione, cura e cultura. Quanto pensi che la buona letteratura possa favorire le risorse del pensiero? Credi che gli psicoanalisti, al di fuori della stanza d’analisi, potrebbero contribuire a diffondere una cultura di maggiore consapevolezza?

EM: Penso che ci dobbiamo assolutamente provare a portare fuori dalla stanza dell’analisi un pensiero lucido, informato, non banale, su questioni difficili come la guerra, il razzismo, le grandi migrazioni, i femminicidi. Riuscire a pensare, dare forma a emozioni che sembrano indicibili riapre alla speranza di poter incidere nel mondo globalizzato perché, come diceva un poeta brasiliano, “foglia che cade nel fiume modifica l’aspetto del fiume”.   Se non ci confrontiamo con la realtà esterna saranno i nostri pazienti a ricondurci ad essa. E sarà più difficile rispondergli. Vedo che molti colleghi ci stanno già provando, magari cominciando a discutere animatamente nella nostra mailing list. Questo impegno nel Sociale dovrebbe diventare un impegno della nostra intera Comunità. Tu sai cosa sono i Grief Robot? Sono avatar dei nostri cari che ci hanno lasciato. Vengono già costruiti in America, sevendosi delle banche dati e dell’Intelligenza artificiale, con le sembianze del nostro papà, della nostra mamma o ei nostri fratelli, parlano con la loro voce e addirittura esprimomo i loro pensieri, valori e modi di pensare. Il figlio ci può parlare, illudendosi di evitare il processo doloroso del lutto. Ti faccio questo esempio per dire che dobbiamo non solo impegnarci nella stanza dell’analisi per aiutare i nostri pazienti ad elaborare i traumi e il lutto delle loro perdite ma anche per opporci fuori dalla stanza, come cittadini e intellettuali, per dare una nostra impronta al mondo in cui viviamo, contro lo sviluppo di queste aberrazioni.

DF: Nelle Lezioni americane Calvino richiamava il pericolo di perdere la funzione fondamentale dell’immaginazione, che la capacità di evocare immagini in assenza si atrofizzi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate. Invocava una pedagogia dell’immaginazione, per apprendere a elaborare le proprie visioni interiori, senza lasciarle soffocare sotto questa realtà aumentata in fruizione passiva né ammorbarle in un confuso fantasticare, perché quelle epifanie cariche di significati che spesso fondano l’immaginazione letteraria, animino una scrittura creativa che dia ordine e intenzione a quelle invenzioni. Immaginare ci serve a costruire le rappresentazioni con cui conosciamo noi stessi, gli altri, la realtà che ci circonda, con cui colmiamo i vuoti del pensiero razionale e pensiamo l’invisibile. “Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza. E l’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (Kundera, L’arte del romanzo).

Pensi che la rivoluzione dei media, insieme alle enormi possibilità che ci ha aperto, destini al cambiamento i libri e gli spazi della lettura che nutrono l’immaginario e la funzione narrativa che fonda l’umano?

EM: Purtroppo ne vediamo già i segnali. I libri, in quanto tali, sono forse destinati a scomparire ma non il desiderio degli umani di comunicare e di riflettere fra loro. I giovani adulti, ad esempio, pur leggendo poco, sono talvolta più informati di noi perché hanno scovato su internet podcast e reti di comunicazione più veloci ed efficienti. Certo che io continuerò, condividendo quanto scrivono Calvino e Kundera, a immaginare e costruire storie con l’intento di dare un contributo a una funzione narrativa che ci aiuti a rappresentare un mondo che cambia e non ad appiattirci su quello che già esiste (o che ci inducono a pensare sia quello esistente). Voglio chiudere con un segnale di speranza: molti pazienti vedono le onnipresenti serie televisive ma con il nostro aiuto possono farne ancora miglior uso, anche se magari le hanno guardate tra il lusco e il brusco, mezzo addormentati sul divano. A volte le serie in seduta prendono il posto dei sogni ma essendo sceneggiate da esseri umani partecipano del loro e del nostro inconscio e quindi possono essere interrogate per non lasciare i pazienti in uno stato di ricezione passiva e regressiva. Certo per noi entrare nella stereotipia e/o nelle finzioni delle serie, sollecitare il paziente ad associare è più gravoso, richiede un lavoro maggiore, come quello che facciamo per costruire un contratto con pazienti che non hanno minimamente idea di cosa sia tenere in mente una relazione in assenza della prestazione (e magari impugnano il codice civile per dimostrarcelo). Ma per parlare di questo ci vorrebbe un’altra intervista.

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