A cura di Giorgio Bubbolini
Carlo Sini insegna filosofia teoretica presso l’Università Statale di Milano. Accademico dei Licei, ha collaborato per molti anni con le pagine culturali del Corriere della Sera e collabora tuttora occasionalmente con la stampa, con la Rai e con la radiotelevisione svizzera. Ha tenuto seminari e conferenze negli Stati Uniti, in Argentina, in Canada e in vari paesi europei. È autore di una quarantina di volumi, alcuni dei quali tradotti in varie lingue. Tra i più recenti: Figure dell’enciclopedia filosofica (Jaca Book, Milano, 2004-05); Archivio Spinoza. La verità e la vita (Ghibli, Milano, 2005); Il gioco del silenzio (Mondadori, Milano, 2006); Il segreto di Alice e altri saggi (Alboversorio, Milano, 2006); Da parte a parte. Apologia del relativo (ETS, Pisa, 2008); Eracle al bivio. Semiotica e filosofia (Boringhieri, Torino, 2007).
La presente intervista trae spunto dall’ultimo libro L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri, 2009) nel quale l’Autore esplora un tema appartenente al nostro immaginario. Dalla creazione delle prime macchine fino ai robot “intelligenti”, la figura dell’automa ha sempre suscitato nell’uomo paure, inquietudini, ma anche sogni e speranze. Nella sua straniante familiarità l’automa rappresenta «il segreto stesso della vita umana, presa tra sapere della morte e sogno di vita eterna».
D. Professor Sini poiché Lei vi fa riferimento nel suo libro, vorremmo dare un metodo a questa intervista cominciando, con una necessaria premessa, col parlare di metodo. Anni fa’, Lei mostrò come nella storia del pensiero occidentale un’esigenza metodica si sia posta per la prima volta nel poema di Parmenide, precisamente con l’immagine della porta che apre alle due vie (odoí) del Giorno (della verità) e della Notte (dell’opinione). In particolare, Lei osservava che la via del Giorno doveva intendersi non come una “via” generica del sapere (metá odόn), ma come múthos odoío, cioè come una via di parola e, nella fattispecie, come una via della parola tautologica, non contraddittoria. Attraverso la diaíresis platonica (parola dialettica) e il sillogismo aristotelico (parola logica), la via della parola tautologica sarebbe poi divenuta via della parola scientifica. In questo suo ultimo libro, Lei precisa che, se inteso come «artificio» o «stratagemma», metodo rimanda a «simulazione» e che, perciò, nella simulazione consisterebbe non solo ciò che «caratterizza gli automi della tradizione», ma soprattutto ciò che è «proprio del processo del conoscere» (56). Non solo: metá ha una radice indoeuropea medh, il «medio», ciò che, stando in mezzo, «pone relazioni tra» (ibid.). Nel metodo sarebbe allora implicata un’originaria mediazione del segno linguistico, che preesiste alla stessa «azione esosomatica» del vivente (82) e che lo disloca come «corpo protesi» (ibid.) e poi come simulatore del sapere.
Anche per Freud metodo è via di parola, precisamente associazione libera. Grazie a questa peculiare mediazione linguistica, due corpi si dislocano nel transfert come soggetti della relazione analitica. A suo modo, Freud eredita l’originario presupposto parmenideo: nel “medio” della pratica clinica si traccia una nuova via, quella appunto dell’associazione libera, della parola contraddittoria, che delinea gli orizzonti del sapere psicoanalitico. Su un punto, però, se ci consente una semplificazione, Freud rovescia Parmenide: la via del sapere psicoanalitico è la “via della Notte”, in senso stretto via della parola onirica, che rinvia, e su ciò torneremo tra poco, ad un desiderio (sessuale) infantile rimosso. Secondo Lei, in che misura è possibile correlare tale rovesciamento col modo con cui il pensiero filosofico contemporaneo affronta il problema del linguaggio e del suo rapporto col senso?
R. La via di parola (mythos odoio) ha in sé il sentiero del giorno e quello della notte. Non a caso il poema di Parmenide comprende due parti. Cosa esattamente contenga la seconda e perché sia tale è un antico problema filologico ed esegetico che qui non interessa affrontare e che già Platone, del resto, denunciava nella sua ambiguità. Infatti, non è possibile separare l’essere e la parola senza identificarli e non è possibile identificarli senza, ipso facto, separarli. La “simulazione” (il simul) è immediata e strutturale. L’essere umano è un simulatore proprio perché è l’essere della verità. Non può dire la verità senza mentire e viceversa. In questo senso è l’essere della mediazione, l’essere che sta nel mezzo, come Lei felicemente ricorda, cioè l’essere che “lavora” a tradurre l’immediato vivere in conoscenza, ovvero in processo transferale. Dio e la natura non lavorano, l’essere umano sì, anzitutto nel dare nome al frutto della sessualità; essa allora dispone gli umani nel medio relazionale dei genitori e dei figli, dei fratelli e delle sorelle, offerti, realmente o simbolicamente, in sacrificio al Dio, cioè alla comunità dei parlanti. Ora, è vero che la tradizione filosofica ha prevalentemente parlato in nome della comunità, nel tentativo di fondarla sulle autoevidenti ragioni del giorno (ma non soltanto e non sempre); invece Freud ha parlato in nome delle forze della natura (ma non soltanto), secondo le evidenze della via della notte e dei fantasmi del sogno, che la luce del mattino tende a rimuovere per l’incapacità di sopportarne il “disagio”. Credo che dobbiamo ritenere le due vie complementari, considerando con ampiezza di vedute e profondità di comprensione sia il razionalismo filosofico, sia il cosiddetto naturalismo e irrazionalismo freudiano. La filosofia del ‘900 ha in vario modo inaugurato tale via complementare. Il ‘900 non può stare senza Freud, la psicoanalisi non può stare senza la filosofia, almeno secondo me.
D. Lei presenta la «risposta retroflessa» (45) e la «retroflessione» (81) come fenomeni costitutivi di ciò che il senso comune intende con “l’avere un corpo”. Essi evocano nello psicoanalista il noto concetto di Nachträglichkeit, messo a punto da Freud a partire dallo studio del caso clinico di Emma (1895): eventi del passato assumono retroattivamente un senso in rapporto ad eventi attuali che, nella realtà psichica dell’analizzando, gli si correlano a livello associativo e nella memoria. Tuttavia, a differenza della Nachträglichkeit, che è pensata nel quadro di una soggettività psico/corporea già formatasi, la retroflessione riguarda l’evento originario, cioè l’accadere della prima differenza in seno alla «vita vivente» (80). In quanto in anticipo rispetto ad ogni possibile mediazione, essa appare perciò come un fenomeno assai complesso. Può mostrarci, allora, in cosa consiste essenzialmente la “retroflessione”? Per comprenderla meglio, si potrebbe pensare, ad esempio, a quell’insieme di pratiche di sopravvivenza del vivente (che gli psicoanalisti identificano tout court con la relazione primaria madre-bambino), in seno alle quali madre e bambino “in azione” si configurino reciprocamente prima come “corpi strumento”, poi come “corpi protesi” e, infine, come “corpi automa”, cioè come soggetti aventi un corpo e una realtà psichica?
R. È vero che la mia analisi della relazione mente/corpo (per esempio nel secondo e terzo volume delle Figure dell’enciclopedia filosofica) ha un andamento “genealogico”, cioè procede, non nel quadro di una soggettività già formatasi, ma in quello della sua progressiva costituzione. Nel libro sull’automa questo processo è sintetizzato, come Lei ha colto molto acutamente, come cammino attraverso l'”es-porsi” reciproco dei corpi come corpi in azione, corpi strumento, corpi protesi e corpi automa. Due punti essenziali mi sembra importante sottolineare. Il primo è che l’esporsi è tale solo se qualcosa “resta nel mezzo” e funziona da specchio per l’azione medesima: là dove l’azione può essere trascritta, intesa e trascesa (cioè divenire propriamente un’azione). Si tratta dell’origine di quell’esperienza “esosomatica” (come dicono gli antropologi) che nell’animale è appena accennata e nell’uomo diviene invece la via maestra. Detto in fretta: qualcosa che non è ancora né mio né non mio, diviene non mio (mi è estraniato) e perciò si riflette in me come mio. Possiamo esemplificare tale evento con la voce che si riflette sul parlante rendendolo appunto parlante, ma già il lavoro della mano, il lavoro dell’afferramento articolatorio grazie al pollice opponibile, ha in sé la possibilità della retroazione costitutiva dell’ “operatore” in via di divenir consapevole (un “sé”): consapevole dei “prodotti” del suo lavoro nella loro iterabilità e fruibilità “pubblica”. Il secondo punto è che ogni ricostruzione genealogica non accade astrattamente da fuori o altrove. Non si tratta di una visione e di una pretesa verità “panoramica”. Questo sogno superstizioso è il grande pericolo della scienza occidentale. La genealogia è sempre nient’altro che un’autobiografia: vita che si iscrive in un sapere simulatorio, in un simulacro al lavoro che modella una “epopea” di vita che elabora e fa proprio il sapere costitutivo della morte.
D. In questo quadro di pratiche e relazioni originarie, e per arrivare alla questione centrale del libro, quella dell’automa, un punto di notevole interesse per noi è rappresentato da quel particolare automa che è il Golem, che il rabbino programma a scopi difensivi e che Lei cita diffusamente. In psicoanalisi, il Golem, analogamente alla sua corrispondente mitica Galatea, creata da Pigmalione, è figura dell’alienazione e della relazione alienante. Nel suo libro, riconoscendo nel “corpo in azione” una fase in cui «non c’è ancora nessun corpo» e «la vita vivente non appartiene a un “io”» (80), e affermando poi che il soggetto si forma solo a partire da un «lavoro enunciativo e cognitivo» (82), anche Lei sembra sottintendere che nella formazione della soggettività operi un fattore alienante (l'”alienazione fondamentale” di Lacan), che si porrebbe aldiquà degli automatismi della vita vivente e di cui anche Hegel aveva sottolineato l’importanza in rapporto alla trasformazione dell’Io cosciente in Io Autocosciente.
In psicoanalisi, sia pure con la notevole eccezione di Melanie Klein, secondo la quale l’Io esiste fin da subito, si ritiene che il “corpo in azione” del neonato si costituisca come soggetto in quanto originariamente esposto alle pratiche desideranti, narcisistiche e proiettive (protesiche?) dei suoi genitori. Vale a dire: il neonato diverrebbe un soggetto nel quadro di una mediazione affettiva, più ambientale e climatica che specificamente linguistica, intercorrente prima tra loro rispetto a lui nascituro, poi da loro verso di lui nato e, infine, tra loro e lui. Anche in relazione al fondamentale tema hegeliano del riconoscimento, hanno a suo parere rilievo filosofico queste pratiche, trans/generazionali intersoggettive, collegate alla mediazione del desiderio e degli affetti? Si può pensare che il corpo automa sia tale in quanto figura dell’alienazione, cioè in quanto soggetto a queste mediazioni, che pure sono già esse stesse segni e veicoli della trasmissione culturale?
R. Non separerei, in sede genealogica, il momento linguistico dal momento affettivo, ovvero espressivo-gestuale. Le due cose all’origine sono una. È l’intellettualismo della scienza linguistica che ha dimenticato tale radice unitaria, attestandosi, nei suoi studi, a livelli molto alti di simbolizzazione; il che è legittimo, ma insufficiente nel descrivere l’espressività umana, come il Darwin del suo terzo capolavoro (L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali) aveva perfettamente compreso. Per altri versi, come Lei correttamente osserva, nella relazione tra adulti e bambini infanti, l’adulto è già in possesso del linguaggio della cultura. In questo senso il corpo automa è una figura dell’alienazione, perché la relazione che esso impone è strutturalmente squilibrata. Continuamente il “mediatore” dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia comunità”. Ma l’altro, che non è Pietro o che tale soltanto “diviene” per il riconoscimento che gli è imposto (o estorto), prima o poi, per esempio di fronte al pericolo della morte, mentirà: “Io non sono Pietro (e non voglio morire)”. Non so se mi sono spiegato.
D. Al riguardo di macchine e lavoro alienante, Lei cita Tempi moderni di Chaplin. Ciò suggerisce un altro famoso film di macchine e automi, Metropolis, di Fritz Lang (1926) in cui si parla di uomini “che muovono i piedi, ma che non camminano”. Nel film, però, il vero automa è quello che lo scienziato Rotwang costruisce come doppio della sua amata Hel, moglie del padrone di Metropolis, Fredersen, suo antico rivale in amore, e morta molti anni prima nel dare alla luce il figlio di quest’ultimo Freder, ora adulto. L’intreccio è assai complesso ma la sostanza, però, è questa: inizialmente pensato come docile sostituto meccanico dell’amata Hel, Rotwang, preso da un rigurgito di rivalità per Fredersen, decide di trasformare l’automa nel doppio maligno di un’altra donna, Maria, guida spirituale di una setta religiosa segreta di operai di Metropolis, di cui Freder s’è invaghito perdutamente, come avendo visto in essa la madre ideale mai avuta. Rotwang gli dà le sembianze di Maria, ma lo programma per eccitare gli operai alla ribellione e alla distruzione di Metropolis. Da sostituto nostalgico della donna amata, esso viene così trasformato in automa distruttivo. Per parte sua, Freder non si capacita di vedere Maria così trasformata. Solo quando l’automa viene catturato e messo al rogo emerge la sua natura meccanica ed egli realizza con sollievo che la sua Maria, quella vera, è un’altra.
Si può constatare come qui sia proposta un’interpretazione materna dell’automa: prima nostalgicamente idealizzata e poi, in relazione alle angosce del lutto originario, persecutoria e maligna. Qui l’automa appare come l’effetto di quel fenomeno che gli psicoanalisti chiamano elaborazione paranoica del lutto (per la madre e, più in generale, per tutto ciò che è perso al momento della nascita). In che misura, secondo Lei, si può pensare che la plurisecolare aspirazione dell’uomo all’automa dipenda anche dalla sua impossibilità di accettare i limiti che la nascita e l’evoluzione impongono alle sue fantasie arcaiche onnipotenti?
R. Sono perfettamente d’accordo con la parte conclusiva della sua domanda: sì l’automa (la cultura) è l’elaborazione paranoica del lutto da parte di coloro che hanno ravvisato la morte e sono diventati i mortali. Attraverso fantasie arcaiche onnipotenti, come Lei dice, gli umani inventano (costruiscono “lavorando”) la speranza di “salvezza”, il Dio salvatore, il peccato redento e così via. Tutto ciò non è ovviamente “falso”; anzi, è proprio “vero”, nel senso della mia prima risposta. Noi siamo questa epopea, folle e sublime, ovvero così potremmo raccontarci oggi, che la vita e la morte sembrano frequentare in forma nuova le loro frontiere. Nascerà da tutto ciò l’ “oltreuomo”, ovvero l’essere che “sa” di essere immortale e che cioè si libererà dalla ossessione della morte? Le ombre di Epicuro e di Spinoza, e altre ancora, ci aiutino.
D. Lei ha più volte fatto riferimento al lavoro di Melanie Klein, relativamente alla relazione primaria del bambino col seno buono e cattivo, e ora, nel suo libro, a quello di Daniel Stern, in rapporto agli effetti e alle resistenze subiti ed esercitati dal bambino da e verso l’altro, l’ambiente. Considerando come i filosofi, e non solo loro, quando si occupano di psicoanalisi di solito si limitano all’opera di Freud, può dirci se con questi riferimenti lei sottintenda anche che, perlomeno a certi livelli, la psicoanalisi può rappresentare un significativo contrappunto, un interlocutore, per gli sviluppi del pensiero filosofico? E se sì, rispetto a quali scenari?
R. Non sono favorevole, come Lei avrà inteso, alle rigide divisioni disciplinari. Ogni lavoro ha la sua specificità, ma le pratiche, io dico, sono sempre intrecci di molte pratiche. Come avrebbe potuto procedere Freud senza tutta la tradizione concettuale e morale della filosofia? Come potremmo procedere oggi senza il grande lavoro anche terminologico di Freud? L’essenziale è ricordare sempre che ogni pratica ha un suo momento che io definisco “trascendentale”, in quanto esso sottomette tutte le altre pratiche che la compongono a suoi strumenti, a mezzo utili al suo scopo. Lo psicoanalista ha i suoi scopi “trascendentali”, che non sono quasi mai gli stessi del filosofo; però i frutti del loro lavoro si intrecciano in modi cerativi se noi li ravvisiamo nel senso “interno” alla loro pratica, senza la pretesa di farli valere come “visioni assolute” dell’essere umano o non umano. La cosa peraltro non è facile ed esige una continua autocritica e una disponibilità a trascriversi nelle proprie pratiche alla luce della verità dell’ “altro”. In questo la filosofia dovrebbe presentarsi e proporsi come modello, come, io dico, mimo della verità. È evidente che non sempre, o raramente, ce la fa. Anche il filosofo, in quanto uomo, ha paura di morire e pensa di stornare la morte con l’aggressività. Nel suo caso, concettuale.