In limine
a cura di Maria Luisa Califano e Roberto Serino (Clean, 2020)
recensione di Silvia Anfilocchi
parole chiave: #architettura, #limite, #ambiente
In-limine è un titolo evocativo, polisemico. Riporto dal dizionario latino:
līmĕn, -ĭnis – 1. limitare, soglia, ingresso, uscio; 2. confine, frontiera; 3. casa, dimora; 4. principio, inizio, esordio; 5. linea di partenza; 6. sbarra, steccato.
Questi significati vanno intesi in accostamento e contrapposizione al concetto di
līmĕs, –ĭtis – 1. limite; 2. confine; 3. differenza; 4. frontiera, baluardo, bastione; 5. sentiero, via, strada; 6. tratto, traccia; 7. vena.
Tutte queste molteplici sfumature sono state messe al lavoro dagli autori: in limine, come “luogo” dello spirito creativo, della sensibilità poetica, della soggettività e della polis. Dalla soglia architettonica (nello spazio), al limitare (del tempo), tra il “non più” e il “non ancora” che restringono il soggetto, i “due territori [che] si trovano costantemente a confronto: quello esterno a noi stessi [che] a volte si fa piccolo rispetto a quello interno [mentre], altre volte, il territorio esterno interviene e schiaccia il territorio interno” (Pinna p. 155) e i processi psichici, si muovono tra i due estremi della proiezione paranoica e dell’introiezione nevrotica (Ferenczi 1909).
Limite come separazione, soglia, spaziatura necessaria di ogni possibilità discorsiva; piega riflessiva del soggetto, possibilità stessa di ogni relazione, misura dell’umano. Il senso del limen è l’apertura originaria del pensabile (Vecchio p. 166-168).
Il dialogo tra psicoanalisti e architetti ha una storia lunga e consolidata. Le due professioni si incontrano: nelle metafore spaziali che la psicoanalisi ha costruito per rappresentare l’apparato psichico, struttura all’interno della quale avvengono scambi e movimenti; la dialettica tra mondo interno ed esterno e tra contenitore e contenuto; lo spazio transizionale (Califano p. 28). Nella pratica, in cui sono entrambi strumento del transfert di sentimenti e pensieri inconsci, che sanno usare per interpretare il nostro essere al mondo, il nostro presente. Nella capacità di ascolto e la convinzione che ogni processo creativo nasce dalla relazione con ciò che è già stato e ciò che ancora non si conosce e confluisce “nel desiderio di sviluppare un linguaggio associativo, dove pensieri e suggestioni visive, emozioni e resti del passato concorrono alla creazione di opere – architettoniche o psicoanalitiche che siano – vive, capaci di narrare e di farci sognare e pensare” (Scotto di Fasano, Ferroni 2011). Nell’allargamento a nuovi pensieri; se il mestiere dell’analista si esercita “tra il lettino e lo scrittoio” e alcuni devono scrivere per pensare, così “l’architetto pensa con la matita in mano” (1), come ci suggerisce Marta Capuano che, muovendosi tra psicoanalisi, architettura, arte e cinema, riprende l’interrogazione sull’utilità dell’architettura disegnata di Lebbeus Woods, che valorizzava il disegno presentandolo ai suoi studenti come “la più alta e chiara espressione dell’architettura” (p. 47). Inoltre, sempre più frequentemente, architetti e psicoanalisti siedono insieme a tavoli di studio e progettazione di spazi e di edifici pubblici, con lo sguardo volto a una nuova ecologia dell’abitare. Intento profondamente etico-politico perché la qualità dell’ambiente naturale e artificiale in cui ci muoviamo partecipa della nostra identità e incide sulla nostra storia, è responsabile della nostra nascita sociale e del nostro destino biologico, come ci insegnano l’epigenetica (Marini 2020) e le osservazioni di Harold Searles (1960) sulla rilevanza dell’ambiente non umano per la formazione psichica (Masina 2016).
L’idea di raccogliere contributi e riflessioni sul tema dell’abitare e del confine interno/esterno era stata pensata dai curatori del libro, la psicoanalista Maria Luisa Califano e l’architetto Roberto Serino, molto prima che la circolazione del virus, e le misure prese per arginare i danni, restringessero, rendendocela problematica, l’area in cui possiamo dire di “sentirci a casa”, al sicuro, protetti, riparati. Prima che il familiare/fidato e l’estraneo/pericoloso si confondessero – rovesciassero – in un’inversione perturbante, riconosciuta e rifiutata.
Ciò che è successo dalla progettazione del testo alla sua uscita nelle librerie ha reso ancor più cogente l’argomento e ciò che sta accadendo ora (l’invasione dell’Ucraina, la messa in discussione dei confini nazionali e delle alleanze, la necessità di trovare rifugi, temporanei e duraturi) ci aiuti a rintracciare significati ulteriori nelle parole degli autori, 7 psicoanalisti e 7 architetti, nelle fotografie in bianco e nero di Ginevra Paoli che introducono i testi, nei disegni e nelle riproduzioni di opere d’arte che li accompagnano.
Mi muoverò associando liberamente tra i capitoli di In limine, senza rispettarne l’ordine di impaginazione, con il metodo da cui mi sembra si siano lasciati trasportare alcuni autori, la “concitazione dell’artista” che, dopo essere “entrato nella composizione, segue la traccia del disegno, ne asseconda per un tratto la direzione, ma poi la interrompe per aver intravisto nuovi tracciati da esplorare mentre la progressione di interferenze discontinue si mostra all’improvviso come sostanza stessa di questo affannato operare” (Serino p. 171).
Le immagini e le voci che abbiamo come costante sottofondo di ogni azione e pensiero in questi giorni mi porta immediatamente alle pagine militanti di Antonio Angelillo che ci parlano di reti metalliche e di confini mutevoli, nell’analisi degli effetti della barriera costruita nel ’47 (poi abolita con l’allargamento dell’EU) per dividere politicamente Gorizia tra Italia e quella regione della ex-Jugoslavia che oggi chiamiamo Slovenia (l’ovest dall’est, il capitalismo dal comunismo) senza, tuttavia, creare una vera e propria frontiera tanto che il territorio composito che avrebbe dovuto separare è diventato, invece, “uno spazio di condivisione e dialogo” che ha assunto “la caratteristica di una fascia di incontro dove hanno confluito due mondi, anzi tre […]. Realizzando, così, l’integrazione che unisce valorizzando le differenze a cui la psicoanalisi aspira.
Il concetto di confine articolato da Virginia De Micco ci suggerisce proprio di pensare alle differenze che ibridandosi danno vita alle novità più feconde e promettenti, a partire dall’esperienza psichica primaria del neonato, i cui confini si costruiscono nei processi di scambio e transizione attivati da tutti i soggetti che con lui si relazionano. Con la rêverie materna l’esterno può animarsi di oggetti buoni e grazie a uno sforzo costante di elaborazione delle aree cieche da entrambe le parti, la comunicazione tra mondi e culture diverse potrà scampare al ritorno del rimosso e all’identificazione proiettiva. Le culture vicine, confinanti, le più simili e più in lotta tra loro, sono proprio quelle che si caricano reciprocamente di differenze rinnegate e di estraneità. Chi attraversa le frontiere superando a ritroso “le colonne poste da Ercole […] [come] segno differenziante tra mondo conosciuto e mondo sconosciuto, tra sicurezza e pericolo”, “tra ciò che è noto e rassicurante e ciò che è ignoto e popolato da fantasmi persecutori”, oggi rappresentate della Porta d’Europa di Mimmo Palladino (ML. Califano p. 25), immigra ed entra nell’area da cui in passato soltanto si usciva. Se non ha le condizioni per stare nella parte egemone, finisce per trovarsi in uno stato di “doppia assenza” (p. 95), sia dal paese di origine sia da quello ospitante/rifiutante. Quando diventa impossibile insediarsi perché le condizioni abitative mantengono il carattere della precarietà, non ci si può sentire ‘a casa’, sicuri, protetti, riparati, neanche dopo anni.
L’incontro con l’altro, il diverso, lo sconosciuto è problematico sul piano relazionale tanto quanto su quello intrapsichico e altrettanto necessarie sono le protezioni da un possibile trauma. Paolo Cotrufo, infatti, avvia la sua riflessione dalla definizione di limite puntualizzando che, sebbene non sia “un concetto medico, psicologico, filosofico ne’ tantomeno psicoanalitico”, “tutto ciò che ha a che fare con i limiti, i contenitori, i confini, le superfici, le barriere di contatto” da qualche decennio è al centro della riflessione teorica e clinica della psicoanalisi. Ciò risponde, evidentemente, a una necessità definitoria, un’angoscia di spaesamento, al bisogno di arginare l’invasione, forse addirittura proteggersi, dal contatto con l’altro, che è fuori e dentro di noi. Lo dimostrano anche la pagina di Daniela Scotto di Fasano recentemente pubblicata su SPIweb (2022) e il capitolo di Sara Marini che ci accompagna a capire come nel tempo il muro abbia assunto un ruolo centrale nel caratterizzare le abitazioni, prendendo il posto del tetto, che è stato nei secoli sinonimo di casa, riparo, rifugio.
La casa “luogo psichico, relazionale e simbolico”, l’ambiente che sentiamo nostro, si sedimenta come un nucleo identitario (che riunisce i simili); la prima casa che abitiamo, il corpo della madre, da cui ci allontaniamo sperimentando la cesura che è matrice di tutte le successive, il taglio, la pausa ritmica tra un prima che si prolunga in un dopo, nell’ambiente di contenimento fornito dalla funzione materna il cui “sentire originario anoggettuale, atmosferico estatico […] migra, si estende sull’ambiente esterno”. Così, le parole poetiche di Sisto Vecchio, che riportano la scena schermo di un trasloco, riconoscono l’origine della soglia tra familiare ed estraneo di ciascuno disegnata sulla traccia inconscia delle sensazioni avvertite e trasmesse nella relazione con chi ci ha portato in grembo.
È questa la base, aggiunge Vecchio, che ci guiderà, tra continuità e discontinuità, per la vita nelle costruzioni, che saranno sempre anche ri-costruzioni, per tornare alle atmosfere del luogo delle origini, in ambienti che ci facciano sentire sicuri, protetti, “a casa nostra”, al paradiso che abbiamo perduto con l’uscita nel vasto giardino che ci accoglie, l’esterno da noi (Capiello p. 55). “Forse gli architetti ereditano il ruolo della madre che propone oggetti” suggeriva Marta Capuano in un seminario del Centro Psicoanalitico di Roma.
È questo lo spazio originario su cui disserta Paola Galante che vede l’equivalente della ricerca di sé nella ricerca di uno spazio di intimità dentro le architetture che designano l’uso delle aree che costruiscono attribuendo loro un nome.
La casa, che nei sogni e nei disegni raffigura il Sé, lo schema corporeo – “la scatola muraria [ha] a che fare con il corpo” scrive Marco Sarno (p. 109) – che contiene il mondo interno e la vita familiare, rappresentazioni che si diversificano e complessificano con l’evoluzione soggettiva. La casa, trascrizione reale di un ideale di vita, che parla di chi la abita, svelandone gli interessi, le passioni, la posizione socio-economica-culturale, sin dal tempo paleolitico quando gli uomini adornavano di graffiti le pareti delle caverne in cui trovavano rifugio; la casa in cui il corpo abita e costruisce attorno a sé le condizioni dell’agio; la casa che, come la pelle del nostro corpo, ci restituisce un’immagine unitaria di noi stessi, ci difende dalle intrusioni dell’esterno e ci permette il contatto con gli altri (Anzieu, 1985).
Abitare è il nostro modo di essere, abitiamo il «frammezzo» (Heidegger) e le pareti che erigiamo sono luoghi di conflitto, di tensioni che si incarnano nell’idioma che ci è proprio, destinati ad abitare «sulla oscillante bilancia dell’equilibrio» (Vecchio p. 168).
Del tempo in cui viviamo ci parla Sarantis Thanopulos. Attraversando i temi che più gli sono cari e muovendosi tra diverse soglie, ci accompagna a vedere come solo nell’area in cui “coesistono senza tensione” il tempo lineare della veglia e il tempo circolare, eterno, dell’inconscio, è possibile l’esperienza potenziale della percezione affettivamente investita e creativa della realtà.
Con dispiacere, Thanopulos ci segnala le conseguenze dell’“eclissi di kairòs”, come intitola il suo scritto, del tempo potenziale che è sempre inattuale, che “ci aggancia al tempo tragico: il futuro anteriore (come andrà a finire: predizione e incertezza) nella forma di memoria del futuro: presentire, immaginare, intuire ciò che accadrà, configurandolo come potrebbe accadere. Sostare nella mancanza come apertura all’essere che ci impegna nell’attesa trasformativa di sé…”. Non ricordiamo il passato e da esso non impariamo perché abbiamo perso la “memoria del futuro”, che insieme alla memoria del passato costituisce la continuità del nostro Sé, e questo ci impedisce di stare nel tempo opportuno, nell’hic et nunc, in quel presente da cui il futuro si sviluppa.
Il volume si chiude con una post-fazione, l’intervista dei curatori a Cosimo Schinaia che ci restituisce il valore e la pregnanza della fertile collaborazione tra le due aree disciplinari e ribadisce quanto sia necessaria la “costituzione di uno spazio elaborativo trasversale” (p. 183) dialogante che sappia rispondere alle richieste che la complessità odierna ci pone. Del resto, gli adattamenti resi necessari dall’attualità si sono iscritti in una evoluzione già in atto nel modo di pensare, progettare, vivere gli spazi, frutto delle interconnessioni tra psicoanalisti e architetti che, superate le contrapposizioni, hanno saputo realizzare un “miscuglio di nostalgia e anticipazione estrema” (Baudrillard 2003, cit. da M. Capuano p. 52). Proprio le soglie, commenta Schinaia, stanno riconquistando un ruolo di primo piano; gli spazi necessari, anche protettivi, di separazione e passaggio dall’interno all’esterno e viceversa, dal prima al dopo, dall’intimo al pubblico, piccolo/grande, allievo/maestro. Corridoi, anticamere reali e simboliche, riti di passaggio, aree transizionali che non possono essere né eliminate, né troppo ristrette o abbreviate, come i cambiamenti culturali messi in moto nei decenni appena trascorsi spingevano a fare.
Concludo qui il mio sorvolare tra alcune suggestioni fornite dagli autori di In limine. Il limes impedisce di andare oltre. Resta molto da dire, e da vedere, nel volume generosamente curato da Maria Luisa Califano e Roberto Serino, in cui troviamo anche molta mediterraneità, soprattutto nelle evocazioni napoletane dello stesso Serino e in Andrea Califano, che della casa mediterranea, esempio di “architettura radicata nel luogo”, analizza gli elementi (pavimento, tetto, finestra, ecc.) capaci di integrarsi con il paesaggio di cui diventano parte dialogante.
NOTE
(1) Roberto Spagnolo, comunicazione personale
BIBLIOGRAFIA
– Ambrosiano L., Gaburri E. (2013) Pensare con Freud, Raffaello Cortina, Milano
– Anzieu D. (1985) L’Io-pelle, Borla, Roma
– Baudrillard J., Nouvel J. (2003). Architettura e nulla. Oggetti singolari, Electa. Milano
– Capuano M. Una visione d’insieme su Darwinismo Architettonico in: Psicoanalisi ed Arte: un fertile incontro.Ciclo di seminari organizzati dal Centro Psicoanalitico di Roma
– Ferenczi S. (1909). Introiezione e transfert, tr. it. Guaraldi
– Marino M. (2020). Riflettere sull’abitare. Intervista a Carlo Sini, https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Riflettere_sull_abitare.html
– Masina L. (2016). L’ambiente non umano. H. Searles. Un commento https://www.spiweb.it/dossier/cure-per-il-creato/lambiente-non-umano-nellumano/
– Scotto di Fasano (2022) www.spiweb.it/cultura-e-societa/barriera-di-contatto-e-pensieri-intermedi-tra-arte-e-psicoanalisi-attraverso-il-lavoro-di-lorenzo-mattotti-d-scotto-di-fasano/
– Scotto di Fasano D., Ferroni A. (2011). Una salita a scendere, Riv. Psic. (57)(3):773-782
– Searles H. F. (1960). L’ambiente non umano, Einaudi, Torino. 1968.