IL SUSSURRO DEL MONDO
di Richard Powers
(La nave di Teseo, 2019)
Recensione a cura di Daniela Federici
“Ascoltami, c’è voluto
mezzo secolo di vento
per mettere insieme
quello che ti sto
dicendo.”
F. Arminio Cedi la strada agli alberi
“Overstory” è il titolo originale del poderoso romanzo che è valso a Powers il Pulitzer 2019.
La “sovrastoria” ha un respiro epico e un impianto narrativo originale e accattivante, che cala il lettore nel mondo naturale con il sapere di un botanico e le suggestioni del racconto di uno sciamano, simile a un libro dei mondi perduti di un bambino.
Una galleria di personaggi incantevoli e sorprendenti, emigrati, disadattati, disabili, creature sfuggite al gregarismo sociale e latori di lontane tradizioni, epopee intrecciate a castagni centenari, sequoie, gelsi del rinnovamento, piante emblemi di famiglia che paiono plasmare il carattere dei protagonisti e definirne il destino. Figure toccate da sciagure e rese sensibili ai messaggi di un mondo in pericolo, voci in un’orda di spore, provenienti da ogni angolo della terra, come semi portati dal vento, l’intimo dei geni e della Storia e i legati della trasmissione, la generazione dei figli investiti della causa di risvegliare menti intorpidite votate all’estinzione.
Ben oltre la narrativa ecologista, l’impronta etica de Il sussurro del mondo fa percepire l’impegno politico di un saggio che fa appello alle coscienze con l’intento di sensibilizzare a un tema cruciale attraverso una narrazione avvincente e un carrellare di visioni che si organizzano in una coralità pensante.
“Come avviene l’ascesa e il declino di un uomo in questa vita?”
A Patty, la bimba-pianta, che vive con le creature silvestri nella minuscola architettura della sua immaginazione, il padre insegna a scrutare gli alberi, perché la saggezza umana conta meno del luccichio dei faggi mossi dalla brezza. Diventa una botanica capace di ascoltare i linguaggi segreti della foresta.
“Non esiste alcun sapere con certezza. Le uniche cose su cui si può contare sono l’umiltà e l’osservazione.”
Attraverso i suoi occhi, nel cui spettro ci sono colori che nessun altro riesce a vedere, la natura si racconta in descrizioni mirabili.
“Le piante sono creature caparbie e abili e alla ricerca di qualcosa, proprio come le persone.”
Creature che portano inscritte nei loro anelli la storia di ogni crisi che hanno superato, ricordano quel che le persone hanno dimenticato, quel che ci precede e che si sopravvivrà. Gli alberi si scambiano segnali aerei nebulizzati, che avvertono dell’attacco dei parassiti o emanano fragranze che attirano gli insetti per l’impollinazione, si nutrono a vicenda propagando acqua e minerali, procurando rimedi attraverso connessioni nel suolo, costruendo sistemi immunitari estesi quanto l’intera foresta, come una grande e unica creatura clonale. “Ci sono cervelli là sotto”, sinapsi fungine e duttilità capaci di reazione e memoria, un ritmo di vita che ha spazio per la morte, brulicante e prolifico vivaio offerto a nuove piantine. La creatura vivente più antica della terra sta nella trama di condotti sotterranei che si uniscono in un unico sistema vascolare capace di adattarsi.
La competizione non può essere separata dalla cooperazione.
Un ecosistema animato da uno scopo, dove tutto dipende da tutto il resto. La saggezza di migliaia di specie arboree impegnate ad assorbire il carbonio e filtrare veleni dal suolo, che stabilizzano il microclima e trasformano terra e sole in migliaia di sostanze che la saggezza antica perduta conosceva come farmaci portentosi.
“Se volete il suolo del prossimo secolo, se volete acqua pura, se volete varietà e salute, se volete stabilizzatori e servizi che non possiamo nemmeno calcolare, allora siate pazienti e lasciate alla foresta il tempo di offrire i suoi doni.”
La biodiversità di centinaia di anni di evoluzione decimata dal taglio raso delle foreste nazionali, per massimizzarne il valore attuale procurando la maggior quantità possibile di legno a buon mercato. Macchine che aprono le fauci su alberi di quindici metri frantumandoli come carote dentro un robot da cucina, tronchi che ruotano veloci su spiedi contro la lama angolata di seghe che ne scarnificano la polpa in un continuo strato di impiallaccio.
“Stiamo appena cominciando a renderci conto di quanto possa variare il funzionamento di una cosa. La vita ha un suo modo di parlare con il futuro. Si chiama memoria. Si chiama geni. Per risolvere il futuro, dobbiamo salvare il passato.”
Un genere umano che ha perso il senso dell’insieme, che devasta il suolo e disregola il clima per il più fugace dei profitti. Alberi secolari come antiche divinità abbattute, enormi profili intagliati nello spazio negativo come un quadro di Magritte. Non più la canopia lussureggiante ma le gru di un’edilizia che desertifica e rimodella la linea dell’orizzonte. Un futuro in picchiata.
“Tutto sta morendo di una morte ricoperta d’oro.”
Adam, lo psicologo ossessionato dai bias cognitivi che ci fanno cercare conferma delle nostre credenze ignorando ciò che le smentisce, dai pregiudizi che ci fanno ciechi e astenuti su ciò che, riguardando tutti, finisce con il non riguardare nessuno per primo.
“Il lavoro della psiche è quello di farci rimanere beatamente ignoranti su chi siamo, su cosa pensiamo, e su come ci comporteremo in qualsiasi situazione. Agiamo tutti quanti in una densa nebbia di mutuo rinforzo.”
Sono avanzi malridotti di strategie dei primi stadi dell’evoluzione che ci impediscono di agire per migliori interessi?
“Non siamo predisposti per assistere a un lento cambiamento sullo sfondo, quando qualcosa di luminoso e di sgargiante ci sta sventolando in faccia.”
Neelay, geniale ideatore di mondi digitali, racconta il fermento animista di paradisi in fuga dalla realtà, replicata nello scintillio dei pixel, appiattita su piani bidimensionali. Protesi tecnologiche come una droga che ottunde con i suoi incantesimi di velocità e controllo l’eterna insoddisfazione che moltiplica gli appetiti.
Cosa significa essere mangiati vivi dalla voracità insaziabile del frutto della propria creazione?
L’incessante macchina da soldi di un ritmo di progresso in espansione irresponsabile, un gioco impazzito e sfuggito di mano al suo dio: come si fa a cambiare l’obiettivo? Come si fa a far crescere il mondo per avere un futuro?
“La vita sta dicendo qualcosa che non sente nessuno.”
Powers racconta uno spaccato dell’America con la sua mala-politica e le sue contraddizioni, e attraverso i suoi protagonisti rappresenta la fazioni in lotta sullo sfondo dell’attivismo e della disobbedienza civile. Un invito a guardare alla natura con occhi diversi, riconoscendo al regno vegetale un’intelligenza adattiva che potrebbe essere superiore alla nostra.
“Non potete vedere quello che non capite. Ma ciò che pensate di aver già capito, finirete per non notarlo.”
Un libro dai moventi ideologici che vuole sortire un impegno alla responsabilità e lo fa con il potere della poiesi delle belle storie, con una narrazione dagli accenti visionari come un viaggio virtuale, di un’immersione che pesca negli universi limpidi di quando si guardavano le cose con incanto.
“È proprio questo il compito della coscienza, trasformare l’Adesso nel sempre, confondere ciò che è con ciò che doveva essere.”
Un richiamo, forse, più che la speranza, di un’ecologia globale che riconosca le reciproche dipendenze, al di là dell’antropocentrismo smodato, per arretrare la china del disastro.
“La gente non ha idea di cosa sia il tempo. Pensano sia una linea, che si srotola precedendoli di tre secondi, e poi svanisce altrettanto rapidamente nei tre secondi di nebbia davanti a loro. Non capiscono che il tempo è un anello crescente avviluppato intorno a un altro, che si espande sempre più verso l’esterno finché, per esistere, il più sottile strato dell’Adesso dipende dall’enorme massa di tutto ciò che è già morto.”
Lungo il racconto uno dei personaggi rimane murato nel sigillo di sé di un ictus: toccante la descrizione di un busto pietrificato, delle scorie fuse di un borbottio che non compone l’intenzione della parola, del grido nello sguardo di una creatura intrappolata sotto le macerie. E lo sperdimento, sedotto alla resa, di chi prova a redimere il senso in ciò che è racchiuso.
Siamo senza speranza?
Un libro che parla del senso da dare alla propria vita, di ciò che si eredita e si trasmette, dell’importanza di dedicarsi e offrire qualcosa che cresce.
“Finiremo per assomigliare a ciò di cui ci prendiamo cura.”
In questo tempo malato di individualismo, in cui ci siamo bruscamente resi conto di ciò che davamo per scontato, misurando i nervi dei nostri bisogni così come delle barricate fra noi e il fuori, risulta una lettura stimolante al pensiero che va componendo una narrazione interpretativa di questo frangente e delle sue incidenze.
Un buon esercizio dell’area di scambio fra dentro e fuori, che possa restare dialettica.
“Mi spinge l’estro a narrare il mutare delle forme in corpi nuovi.”
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