A cura di Marco Francesconi, Daniela Scotto di Fasano (2014)
Il sonno della ragione. Saggi sulla violenza.
Liguori editore
La raccolta di saggi a cura di M. Francesconi e D. Scotto di Fasano, prende il suo titolo da un’acquaforte realizzata nel 1797 dal pittorespagnoloFrancisco Goya, El sueño de la razón produce monstruos, facente parte di una serie di 80 incisioni ad acquaforte chiamata Los caprichos (I capricci).
Los caprichos sono le prime opere di Goya non realizzate su commissione e ritraggono – in chiave allegorica, umoristica e satirica – vizi e miserie umane, ma anche soggetti fantastici o grotteschi.
La scena del sonno della ragione rappresenta un uomo addormentato mentre prendono forma, attorno a lui, sinistri uccelli notturni, inquietanti volti ghignanti.
Il 1797 è di poco successivo al 1789: anno della Rivoluzione francese a cui segue poi il Terrore.
Che sia il “Sogno”della Ragione (nel senso delle origini illuministiche e enciclopediste della Rivoluzione) a generare i mostri dei massacri, quello a cui Goya voleva alludere nella sua acquaforte? Quindi la Ragione come fatto storico e politico, non come attitudine individuale all’introspezione o alla speculazione filosofica?
Autorizza a porre questa domanda il carattere polisemico del linguaggio.
Sueño, in spagnolo significa, infatti, sia sonno che sogno.
Nessuno come Goya ha saputo irridere e rappresentare l’aspetto grottesco del secolo dei Lumi. Il secolo della Dea Ragione, è il secolo che assieme all’Enciclopedia, vede nascere i manicomi e allontanare dalle chiese la sepoltura dei morti, non possiamo dimenticarlo.
Bisognerà aspettare Kant perché la ragione riacquisti un profilo umano e perda l’aura mitica che l’ha accompagnata nel secolo di Goya.
A questo tipo di ragione, soprattutto quella della seconda critica kantiana, Critica della ragion pratica ( 1788) si rifanno, anche se non esplicitamente, gli Autori che hanno collaborato con il loro pensiero alla stesura di questa raccolta.
Una ragione assunta come capacità dell’essere umano di mettersi in rapporto e dialogare con l’alterità, dentro e fuori di sé. Tutta la raccolta è un ragionare sulla violenza, un interrogarsi su di essa senza mai denegarne la radice umana e la sua scaturigine: la complessità stessa inerente all’essere umano come tale.
I venti anni che separano la prima edizione de Il sonno della Ragione, da questa seconda, recentissima riedizione curata da Daniela Scotto di Fasano e Marco Francesconi, costituiscono un arco di tempo in cui sono avvenuti cambiamenti geopolitici e antropologici cruciali.
Dopo l’11 settembre e il crollo delle Due Torri, fenomeni come la violenta radicalizzazione dei conflitti internazionali, le emergenze che scoppiano nei punti più disparati del pianeta con un conseguente ricorso alla guerra come soluzione illusoria dei problemi. Un terrorismo che fa politica con e sulle vite, il palese indebolimento delle garanzie giuridiche che ha permesso una situazione di deriva identitaria in cui l’imponente e continuo flusso di migliaia di migranti che si spostano da un punto all’atro del pianeta solo per sopravvivere, (avvenuto sotto l’egida di una gestione poliziesca), il ricorso a dispositivi eccezionali d’urgenza per gestirli, tutto ciò ha dato luogo a scenari apocalittici, in cui domina un permanente stato d’eccezione, in nome di una violenza visibilmente palese, o più oscura e strisciante a cui gli autori de Il sonno della ragione non si arrendono come di fronte a un fatto, ma su cui si interrogano, da vari orizzonti disciplinari.
Ma, soprattutto, questi ultimi venti anni hanno visto crescere insieme alla globalizzazione, la deumanizzazione, con la globalizzazione dell’indifferenza alla violenza, nelle svariate forme che questo testo coraggioso affronta.
Questi terribili cambiamenti intervenuti tra la prima edizione del testo e la presente edizione che gli autori ci propongono in lettura, forse possono aiutare a comprendere più a fondo perché la ricerca sul tema della violenza iniziata da operatrici di una Associazione di donne contro la violenza, quelle stesse che nel 1993 hanno reso possibile la prima edizione del Il sonno della ragione, si sia rallentata come dice, con qualche rammarico, Daniela Scotto di Fasano nella sua introduzione:
“I venti anni passati […] hanno causato l’impossibilità di riprendere i fili dell’antica trama allo scopo di produrre contributi che conservassero, oggi, memoria del passato, alla luce di un futuro che, per essere pensato sensatamente significativo… necessitava di una frequentazione maggiore che, sola, può dire chi si sia divenute oggi” (pag 11).
Tra i disagi della contemporaneità, strettamente legati ai cambiamenti in corso, c’è dunque anche quello dell’indebolimento dei legami, dello sfiancamento della passione della ricerca, a fronte della insostenibile pesantezza del quotidiano, attraversato da fenomeni eterogenei che marcano e indeboliscono la qualità di scelta personale della vita di ogni singola persona, riducendola spesso a una passivizzazione subita di scelte patite e non condivise. Anche questa è una delle tante forme che prende oggi la violenza. Una forma non visibile direi, e quindi altrettanto pericolosa di quella spettacolare che i media incessantemente introducono nelle nostre case, e determina la rottura dei legami, il ritiro nei propri ripari a fronte di un male arcaico che dilaga e si riprende gli spazi duramente conquistati dalla civiltà, pur a prezzo di enormi disagi.
Mai come oggi nell’odio che dilaga, ciò che nella natura umana non varia, appare elemento immutabile, nei mutamenti indotti dal corso della storia.
Tanto più questo libro, nato da un desiderio di ri-presa di legami e di pensiero da parte dei singoli autori, è un’operazione etica ammirevole e coraggiosa, proprio in forza di quanto sin qui si è detto. La definirei un ” atto di resistenza”.
Ogni singolo autore ha un suo specifico modo di interrogare questo tema enigmatico e incandescente oggi più che mai: la violenza.
Il sonno della ragione è diviso in quattro parti.
La prima parte Riflettere sulla violenza vent’anni dopo, porta la firma di Marita Rampazi.
La seconda parte Violenza: determinazione “normale ” dei rapporti sociali, è articolata secondo più voci e ascolta quelle di Marco Francesconi, di Lorenzo Magnani e di Rossella Valdrè mettere in tensione, nell’ambito psicoanalitico, in quello filosofico e infine in quello cinematografico, il problema della violenza.
Una terza parte Riparabilità della violenza – di taglio squisitamente winnicottiano -, mette in campo la speranza di una possibile uscita dalla violenza.
E infine la quarta Esperienze traumatiche estreme, con Daniela Scotto di Fasano, Sverre Varvin, Cosimo Schinaia, Sara Micotti, ci conduce in una zona più che buia, quella che Kant definì il legno storto dell’umanità e Hanna Arendt il male senza perché.
M. Rampazi nella prima parte del libro entra direttamente con il suo titolo nel tema del tempo trascorso cui accennano i curatori nella loro introduzione. Il suo titolo è, infatti: Riflettere sulla violenza vent’anni dopo.
Come segnala S. Vegetti Finzi la riflessione sullo stesso tema, dopo venti anni, si configura nella complessa tramatura del testo come uno scacco della ragione.
E’ forse questo scacco, a cui gli autori non si arrendono, che ha fatto scegliere ai curatori di riprodurre nella copertina un singolare quadro Il Lupo di una giovane pittrice contemporanea, Luisella Gandini. Oltre a rappresentare, tramite la figura di un corpo di uomo con la testa di lupo, la condizione di regressione arcaica che oggi “slega” pericolosamente i legami sociali, facendoli ritornare addirittura a una condizione precedente a quella del contratto sociale, formulata da Hobbes come quella dell’homo homini lupus, l’inquietante figura del quadro suggerisce una dantesca “matta bestialitate”, un’espressione dell’umano a cui assistiamo sgomenti perché la vediamo in ogni dove e che non ha nulla a che fare con l’animale di Rilke, che ce lo presenta nella VIII delle sue Elegie Duinesi, come “una creatura (che), quali che siano gli occhi suoi, vede l’aperto […]”.
A S.Vegetti Finzi si deve una ricca e sapiente prefazione dove le ferite profonde del secolo che abbiamo alle spalle, riguardate nella loro diacronia, vengono ripercorse per mostrare come il tempo non solo non le abbia sanate, ma ne abbia svelato l’interna sragione.
L’imperativo categorico che percorre la contemporaneità si esprime, infatti, con un insensato “godi!”.
Ogni singolo autore si scontra con l’insensatezza di questo imperativo che ha infettato la contemporaneità, e se pure lo scopo di ognuno è quello di rendere pensabile la tolleranza, la valorizzazione della diversità, tuttavia sullo sfondo del discorso di ognuno si intravede il segno impresso dalla speculazione di Freud sulla presenza nella psiche di “una forza demoniaca”. Il godimento del male è quello che la psicoanalisi, come Freud ha svelato, paradosso inaccettabile al senso comune, paradosso che fa del discorso freudiano ancora oggi una “peste” di cui si teme sempre più il contagio. Anche questo difendersi strenuamente dalla scoperta freudiana fa parte del sonno della ragione, nella contemporaneità.
Entrando più partitamente nel cuore dei singoli lavori, che non potrò percorrere tutti ma che invitano a un’attenta lettura e a una riflessione per la loro specificità, mi limito qui a interloquire con alcuni di loro.
Marco Francesconi si chiede se abbiamo ancora bisogno di Creonte. Non è facile rispondere.
La risposta di questo studioso attinge a Bion per evidenziare in Creonte, anche se ” […] è facile vedere nella sua figura il rappresentante della legge astratta disumana, […] l’unica figura disposta ad apprendere dall’esperienza e a mutare idea, anche se troppo tardi per la salvezza materiale degli altri ” (75).
Sia Antigone che Creonte, comunque. sono figure alte, e le incontreremo sempre, finche rimarrà viva, nella comunità umana, una dialettica tra le leggi della filia e le leggi della città. Per questo sono figure che hanno sollecitato tante letture diverse a livello filosofico. A partire da Hölderlin, Hegel e Schelling, Kierkegaard, fino ad Heidegger o quelle più recenti di Maria Zambrano, Luce Irigaray o Jacques Derrida, Butler. L’interpretazione hegeliana secondo cui Antigone costituirebbe l’emblema della parentela e della sfera privata in opposizione alla legge pubblica della polis di cui Creonte è l’ambiguo garante, è sicuramente una delle letture più note. Ma quella di Butler che considera Antigone come figura della relazione di un possibile intreccio fra etica e politica, di un individuo non più scisso fra ragione e passione, o come figura della crisi dell’ordine patriarcale sia nella parentela come nella polis, o ancora come figura di un desiderio post-edipico che apre a una nuova antropologia del presente, è forse quella che più ci ri-guarda, come psicoanalisti.
Continuando le esplorazioni di questo densissimo testo incontriamo le riflessioni di R. Valdrè, sulla rappresentazione filmica della violenza.
Non si può non convenire con l’autrice che il dispositivo filmico ha poco a che fare con lo scatenamento della violenza nel reale, ma semplicemente la rappresenta, e come già la tragedia greca, può avere una funzione catartica. Nel saggio di Valdrè si parla comunque di “grande cinema”, cinema come arte.
Aggiungerei a questo sapiente saggio, che si tiene saldamente ancorato al pensiero di Hanna Arendt, che il cinema viene ormai considerato da più parti “l’occhio del novecento.”
Quale mezzo più adatto dunque per svelare i sintomi di questo secolo che ci ri-guarda anche se ormai alle nostre spalle?
Ricordo che psicoanalisi e cinema nascono contemporaneamente: numerosi aspetti legati alla proiezione, allo spettacolo, alla percezione dello spettacolo, possiedono equivalenti psicoanalitici. Walter Benjamin vide subito questo parallelismo, raffrontando quasi immediatamente i due processi, l’analisi cinematografica e quella psicoanalitica apparentati soprattutto dall’analisi del dettaglio. Il dettaglio, l’accessorio, consente l’accesso a un’altra scena. La percezione cinematografica è forse la sola che può far comprendere ( sebbene solo in parte) una pratica psicoanalitica: ipnosi, fascinazione, identificazione, tutti questi termini e questi procedimenti sono comuni al cinema e alla psicoanalisi, e questo è il segno di un “pensiero comune”, prettamente visionario.
R. Valdrè, in proposito, menziona i magistrali lavori di C. Metz su cinema e sogno.
Per quanto riguarda il cinema e la critica cinematografica, vorrei ricordare qui il percorso di studiose di cinema come Laura Mulvey ( 1975 ) che hanno avviato un dibattito teorico non ancora concluso. La Mulvey e numerose altre studiose di cinema chiamano in causa la psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia rinforzata da modelli di fascinazione preesistenti, già attivi nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno plasmato, e prendono come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela, o anche mette in scena fedelmente, l’interpretazione socialmente stabilita della differenza sessuale che controlla le immagini, i modi di guardare erotici, lo spettacolo.
Il discorso relativo al piacere di guardare verte su come questo piacere si costruisca e venga veicolato attraverso l’apparato cinematografico e fotografico e si interroga su chi sia il soggetto che guarda e chi sia l’oggetto del desiderio. La soggettività è messa in primo piano, con la conseguente esigenza di ridiscutere il ruolo dello spettatore ma ancora di più quello della spettatrice.
Queste indicazioni corrono parallele alla costruzione di scenari filmici e psicoanalitici di cui rovesciano la prospettiva, come rovesciano quella tradizionale dell’epoca rispetto allo sguardo femminile. Ed è questo sguardo che si avverte in tutto il saggio ed emerge, là dove R. Valdrè individua e fa menzione di film come Eva contro Eva, Thelma e Louise, The Magdalene Sister.
Se, secondo Žižek, oggi certi autori di certi film, come Lynch, Tarcowskij, Von Trier, e Hitchcock, ci informano sullo stato delle cose dell’immaginario, articolandone i fantasmi e le fantasie, dandole a vedere, la critica cinematografica femminile aggiunge che il pensiero visivo cinematografico, così simile a quello del sogno, è una forma particolare di pensiero che coglie al cuore la realtà psichica, diversa nel caso che si tratti di uno spettatore o di una spettatrice, e si va a intrecciare così con il pensiero delle psicoanaliste che hanno rivisitato vari aspetti delle teorie della propria disciplina utilizzando il pensiero della differenza.
A proposito della quale differenza Silvia Vegetti Finzi, aderendo al pensiero psicoanalitico di molte analiste e antropologhe, smarcato oggi dal biologico, colloca nei contesti in cui il soggetto avviene la questione del genere, e il divenire donna o uomo all’interno di riconoscimenti reciproci di cui la cultura ha già precedentemente determinato i tempi e i modi.
Ma la violenza sulla donna oggi sempre più disperatamente crescente e vistosa, è violenza, secondo l’autrice, sempre e comunque violenza contro la madre. L’equazione donna-madre permane immutata in questo bel saggio.
Infatti, confrontata alla crisi attuale che attraversa la divisione dei territori sessuati – maschile e femminile – la psicoanalisi quando e se risponde al modello genetico evolutivo, sembra mantenere una posizione apparentemente salda, una sorta di cecità in merito, imponendo, di fatto, un sistema di pensiero che va al di là delle diversità, delle società e dell’evoluzione culturale, eccezion fatta per la ricerca spesso dimenticata o messa ai margini, di quelle psicoanaliste che hanno messo al centro della loro riflessione la questione del desiderio femminile e il pensiero della differenza.
Non posso non segnalare il lavoro di decostruzione che le analiste, cominciando già da alcune pioniere, hanno avuto la forza di pensare, rispetto alla questione del desiderio femminile all’interno della/delle teorie psicoanalitiche.
Già nel1932 Karen Horney si chiedeva: “ Non è veramente degno di nota ( chiediamo a noi stessi con stupore) il fatto che si presti così poca attenzione alla realtà del terrore segreto dell’uomo nei confronti delle donne, specie se si considera l’enorme massa di materiale tanto trasparente? L’uomo, per parte sua, ha in primo luogo delle evidenti ragioni strategiche per mantenere il silenzio sul suo terrore. Ma egli cerca con tutti i mezzi di negarlo a se stesso… Possiamo congetturare che perfino la sua glorificazione della donna abbia come origine non solo il bisogno d’amore, ma anche quello di nascondere sotto una menzogna, la sua paura. “(K. Horney The Dread of Women, in International Journal of Psycoanalysis, XIII, 1932, pag 359)
Continuiamo a vagare in uno dei tanti sentieri tracciati in questo libro, tanti e così intrecciati che si rischia di perdervisi.
Scotto di Fasano, riprende nel suo percorso, l’interpretazione bioniana che Francesconi offre quanto a Creonte, ne sottolinea il tratto di assunzione della responsabilità personale della colpa, che fa sì che questa non si trasmetta attraverso le generazioni.
La violenza sull’inerme è, infatti, il filo che tiene insieme l’interrogazione sulla violenza umana che incontriamo in questo saggio dell’autrice-curatrice.
E inermi sono quelli che vengono dopo di noi, a fronte della terra desolata che rischiamo di lasciargli.
E ancora: violenza sull’inerme è quella che si esprime oggi nella violenza sul migrante, su chi è senza terra, esposto, e prende la forma a volte di efferata crudeltà. La crudeltà: un tratto peculiare del genere umano, magistralmente espresso da Shakespeare nel suo Riccardo III a cui fa dire: “Anche le bestie hanno pietà: Io non sono una bestia”. Gli animali non torturano; gli esseri umani sì.
E inerme è l’animale e crudele è la violenza sull’animale, che non lascia altro che carni dilaniate, ossa fracassate, sangue ed escrementi su cui l’autrice riflette con sconsolata presa d’atto della tendenza umana ad uccidere per gusto.
Pur non avendo reso onore a tutti gli autori direttamente, non si può che ringraziare ciascuno di loro, uno per uno, per avere lanciato con il loro lavoro un appello al risveglio della ragione che attualmente sembra caduta in un sonno profondo, per salvaguardare dalla violenza la relazione con l’altro, con qualunque altro, nelle sue presenze animali, vegetali, culturali e di conseguenza umane.
Solo la ragione, non come Dea, ma come facoltà di cui la nostra specie misteriosamente gode, può garantire questa salvaguardia.
Laura Montani
Gennaio 2015
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