Cultura e Società

«Il preferirei di no» di Bartleby(1). M. Balsamo

12/10/21
«Il preferirei di no» di Bartleby. M. Balsamo

In Senso e non senso della rivolta, Julia Kristeva (1996) indicava almeno due momenti importanti della riflessione freudiana sulla rivolta: quello edipico, partendo dal mito del parricidio e dalla riattivazione della ribellione filiale nell’occasione di una crisi simbolica, e quello relativo al conflitto fra dimensioni culturalizzate della mente ed espressioni articolate al pulsionale, in opposizione alla loro rimozione da parte delle prime. Il tema appare con evidenza nella nota lettera a Binswanger dell’8 ottobre 1936, in cui Freud si definisce un abitante dei piani bassi della casa («io sono un rivoluzionario, lei un conservatore») differenziandosi dai valori spirituali e dalla dimensione di astrazione dei piani alti. Il basso, il fondo dell’edificio, reinvia non solo al rapporto fra pensiero e pulsionalità ma, osserva Kristeva, a quello altrettanto fondamentale fra la rivolta e l’arcaico, nel senso della rivolta come necessaria ripresa del fondo informe, primigenio, non strutturato, che deve essere ritrovato come condizione preliminare per operare un taglio nel discorso comune, nel pensiero dominante. L’arcaico, inteso come fuori-tempo, zeitloss, scompone la progressione stabilizzatrice, introduce una quinta stagione (Pontalis), una dimensione che fuoriesce dalla numerazione ordinatrice, rivoluzionando, capovolgendo il tempo cosciente. Senza rivolta non c’è felicità potremmo anche dire, riprendendo il celebre verso goethiano citato da Freud («ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo per davvero»), espressione che pone il rapporto fondativo fra l’eredità, la trasmissione, e il tradimento del mandato come appropriazione singolare. Ogni consegna della tradizione, nella disponibilità alla sua dislettura, include pertanto l’obbligo ad una sua traduzione, l’instaurarsi progressivo di una differenza necessaria, una modalità di ritaglio selettivo, un’operazione di ripensamento in grado di allucinare negativamente parti della stessa, per poterle poi eventualmente riapprendere secondo nuove modalità. In questo senso, la rivolta è già iscritta nel mandato, la consegna prevede la ribellione dell’erede, e la prima volta della dislettura, per quest’ultimo, la prima volta in cui egli potrà esprimere il suo «no», è da sempre una prima volta, dato che si tratta non di una singolarità dell’accadere, ma di una necessità strutturale del processo di trasmissione.

Ogni volta, dunque, si tratterà di ritrovare le forme, gli stili, le esperienze di vita grazie alle quali un «no» riesce a riscrivere il già là, secondo modalità più consapevoli o più istintive, più articolate ad un orizzonte di aspettativa, oppure a tentare di cancellarlo, qualora prevalga la perdita del principio-speranza. Tenterò di esaminare tale questione prendendo in esame il Bartleby, la celebre novella di Melville e riprendendo, parzialmente delle riflessioni già sviluppate sul tema (Balsamo 2014). Ci si potrebbe certo chiedere perché ritornare ancora al Bartleby, col rischio di accrescere la bulimia di interpretazioni che intendono rendere manifeste le ragioni del celebre «preferirei di no». Forse la questione che ci spinge a riprendere in esame il racconto, senza volerlo piegare erroneamente nell’espressione di una rivolta soggettiva (grazie al «preferisco di no» che si oppone ad ogni richiesta adattiva) ma che ad essa comunque come orizzonte reinvia, non fosse peraltro per quel «no» che si insinua nella macchina organizzativa –, risiede proprio in una formulazione che non è né affermazione, né rifiuto, che sospende il linguaggio, rende vana l’azione, interroga, lacera la comunità, mostrandole gli aspetti che essa non riesce a pensare.  Ritengo che la tesi per cui il no di Bartleby non dovrebbe essere pensato come il «no» di una rivolta singolare sia corretta, ma a patto di riconoscere immediatamente dopo che un «no» senza soggetto, senza motivazioni, senza riduzioni a motivazioni individuali, rende ancora più ampia, e in un certo senso metastorica, la frattura fra la dimensione unificante del lavoro ripetitivo, il lavoro a cui è sottoposto lo scrivano, e la generalità della condizione umana a cui si allude con questa figura. Se non c’è soggetto, spiegazione, motivazione, storia personale, quel no non può più essere assorbito dalla psicologia, dalla teoria, dall’insieme delle circostanze che attenuerebbero lo scontro, e impedisce così il passaggio dal mondo respinto, a cui esso si rivolge nella sua opposizione, al mondo respingente da cui quel no eventualmente proverrebbe, di fatto espellendo ogni tentazione biografica. Come osserva Celati (1991: xxv), nella sua introduzione al racconto, si ha «l’impressione che Bartleby annunci una grande e improvvisa deperibilità-qualcosa che sconvolgerà definitivamente le vecchie economie statiche, recherà l’incertezza in ogni situazione familiare, o locale, o di gruppo, o di affiliazione». Questa incertezza difatti, proprio venendo meno le spiegazioni soggettive, obbliga il lettore a tornare al mondo respinto, all’universo privo di senso a cui esso si rivolge, piuttosto che alla consolazione derivante dal considerare il Bartleby un caso psicopatologico. Del resto, quando ad esempio, Beverungen e Dunne (2007) in un lavoro dedicato agli eccessi  interpretativi della novella ci mostrano la complessa stratificazione interpretativa del Bartleby – pensato ora come un personaggio autistico, un melanconico, un rappresentante di una soluzione alternativa alla rivolta (Zizek), un Originario (Deleuze), un socratico, un eroe anti heideggeriano, una figura cristica, un costruttore di una nuova temporalità (Negri, 2003), la rappresentazione dell’incompatibilità fra universalità estetica e realtà mondana (Singer, 2003), un esempio di macchina celibe (Arsi, 2005) e così via – non evidenziano solo la quantità di letture che tentano di dire l’ultima parola sul racconto, istituendo di volta in volta un’illusione decifratoria e,  nella resistenza  del testo all’interpretazione,  la potenza ermeneutica di tale figura. Molto più importante è l’osservazione per cui, a partire da questa resistenza, siamo obbligati a tornare al mondo a cui il «no» getta la sua sfida, nel tentativo di carpirne le ragioni. E se alla fine non le troviamo, non è probabilmente dalla parte di chi pronuncia un «no» mortale che esse si situano, ma nel mondo privato di ogni capacità esplicativa, in cui non c’è alcuna ragione particolare, alcuna comprensione che possa ridurre a dei termini biografici, cioè occasionali, la violenza strutturale di un mondo senza senso.

Proprio intorno al Bartleby, «questo piccolo libro immenso di Melville emblema del segreto della letteratura, là dove essa fa parlare o cantare la psicoanalisi» (Derrida, 1996 : 38) – rappresentando con il suo non senso, il suo dire né sì, né no, il luogo stesso di una resistenza paradossale –, letteratura e psicoanalisi, sottolinea Derrida, si osservano. E lo fanno, nota Derrida, attorno alla questione di un segreto senza contenuto, al ruolo di una figura che sembra indicare la questione stessa della morte, di un gesto che allude al sacrificio di Isacco e al sottinteso «preferirei di no» come ribellione al possibile gesto omicida, al vano tentativo, da parte del narratore-uomo di legge che descrive la storia incomprensibile di Bartleby, di iscrivere in un circuito di comprensione il negativo del personaggio senza riuscirvi. Constatando, con ciò, l’impossibilità di indirizzarsi a qualcuno che possa coglierne il senso, situazione che mediante la caratterizzazione del Bartleby come di un impiegato in un ufficio di lettere smarrite, acquista un senso ancor più ironico. La rottura operata dal Bartleby nel circuito della copia e della replica (il personaggio del racconto si rifiuta infatti ad un certo punto di svolgere il suo lavoro di copista) sembra così rappresentare l’arrivo di un evento che introduce del nuovo, del possibile, che rende conto della necessità e della possibilità di uscire dal regno dell’identico. È, in fondo il grande tema posto da Winnicott allorché descrive il rifiuto all’omologazione come la sola possibilità di avere una vita che valga la pena di essere vissuta. Ma è anche la chiave, la cifra del racconto. Se il lavoro di Bartleby consiste nel ricopiare, nel riprodurre l’identico nella sua infinita reiterazione; se il mondo tende a fare del soggetto umano una copia di una copia, in una desertificazione simbolica progressiva, la ribellione non soggettiva, non biografizzabile, inesplicabile, non rende conto al medesimo tempo dell’incapacità da parte del mondo della copia di venire a capo di una logica altra, situabile in tutt’altro registro? Di una logica cioè che non intende discutere con la precedente, perché discutere sarebbe ancora riconoscere al mondo a cui ci opponiamo una ragione possibile, un alibi, una via di fuga. Siamo qui invece alla fuoriuscita dallo spazio giudiziario così come lo aveva posto Lyotard ne Il dissidio a proposito dell’impossibile confronto con i negazionisti dell’olocausto. Non c’è discussione che tenga dinanzi a coloro che dicono: «portatemi qualcuno che è sopravvissuto ai forni crematori per dimostrare la vostra tesi». Parimenti, qui, lo spazio del conflitto, della discussione a tesi trova il suo limite. La copia, la proposta di una infinita replica della vita nella sua dimensione burocratica, spersonalizzante, quella che impone a Gregor Samsa di mutarsi in uno scarafaggio per sfuggire all’apparente normalità e al grigiore familiare, non può essere messa in discussione che con la scelta di interrompere il ciclo infernale dell’identico, del non senso, tramite un rifiuto radicale di discutere del senso del rifiuto. Il negativo, il disinvestimento assoluto del vitale come strategia di sopravvivenza al limite,  può essere allora pensato come una paradossale  macchina riflettente degli infiniti no che la vita quotidiana, nella sua distruttiva riduzione dell’umano, produce.

 Deleuze legge allo stesso modo il Bartleby come un vettore di forze, un campo di combattimento fra intenzioni e progetti che nulla hanno a che fare con la vita fantasmatica o biografica del narratore-autore. In tal senso, il Bartleby non è un affare privato, la letteratura è un’immensa fabulazione, e questa fabulazione per Deleuze non consiste, come nel «freudismo riduttivo», nella proiezione di fantasmi soggettivi. Essa è fatta di visioni e audizioni e comunica col «fuori». Il che spinge Deleuze a dire che i filosofi o i letterati ritornano sempre dal paese dei morti. E tuttavia, l’estetica deleuziana si muove contraddittoriamente fra due posizioni: fra l’opzione strutturalista (vedi il campo di forze, i giochi linguistici, la formula, i vettori psicotici ecc.) e il richiamo di una singolarità che non si estingue affatto nella dinamica strutturalista. È per questo che il Bartleby, nonostante tutto, finisce inevitabilmente per oscillare fra la rappresentazione di un concetto (la resistenza, il silenzio come opposizione alla voce paterna, al simbolismo, ecc.) e l’espressione di una condizione umana, quella che si determina ad esempio nella sofferenza di un’esistenza a cui è stata sottratta la possibilità della parola. Da questo punto di vista, il Bartleby che la teoria analitica dovrebbe prendere in carico sarebbe innanzitutto, per evitare di cadere nella psicoanalisi applicata, quella cioè che cerca dei meccanismi psicopatologici nella produzione testuale,  o dei fantasmi soggettivi, il Bartlebydella disintegrazione del senso, del puro rifiuto, lo schiavo delle quantità, per riprendere un noto concetto di De M’Uzan, dove la compulsione di ripetizione prende il sopravvento, il negativo ha la meglio, l’obbligo a seguire determinati comportamenti si esprime al suo massimo grado.  Potremmo anche dire, assumendo il mondo respinto come il mondo caratterizzato dall’obbligo alla copia, cioè dalla perdita di senso della propria esistenza, che questa, nel momento in cui  è l’unica dimensione di vita possibile, non può condurre che allo slegamento, al narcisismo negativo, all’investimento delle capacità negative, alla costruzione reiterata del no, che diventa esso stesso, paradossalmente, una replica infinita, obbligata, necessaria, senza direzione o meta, una copia di una copia.

Non a caso, uno dei trattati che il datore di lavoro legge per comprendere Bartleby riguarda proprio il tema della necessità: Bartleby non può agire diversamente, non può che eseguire una spinta (un mandato?), che lo paralizza, che gli impone il silenzio, la ricerca di una purezza assoluta. Se tace, a parte la pronuncia della celebre formula, mostra senza dubbio la vanità di ogni parola che tenti di razionalizzare, di estinguere la malattia per tornare alle consuete abitudini, chiudendo una volta per sempre col disordine. Ma da dove proviene questa formula? Bartleby ne è l’autore, il possessore, il ricevente, il tramite? Chi gli impone la rottura radicale con la trasmissione (Bartleby è, lo ricordo, un copista), nell’impossibilità di creare una sua modulazione personale? Bartleby è costretto ad un no radicale in assenza di un suo, personale, no. E come potrebbe del resto essere personale un ritornello, una formula che si ripete nella sua pura identità, senza variazioni, toni affettivi, trasformazioni? Il che rende quanto meno dubbia l’esegesi rivoluzionaria o l’indicazione politica di tale gesto, nella sottovalutazione della dimensione melanconica della celebre formula. O almeno, e da un punto di vista psicoanalitico: la rottura del discorso, dei codici stabiliti, dei sistemi di affiliazione, può far dimenticare che questo processo si esercita malgrado un soggetto, a sua insaputa, «sotto dettatura» di forze a lui sconosciute che lo condurranno alla catastrofe?

Curiosamente, la teoria psicoanalitica si è mostrata particolarmente silenziosa dinanzi al Bartleby. Personalmente, ho trovato solo tre autori che hanno scritto specificamente su di esso: Pontalis, Bollas, e Adam Philips. Il che è oltremodo strano visto che la psicoanalisi ha invece qualcosa di molto specifico da dire sulle valenze, costruttive e destruenti della negazione, e di quella particolare negazione che si realizza nel Bartleby, tale da istituirlo come un essere che non può esistere, o come un’affermazione negativa, per riprendere la definizione che ne ha dato Pontalis. E allora, proprio partendo dagli assunti psicoanalitici, che ruolo potremmo dare a questa copia in negativo, al ritornello del «preferirei di no»? Un ritornello, e per di più un ritornello che spinge il soggetto alla resistenza estrema, alla morte, istituisce difatti una zona di intrattabilità resistente al senso, alla comprensione, una traccia del negativo che si oppone ad ogni sforzo ermeneutico, rendendo dunque vano il lavoro analitico, esponendolo alla reiterazione di un fallimento.  

Il ritornello, avevano osservato Deleuze e Guattari, è capace in quanto tale di creare nuovi mondi e non solo di essere l’epigono o la traccia di risvolti biografici individuali: «è un prisma, un cristallo di spazio-tempo. Esso agisce su ciò che lo circonda, suono o luce, per trarne vibrazioni di vario tipo, decomposizioni, proiezioni e trasformazioni. Il ritornello ha inoltre una funzione catalitica: non soltanto aumentare la velocità degli scambi e reazioni in ciò che lo circonda, ma assicurare interazioni indirette fra elementi privi dell’affinità detta naturale e formare così delle masse organizzate» (Deleuze e Guattari, 1997: 65). Implica che il «procedimento» – mi riferisco, evidentemente a «Louis Wolfson o il procedimento» in Deleuze (1996b) –messo in piedi da Bartleby, la sua formula linguistica, sia un operatore che trascende lo spazio familiare per pensare le categorie–mondo. Il «preferirei» di no diventa dunque un dispositivo capace di modulare nuove relazioni, scomporre quelle esistenti, attrarre a sé forze e desideri, annullando i tentativi di rimettere ordine, causalità, senso, ricomposizione del linguaggio e del mondo.  Trovo qui, fra l’altro, una singolare assonanza con la lettura che ne ha fatto Adam Philips (2010), quando osserva la natura anoressica di Bartleby e la sua straordinaria capacità di modificare l’ambiente, allo stesso modo degli anoressici, i quali fanno in modo che la famiglia che ne deriva sia una composizione del tutto nuova, fatta di gente orribile che pensa solo a mangiare e ad ingozzare un corpo che dice no. Per cui, il «preferirei di no» è, si potrebbe dire, «una versione sofisticata del paradigma freudiano estetico/emotivo del giudizio di attribuzione, come è espresso nel saggio sulla Negazione. È il rigetto, l’espulsione di qualche cosa» (Philips, 2010: 251). In questa lettura, l’origine, il mondo che causerebbe l’anoressia, e la rivolta al ciclo deumanizzante della nutrizione anaffettiva, appare piuttosto il risultato di una trasformazione data dagli effetti del sintomo sull’ambiente, il frutto di un atto che scompagina e riplasma le linee di forza e di desiderio fino ad allora istituite. Nell’osservazione di Philips, secondo cui i sintomi devono essere considerati come delle esperienze di vita, è contenuta un’ulteriore riflessione relativa alle modalità di esistenza di un terapeuta rispetto alla posizione anoressica, e di anoressia si può ben parlare nel caso di Bartleby, mangiatore unicamente di biscotti allo zenzero. In altri termini, si chiede Philips (2010: 261) con pertinenza, «quale versione, quale parte di sé si sente costretti a sconfessare dinanzi ad un paziente? Quale parte di sé bisogna sacrificare, da quale parte si deve desolidarizzare per poter sostenere, in apparenza, una relazione con questa persona?» Detto in altri termini, cosa bisogna eliminare, scartare, allontanare, del soggetto che siamo, per entrare davvero in relazione con colui o colei che preferisce di no, che si rivolta alla naturalità dei bisogni, che si nutre solo di zenzero? Come possiamo davvero riconoscere la necessità di una rivolta che si condanna alla morte?

È per questo che non vi è una riposta chiara al «preferisco di no»: dovremmo, come lettori, o come terapeuti, sostenere la sua scelta, insistere per modificarla, elogiarla, eluderla? Evidentemente, in questa impossibilità di risposta, in questa dialettica mortale fra fame e fame non soddisfatta, perché ogni sazietà, ogni positività disturberebbe l’appetito, mettendolo a tacere, dichiarando la fine del conflitto, la pace perpetua, l’oblio e il perdono, si situa tutta la questione dell’intrattabilità del Bartleby. Il «preferisco di no» diventa il segno di una rivolta in cui ogni scelta sarebbe un tradimento, la negazione del bisogno di opporsi al mondo senza senso a cui, per sfuggire radicalmente, sembra che non vi sia altra soluzione che dichiarare la fine del senso, di ogni senso. L’intrattabilità del Bartleby, l’impossibilità di dare ad esso una risposta e una lettura tale da sciogliere il suo enigma, permette di scorgere così il sogno appena occultato di tutto ciò che resiste alla possibilità della vita, al suo invito: la meta di una purezza radicale, da raggiungere nella cancellazione della vita stessa. La purezza della morte espelle ogni traccia dell’altro, e iscrive, in questo gesto di rifiuto totale, le coordinate per immaginare di potere ancora una volta, almeno una volta, per sempre, rientrare in un sé incontaminato, in un sé prima della storia, di ogni storia.

Abstract

Winnicott ha osservato che solo il rifiuto dell’omologazione rende possibile avere una vita che valga la pena di essere vissuta. Il tema del rifiuto, della ribellione al mondo dell’identico, della copia, è la cifra del racconto di Melville, Bartleby lo scrivano. Se il lavoro di Bartleby consiste nel ricopiare, nel riprodurre l’identico nella sua infinita reiterazione, se il mondo tende a fare del soggetto umano una copia di una copia, in una desertificazione simbolica progressiva, la ribellione non soggettiva, non biografizzabile, inesplicabile, del Bartleby impedisce forse di trattare la rivolta come un gesto occasionale, individualizzabile, e dunque una messa sullo sfondo delle ragioni strutturali della rivolta.

Bibliografia

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Kristeva, Julia,(1996), Senso e non senso della rivolta, Paris, Fayard.

Nota

(1)Pubblicato in Compàs d’amalgama, 2021, 3


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