Il Potere del cane
di Thomas Savage (Beat BEAT Bestseller, 2018)
A cura di Barbara Giorgi
Parole chiave: #violenza, #inconscio, #omosessualità
“L’arte costiuisce un regno intermedio
tra la realtà che frustra i desideri
e il mondo della fantasia che li appaga”
Sigmund Freud
Il potere del cane è un libro bellissimo. Dall’incipit iniziale:
“Era sempre Phil ad accuparsi della castrazione”,
fino alle ultime pagine:
“Lo sguardo gli cadde sul Book of Common Prayer … fu spinto a bisbigliare il versetto dei salmi che poche ore prima lo aveva tanto commosso: Libera l’anima mia dalla spada e il mio amore dal potere del cane”,
ci si sente davvero catturati da questo romanzo, bello nella descrizione dei personaggi, spietato nella trama, coinvolgente per la sua verità e crudezza.
Ho cominciato la lettura quasi per caso, incuriosita da alcune note biografiche di Thomas Savage, scrittore americano del novecento, autore di tredici romanzi praticamente tutti a sfondo biografico.
Il gesto artistico della scrittura permette spesso, a chi scrive, di utilizzare la propria storia personale come un materiale grezzo sul quale, attraverso forme più o meno cammuffate, costruire una storia. Ricordo con piacere una brava professoressa, incontrata nel corso dei miei studi, che diceva sempre: “per capire bene un’opera letteraria, come una teoria psicoanalitica, bisogna partire dalla biografia del suo autore.”
Cucendo insieme personaggi, ricordi ed esperienze della propria vita, con “Il potere del cane” Savage ci offre davvero una storia capace di superare la realtà e di appagare le sue fantasie infantili. Il risultato è prezioso, raggiunge l’obiettivo di dare un senso ai fatti della vita, trasformando i sentimenti più terribli, come l’odio, l’invidia, la gelosia, in qualche cosa che può essere rappresentato e, quindi, pensato.
Siamo nel Montana, nei primi anni ’90. I “vecchi” coniugi Burbank hanno deciso di trascorrere “l’autunno della vita” in una suite del migliore albergo di Salt Lake City (per inciso, nel 1915 proprio qua nasce Thomas Savage), mentre i due fratelli Burbank, Phil e George, vivono al ranch, dormendo nella stessa stanza da quando erano ragazzi.
“Phil era uno brillante, George uno sgobbone (…) Era insolito trovare un legame così tra fratelli, Phil alto e spigoloso, che con gli occhi azzurro cielo guardava lontano e scrutava il terreno cicostante; George corpulento ed imperturbabile, che gli trottava al fianco su un baio anch’esso corpulento e imperturbabile.”
Diversi in tutto questi due fratelli:
“George si faceva il bagno una volta alla settimana, scompariva dietro la porta ancora vestito di tutto punto e la chiudeva a chiave (…) Phil non usava mai la vasca, non gli piaceva far sapere quando faceva il bagno. Una volta al mese andava a lavarsi in una pozza profonda del ruscello (…) Nessuno dei due fratelli si era mai mostrato nudo all’altro; la sera, prima di spogliarsi, spegnevano la luce elettrica, la prima di tutta la valle”;
la loro vita al ranch è aspra, ruvida, molto maschile. E’ un mondo fatto di mandrie e mandriani, fucili e recinti. Il lavoro è duro, c’è la castrazione delle bestie, la marchiatura, ci sono i manzi da condurre ogni autunno per venticinque miglia fino ai recinti di Beech, ci sono gli indiani (“Phil non aveva una visione romantica degli indiani”), i cavalli da domare, la legna da tagliare.
Inutile sottolineare che il paesaggio intorno al ranch dei Burbank è bellissimo, con la sua scrittura Savage lo spoglia dal semplice ruolo di sottofondo del romanzo e lo rende capace di scandire i ritmi della vita, di modellare il carattere dei personaggi. Così, l’alba diventa un’esperienza spirituale:
“Catturati dalla malia del buio e dalla spiritualità dell’alba, che riporta gli uomini a se stessi, i mandriani e i due fratelli restavano in silenzio (…) Il sole che sorgeva oltre le colline mostrava un mondo così vasto e ostile alle speranze future che i giovani mandriani si aggrappavano ai ricordi di casa: la cucina con la stufa, la voce della madre (…) Poi il sole saliva più in alto sopra le colline, e un nuovo tepore nutriva le speranze, e loro prendevano a parlare …”
Lo stesso titolo del libro, tratto dai Salmi, è rappresentato da un dettaglio del paesaggio, le rocce della collina di fronte al ranch, dettaglio centrale attorno al quale si snoda l’intera trama.
“Nelle macchie di cespugli che deturpavano il pendio come acne, vedeva la forma sconcertante di un cane in corsa. Le snelle zampe posteriori lanciavano avanti le spalle poderose; il muso era abbassato all’inseguimento di qualche cosa, una creatura spaventata – magari – che scappava tra gli anfratti e le ombre delle colline a nord. Ma Phil non aveva dubbi sull’esito dell’inseguimento, il cane si sarebbe impossessato della preda (…) Così viveva Phil – osservava, notava, deduceva – mentre il resto di noi vede e dimentica.”
Ma il mondo che Savage descrive non è solo il vecchio e selvaggio west, è il mondo della sua infanzia, cresciuto per i primi suoi vent’anni in un ranch del Montana con il nome di Tom Brenner, nome scelto per lui dalla madre dopo il suo divorzio dal padre di Thomas.
Brenner, il patrigno, era un ricco allevatore di bovini, e il ranch, proprio come quello dei fratelli Burbank, non solo era l’unico ad avere l’elettricità, ma, grazie al prestigio della famiglia, i Brenner godevano di una certo lusso e mangiavano buon cibo. Come i Burbank:
“C’era uno schema invariabile per la carne: i tagli comparivano in tavola secondo una sequenza fissa che a un occhio attento rivelava con assoluta precisione quando era stata macellata l’ultima vacca.”
In questa atmosfera rurale e mascolina scorre la vita al ranch dei due fratelli, fino a quando George decide di sposare Rose, vedova del dottor Johnny Gordon, morto suicida qualche tempo prima. Ma i destini di Rose e George erano, a loro insaputa, già intrecciati prima che loro due si incontrassero:
“Se Johnny avesse rivelato alla moglie chi era stato a prenderlo per la camicia e a lanciarlo contro la parete come uno straccio ritorto, Rose non avrebbe mai accettato George Burbank. Ma Johnny non lo aveva fatto, perché quando si nomina un uomo gli si dà anche un volto, e l’umiliazione era più facile da sopportare se l’uomo rimaneva senza volto.”
Rose va quindi a vivere al ranch e George diventa patrigno di Peter, il figlio sedicenne di Rose.
“So bene di essere un patrigno. Credo che un patrigno debba sforzarsi un po’ di più di un padre. Credo che un ragazzo non abbia motivo di farsi piacere un patrigno, a meno che quello non si dia un po’ da fare.”
Con il personaggio di George Burbank Savage può così esprimere le sue fantasie verso il suo reale patrigno, il sig. Brenner, racchiudendo in lui anche i suoi vissuti verso quel nome, Tom Brenner, che Savage ha portato per buona parte della sua vita, intraprendendo, dopo l’uscita del suo primo romanzo, un lungo percorso burocratico per riapropriarsi del nome di battesimo.
Non svelerò altro della trama di questo romanzo, una trama intrecciata con fili di segreti familiari, identità e nomi cambiati, lutti, famiglie complesse. Anche Phil Burbank è la trasformazione narrativa di uno zio di Savage, uomo da lui profondamente odiato. Intelligente e colto, sprezzante nei modi, Phil è prepotente, ama fare arrabbiare la gente, chiama “femminuccia” Peter ma si paralizza al tocco della mano di quest’ultimo:
“E la mano del ragazzo rimase dov’era (…) In quel momento Phil, in quel posto che aveva gli odori degli anni passati, sentì in gola quello che aveva sentito già una volta e che non si aspettava né intendeva sentire di nuovo, perché poi, quando lo si perde, il cuore ti si spezza”.
Ancora, come non pensare al terribile rapporto tra questo zio e la madre di Savage quando Rose suona il piano:
“sedette al piano e cominciò a suonare ma, mentre seguiva con orecchio critico la propria esecuzione, udì un altro suono, quello del bajo di Phil, e allora capì che quando lei si esercitava anche lui si metteva a suonare (…) Un brivido le salì fino alla nuca. Phil suonava esattamente quello che suonava lei. E meglio.”
Se Phil è il personaggio centrale del romanzo, è grazie a Peter Gordon, deriso, e, nello stesso tempo, ammirato da Phil, Savage riesce a dare forma agli aspetti più distruttivi e sadici:
“Guardò Peter posare la mano sulla testa del coniglio, calmarlo e con un gesto improvviso torcergli il collo con una destrezza tale che Phil non potè fare a meno di rimanere ammirato. Non aveva mai visto una cosa simile.”
Peter, il ragazzo geniale che ha ereditato dal padre medico la straordinaria capacità per le diagnosi, che costruisce fiori di carta, attraverso di lui Savage introduce anche il tema della gentilezza, altro filo della trama:
“Tu devi essere gentile, devi essere gentile. Credo che l’uomo che diventerai potrebbe ferire terribilmente gli altri, perché tu sei forte. Tu capisci la gentilezza, Peter?
Non ne sono sicuro padre.
Bene, allora. Essere gentili significa cercare di eliminare gli ostacoli che si trovano davanti a quelli che amiamo o che hanno bisogno di noi.
Capisco.”
In queste brevi frasi è racchiuso l’epilogo della storia, che non svelerò, assolutamente straordinario nella capacità di Savage di realizzare l’appagamento di una sua fantasia infantile, consegnando al lettore un finale sorprendente.
Tra le righe di tutto il racconto si respira la particolare sensibilità di Thomas Savage per i silenzi: silenzioso è il rapporto tra i due fratelli (“Il loro rapporto non si basava sulle parole); silenzioso è George (“Il suo silenzio faceva sentire in colpa gli altri, e impediva di annegare il senso di colpa in un moto di rabbia”); silenzioso è il ranch: (“La casa di tronchi era refrattaria alla parola umana”). I silenzi di Savage sono rumorosi, si fanno sentire, un po’ come il paesaggio, determinano in parte la storia stessa.
Attualissimo è anche il tema dell’alcool, nella sua capacità di ingannare (“E’ una medicina”) e illudere le persone (“A volte, quando beveva, Johnny si sentiva uguale ai grandi rancher: loro avevano i soldi, lui aveva l’istruzione”).
Come un alito di vento che attraversa ogni pagina, presente e mai esplicitata, l’omosessualità di Phil è espressa dal personaggio di Bronco Henry, anche lui mai veramente descritto, desiderato, idealizzato e perso.
Del resto, lo stesso Savage vivrà con un uomo solo negli ultimi anni della sua vita, dopo la morte della moglie Elizabeth, anche lei scrittrice.
Una bella storia. E le belle storie sono importanti.
“Sapeva che il bambino aveva bisogno di storie – erano un nutrimento per crescere, il filo per tessere i sogni”.
Buona lettura.