Cultura e Società

“Il pensiero affettivo” di Bompiani e Thanopulos. Recensione di F. Ciaramelli

26/09/24
Il pensiero affettivo e il lutto originario del punto di Archimede di F.CIARAMELLI

JULIETTE MINCHIN, 2024

Parole chiave: Psicoanalisi, Filosofia, Legame, Desiderio

Il pensiero affettivo e il lutto originario del punto di Archimede.

Fabio Ciaramelli

Nato da uno scambio di lettere tra due amici, Il pensiero affettivo (Feltrinelli 2024, 123 pp., 17 Euro) è un libro scoppiettante e molto ben strutturato, scritto a quattro mani da Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos, che discutono approfonditamente del rapporto tra affetto (o desiderio) e pensiero. Sennonché, il loro dialogo, prima di essere un contributo teorico, è un esercizio di amicizia e una riflessione su di essa in quanto “reconnaissance de l’étrangeté commune” (Maurice Blanchot). Infatti, come osserva Bompiani in un’assai opportuna nota introduttiva, uno dei pregi dell’amicizia non è la somiglianza (né tantomeno l’appiattimento reciproco) degli amici, ma l’impegnarsi in una pratica comune che metta insieme “pensiero e affetto, libertà e indipendenza”, camminando insieme “verso una meta nascosta nella foresta”. Tuttavia – e questo emerge con estrema chiarezza dalla lettura del libro – non c’è nessuna meta (pre)destinata a rivelarsi compiutamente alla fine del “palleggio tra amici”, fatto di sondaggi arrischiati, battute d’arresto, ripensamenti, chiarimenti linguistici, cenni alla storia delle idee e delle culture, alla letteratura, alla psicoanalisi. Si tratta invece, citando ancora Blanchot, d’indugiare nell’intervallo “de moi à cet autrui qu’est un ami“, senza la pretesa di annullarlo o sorpassarlo nella conquista d’una unità o coincidenza finale.

L’idea di scrivere insieme il libro è venuta a Thanopulos, mentre si deve a Bompiani la proposta d’esplorare “l’intuizione o l’abbaglio che l’affetto fosse una forma del pensiero”. Nella prospettiva aperta da questa “evidenza apparsa un giorno all’improvviso” – e soprattutto dalle sue divergenti applicazioni – si svolge una lunga sequela di precisazioni e riformulazioni in cui i due interlocutori si dicono chiaramente su che cosa non sono d’accordo, ma subito dopo cercano entrambi di capire il senso vissuto di questo disaccordo, che lentamente, attraverso un qualche supplementare chiarimento dei termini utilizzati e dei loro presupposti, consente di comprendere meglio l’intreccio tra affetto e pensiero, senza necessariamente presumere di teorizzarne la genesi. Cade qui a proposito il riferimento a Kavafis, cioè al viaggio il cui valore non consiste nel raggiungere una meta finale, ma esattamente nel viaggiare e perciò nell’assaporare l’atmosfera dei tanti paesaggi che il viaggio dischiude.

In realtà, proprio dal fatto di attraversare diversi paesaggi emozionali prima che concettuali, ma poi senz’altro anche disciplinari, discendono il fascino e l’unicità del libro, che si configura come un vero e proprio caleidoscopio di immagini e significati diversificati, benché spesso simmetrici. Deriva da qui la sfida che questo libro lancia ad ogni prospettiva o aspettativa dogmatica, destinato com’è a deludere il lettore che volesse trovare in esso quella verità ultima che manca nella realtà e nella vita. Hannah Arendt (in The Human Condition) identificava “la più presuntuosa speranza della speculazione umana” nel “desiderio archimedeo [Archimedean wish]”  di un punto fuori dalla terra per sollevare il mondo.  Il termine che la stessa autrice utilizzò poi nell’edizione tedesca del libro non è Wunsch ma Verlangen, forse per riecheggiare l’espressione Unmögliches verlangen (chiedere l’impossibile). E questo è il punto decisivo: nella richiesta dell’aggancio filosofico all’assoluto c’è una hybris che rifiuta radicalmente di tener conto del limite che né l’affetto né il pensiero potranno mai superare.

Colpisce, tra le riflessioni intrecciate dei due autori, il ruolo decisivo che entrambi riconoscono alle variazioni: non è solo una metafora, ma un modo di spremere il succo significativo ed anche emotivo delle nozioni trattate e delle loro relazioni, mostrando che la variazione in quanto  transizione, sottolineatura e attraversamento di sfumature è più importante delle definizioni oggettivanti, da cui è pur necessario partire. Ma se ci si attiene al contenuto irrigidito di queste ultime –  che più facilmente si lasciano intuire (cioè cogliere in modo immediato e diretto, senza lavorarci su) –  ci si accontenterà di elaborare e contrapporre teorie o visioni del mondo; se invece si entra nello spazio della conversazione, cercando di acquisire ciò che Kant chiamava modo di pensare o mentalità allargata (erweiterte Denkungsart) e che consiste nell’attitudine a mettersi dal punto di vista altrui – tema squisitamente kantiano non a caso molto caro a Hannah Arendt (un’autrice il cui nome ritorna più volte nel libro) –,allora diventa possibile far emergere i punti di contatto e gli stessi accordi che sottendono i disaccordi. Non si tratta di buonismo o di malinteso senso dell’amicizia, ma è invece una conseguenza del fatto che entrando nello spazio della conversazione – cioè attraversando quello che Merleau-Ponty chiamava il “campo delle apparenze” e che contrapponeva alla pretesa metafisica d’un accesso definitivo alla verità dell’essere – diventa possibile accedere a una dimensione non speculativa ma relazionale della verità. Questo radicale superamento della verità assoluta che la tradizione filosofica poneva come meta della conoscenza mi sembra il vero insegnamento di questa riflessione sul “pensiero affettivo”.

In fin dei conti, oltre il campo di apparenze, oltre lo spazio della conversazione, oltre il viaggiare non c’è nessun essere, nessuna verità disvelata, nessuna meta da raggiungere. Ed è proprio questo lutto originario del punto di Archimede che giustifica le osservazioni conclusive di Sarantis Thanopulos sul lutto che “non viene dalla morte” ma è invece “espressione forte della vita”.

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