Cultura e Società

Il negativo della trasmissione fra le generazioni. D. Federici

3/10/24
Il negativo della trasmissione fra le generazioni. D. Federici

SALVADOR DALI, 1937

parole chiave: #trasmissione, #trauma, #generazioni, #transpsichico

IL NEGATIVO DELLA TRASMISSIONE FRA LE GENERAZIONI

di Daniela Federici

“Se i processi psichici di una generazione
non si prolungassero nella generazione successiva,
ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo
il proprio atteggiamento verso l’esistenza,
e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso
e in sostanza nessuna evoluzione”

Freud, Totem e tabù

Nasciamo in un insieme intersoggettivo che ci precede e ci organizza, la nostra origine è segnata da una matrice di investimenti che presenta oggetti, predispone segni di riconoscimento e assegna posti nella filiazione, traccia direzioni tra suggestioni e interdetti, trasmette predisposizioni significanti ed enunciati ideali, apre sui desideri, i sogni irrealizzati, miti, riti, fantasmi e sistemi di difesa di un ambiente che si erediterà per appoggio, incorporazione, introiezione, identificazione.

La differenza fra le generazioni introduce il soggetto nell’ordine della temporalità, della continuità e discontinuità, e il lavoro psichico potrà trasformare queste eredità in un patrimonio personale – per riprendere la famosa frase che Freud amava tanto: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero” (Faust, Goethe). La trasmissione psichica è quindi un’influenza per lo più inconscia che si da in un contesto comunicativo, nella ‘reciprocità’ dei suoi spazi trasformativi e nell’inevitabile conflitto fra appartenenze e autonomia.

L’eredità non è mai un dato, è sempre un compito (Derrida).

Ma essa passa anche attraverso i suoi difetti, lasciti che mancano di iscrizione e rappresentazione, modalità esproprianti del negativo che sono espressione di una sofferenza familiare capace di trasferire sui figli premonizioni o traumi non elaborati che si organizzano nel loro psichismo come una delega abusiva. Quando c’è un’esigenza narcisistica patologica genitoriale, il mandato familiare di contenere ed elaborare può essere invertito: invece di farsi garante per il figlio del valore di esplorazione e ricerca della propria verità psichica, lo si assoggetta a un’esportazione e al deposito di ciò che in sé è rimasto privo di metabolizzazione o è stato espulso, amputandone in questo modo la soggettività. A prevalere è una relazione di potere, un investimento che mira a neutralizzare ogni confine e alterità, con modalità proiettive massicce che operano da inconscio a inconscio e possono bypassare e compromettere le funzioni regolative dell’apparato mentale altrui. Questo fa parlare di trans-generazionale, per differenziarlo dalla trasmissione intergenerazionale che implica il riconoscimento della separatezza e lo spazio di una ripresa trasformatrice.

Un traumatismo originario, che riguardi il soggetto anteriormente al costituirsi della sua esperienza affettiva e mnemonica, richiama l’espressione reminiscenze, con cui Freud alludeva alla necessità di comprendere un al di là del ricordo: la reminiscenza è infatti un ricordo tagliato alla radice, senza origini proprie per chi ne patisce i tormenti nel presente.

In questa accezione il fantasma è una formazione dell’inconscio dinamico installato nel soggetto non per una rimozione personale ma per l’assunzione di contenuti scissi che provengono e sono stati rimossi dall’inconscio dell’altro.

Queste identificazioni alienanti risultano quindi prive di una coscienza di sé per il soggetto, creando la condizione paradossale di un vuoto ostruttivo e di un troppo pieno di elementi inesistenti ma persistenti proprio perché mancanti di simbolizzazione. Come la faccia in ombra della transizionalità, questa sorta di corpi estranei possono parassitare lo psichismo imprigionandolo in una temporalità circolare e ripetitiva di assilli, fobie, ossessioni, bloccandone la sua dimensione immaginaria verso il futuro e il divenire.

Si tratta di aree mute che possono essere intraviste solo in momenti privilegiati del transfert, effetto di una costruzione che sgorga dal lavoro sul fantasma ascoltato analiticamente a partire da qualcosa che manca nella tessitura del racconto, che odora di segreto e bizzarro, che spande un sentimento di inquietante estraneità. Ma prima che si crei la possibilità di queste illuminazioni, la terapia necessita di un lungo lavoro preliminare per comporre le lacerazioni dello spazio psichico. Il recupero – ma soprattutto la risignificazione – di questi testi mutilati e lacunosi, richiede la negoziazione attenta di una duplice necessità: da una parte preservare l’unione con la continuità familiare in cui si sono generati, che è necessaria al sostentamento dell’identità del paziente, e dall’altra supportare l’esigenza di affrancarsi da questo legato[1] per fare emergere ciò che è più autentico dentro di sé (Abraham e Torok, 1987; Faimberg, 2006).

Occorrerà un lento processo di disidentificazione dai patti denegativi (Kaes, 2009), alleanze inconsce che pur non venendo formulate esplicitamente, si organizzano intorno a un divieto di sapere che si oppone al crearsi di rappresentazioni mentali, un clima relazionale dove questa ‘insignificabilità’ lascia come unico segno un alone che non può essere pensato ma solo vissuto, con emozioni intense ma aliene al contesto, che creano confusione e incertezza.

Sono sensazioni che possono colonizzare anche la mente dell’analista, che avrà il suo daffare a mantenersi emotivamente vivo e pensante nonostante questi funzionamenti deformanti. Sarà proprio la fatica di rinunciare a chiavi di lettura consuete e di accettare l’angoscia di non sapere, che darà spazio a ciò che oscuramente organizza la storia del paziente e all’emergere di significati inattesi.

L’invisibile non è la negazione del visibile:

è in esso, lo abita, è il suo orizzonte e il suo inizio

Pontalis, Perdere di vista

A offrire alcuni spunti di riflessione sui guasti di ciò che viene trasmesso e assunto dei lasciti che legano fra loro le generazioni, un intenso racconto di Shira Nayman: Oscure pulsioni del sangue[2], in cui si evidenziano molto bene, anche all’interno di una relazione terapeutica, il portato dei lutti sospesi, dei segreti che diventano ossessioni, dei modi di funzionamento in cui la necessità prende il posto della libertà creativa.

La protagonista e voce narrante, Deborah, è una psichiatra in procinto di incontrare una giovane madre ebrea cassidica, Dvorah, ricoverata per una depressione psicotica post-partum dopo il suo settimo figlio.

Deborah sente subito passare un riconoscimento fra loro e si dice:«ho imparato che questi sono i pazienti che posso aiutare di più, anche se a farne le spese è la mia tranquillità interiore». Le torna alla memoria un paziente dei tempi dell’internato con il quale aveva sentito un analogo ‘contatto’, che dal suo isolamento le aveva richiamato sensazioni remote di un proprio buio voraginoso: come se «nel luogo in cui si trovava – insidioso oltre ogni immaginazione – ci fossi stata anch’io, forse in un’altra vita, forse in sogno; che da quel luogo io fossi fuggita, e quindi, in qualche modo, avrei potuto aiutare anche lui a spezzare le catene». Era stata quell’esperienza a convincerla a scegliere psichiatria, e negli anni di pratica che erano seguiti Deborah aveva imparato a impiegare le proprie maree emotive a servizio della sua funzione.

Ma quelle sponde salde ora non paiono funzionare. Nel succedersi delle sedute con Dvorah il dialogo va assumendo un’intensità perturbante intorno al dire-non-dire su una misteriosa uniforme che dovrebbe proteggerla, sul fratello del padre – mai conosciuto – che viene a trovarla nella sua testa e la induce a non occuparsi del suo neonato. La paziente lamenta che “non solo le colpe dei padri ricadono sui figli, ma anche le loro sofferenze”, e provoca la psichiatra, l’accusa, la convoca nei suoi ragionamenti come se conoscesse la sua storia, come ne fosse il complemento.

Deborah è cauta, riflessiva, segue quei pensieri in spirali vertiginose, disorientata dai bruschi scarti della sua paziente fra lucidità e un delirare sinistro e ostile. Si sente ingaggiata dalla forza di quel bisogno di interpretare dei resti non tradotti, come se la mente di Dvorah fosse ingombrata da un eccesso di traumatismi, impensati che risuonano dei racconti terrifici che il padre le faceva quando era molto piccola. L’ascolta pensando che quelle farneticazioni siano un tentativo di addomesticare in sé le immagini angosciose della fanciullezza paterna sotto la persecuzione nazista, prima della fuga in America: «Quello che dice contiene un indizio; lo intuisco, lo sento palpitare da qualche parte nelle sue parole. Ma non riesco a portarlo allo scoperto».

Via via che affiorano connessioni fra quei tormentati frammenti, Deborah percepisce un infragilirsi del senso di realtà: «il confine fra ciò che è sensato e ciò che non lo è diventa ancora più difficile da distinguere. La follia sembra meno folle; e quando appare ragionevole, tutto ciò che dice è ambiguo, pieno di doppi sensi e intriso di premonizioni».

L’Autrice tesse una costruzione piena di pathos intorno all’assillo del lavoro del fantasma, alla mescola di incongruità, buchi e opacità iperdense, all’impotenza dolorosa del non comprendere e al potere di penetrazione e contagio alienante di questi elementi. Affacciarsi a quelle tenebre con la vertigine di esserne risucchiata, riempie infatti la psichiatra di inquietudini e dubbi che ciò che tormenta la sua paziente sia qualcosa che la riguarda.

«Ho la terribile sensazione di non essere io ad accompagnare Dvorah in reparto, a rinchiuderla in un mondo circoscritto di protezione e sorveglianza coatta; è lei che accompagna me: sarò io che mi ritroverò privata della mia libertà e costretta a non fare altro che affrontare i miei demoni da mattina a sera. (…) Sento che mi si è insinuata sotto la pelle e sta frugando un mio spazio interiore di cui non conoscevo neanche l’esistenza».

Quella storia così ipnotica si tramuta lentamente in una specularità che la interroga su ciò che ignora di sé, sulle tessere dei racconti familiari che le risuonano vuote da sempre, un’ingiunzione a ‘non chiedere’ che è sempre regnata in casa sua e che ora ha bisogno di oltrepassare per sapere chi è.

Decide di parlare con il padre, della cui storia di ebreo rifugiato non sa quasi nulla. Per l’uomo è una riemersione traumatica quella che cerca di dare risposta al disagio della figlia, un passato tratto da un buio lontano e straziante: le sue origini appartengono a un sé che, arrivato nel Nuovo Mondo, ha cercato di far valere la pretesa di non avere più memoria. “Quello che ero prima… dovevo seppellirlo, dovevo andare avanti e diventare quello che volevo diventare”.

“Un dire sepolto di un genitore diventa nel bambino un morto senza sepoltura”, scrivono Abraham e Torok (1987, p. 290n).

Il finale del racconto, che non svelo per lasciarne il gusto, merita come tutto l’intreccio, che rende meravigliosamente l’embricarsi fra iscrizione e attività fantasmatica a costruire la nostra identità. Ma soprattutto evidenzia con sapienza la tensione inesausta che anima gli inespressi, la “necessità” di simbolizzazione, l’insistenza della produzione psichica sui messaggi enigmatici. Più del latte, la psiche richiede senso, sostiene Castoriadis (1993), e la domanda sull’origine è domanda sul senso nella dimensione temporale.

La ricerca auto-storicizzante dello psichico ha l’esigenza di colmare le lacune e dare coerenza al proprio universo, una ricerca di verità che vuole indovinare i segreti, svelare le menzogne, elaborare l’indicibile, per appropriarsene ed espandere le proprie “capacità di tessere legami associativi, gettare ponti fra le diverse esperienze” (Balsamo 2014, p. 816). Ma il racconto mostra anche l’urgenza che si può avere di negare la propria storia per ricostruirla in una foggia emotivamente sostenibile, la forza delle scissioni e lo spossessamento delle identificazioni proiettive.

L’accostamento delle due vicende di trasmissione padri-figlie consente anche di confrontare le differenze di portata di questi meccanismi: il grado di intrusione del fantasma, delle risorse difensive e dello spazio elaborativo per disidentificarsi, il margine di lavorabilità del trauma nei padri oltre che nelle figlie. Per parafrasare Winnicott: ci sono bambini che qualcuno ha potuto raccogliere dopo che sono stati lasciati cadere e altri che sono rimasti a terra, e questo comporta opportunità molto diverse per lo psichismo adulto. La stessa ‘lotta’ fra Deborah e Dvorah fa risaltare l’irriducibile bisogno di un altro per sostenere l’essere, per condursi verso il senso, per riparare le ferite.

Occorre essere stati identificati per potersi identificare, diceva Laplanche. Così come occorre essere stati contenuti per poter contenere.

Il finale evidenzia dolorosamente anche l’irreparabilità delle catastrofi psichiche e il pericolo legato al riapparire di ciò che era stato scisso. I sistemi per imbrigliare la sofferenza del traumatico possono essere un’autoriparazione o veri e propri funzionamenti di sopravvivenza contro la morte psichica: è necessario che la relazione terapeutica funzioni prima di tutto da nuovo sistema paraeccitatorio, perché la parola che porta un senso sull’indicibile è un’effrazione che rinnova il trauma.

Un altro aspetto che interroga l’eredità, fra il troppo di un traumatico invasivo per la mente inerme di Dvorah bambina e il vuoto di ciò che è mancato nel racconto familiare di Deborah, è se sia meglio l’eredità che si consegna o quella che custodisce in sé i propri segreti. L’essere umano ha diritto alla propria preistoria, senza la quale il sentimento di identità non può veramente svilupparsi. Ma il rispetto delle reticenze e la possibilità di scelta, l’attesa dei tempi e delle condizioni per un’elaborabilità, sono una questione molto delicata.

La migliore rappresentazione di questo tema – etico oltre che tecnico – l’ho trovata espressa nello splendido film “La donna che canta” di Denis Villeneuve (Canada-Francia, 2010). Tratto da una pièce teatrale, racconta di una donna che alla sua morte affida a ciascuno dei due figli gemelli una lettera con il compito di trovare il padre che pensavano morto e il fratello di cui non sapevano l’esistenza, un viaggio alla ricerca della storia che li ha preceduti che li porterà nella terra d’origine della madre davanti a una verità impensabile. Resa con una drammaticità che lascia il segno, è un’altra perfetta raffigurazione delle fratture in cui si incorre nella ricerca di certe verità sepolte.

Se da una parte è fondamentale “non forzare la barriera protettiva di un’identità che, sebbene appaia incompleta, non è meno indispensabile a colui che l’ha costruita”(de Mijolla, 2004, p. 88), dall’altra sappiamo che è solo la modificazione di queste scissioni alienanti che potrà finalmente ristabilire la storia nella sua qualità di passato, permettendo di uscire dal muto governo dell’inconscio e liberare il desiderio.

“Forse ci sono tombe che bisogna scavare

perché i vivi possano continuare a vivere”.

Shira Nayman, Risvegli nel buio

Un’altra storia che mostra molto bene le predazioni di lasciti intrusivi e spossessanti, che pur con ‘buone intenzioni’ inciampano la soggettivazione dei figli sequestrandone l’esistenza in un senso di predestinazione, viene dal film “Il canto di Paloma” di Claudia Llosa (Spagna-Perù, 2009), che vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Il titolo originale “La teta asustada”significa la mammella spaventata. È una pellicola piena di richiami simbolici, che pur nella drammaticità del tema, riesce a modulare con sorprendente leggerezza di tatto dimensioni emotive e intimità davvero toccanti.

Siamo in Perù, a una trentina d’anni di distanza dalle atrocità della ‘guerra civile’ che la incendiò a partire dagli anni ’80[3]. Il film si apre con il canto di una donna che racconta la sua storia di vittima, dei soldati che le avevano ammazzato il marito e l’avevano stuprata mentre era incinta, del suo desiderio di essere morta anch’essa. Canta, alla figlia che la sta assistendo, come lei abbia visto quella violenza da dentro il suo ventre, di come sia stata messa al mondo nella rabbia e nutrita con il latte della paura.

Fausta, la giovane protagonista che ascolta quel cantilenare da sempre, le risponde a sua volta con una nenia, rimandandole come ogni volta che ricorda e piange, si sporchi di lacrime e pena, che vorrebbe poter fare qualcosa per farla star meglio. La madre le chiede di continuare a cantare per lei, per innaffiare la sua memoria che si sta seccando. Ma sarà l’ultima nenia fra loro perché la madre spira.

Il muto sperdimento di Fausta, che si intende aver vissuto adesa alla madre in una sorta di coppia narcisistica, è in forte contrasto con il chiassoso ambiente che ha intorno: mentre lei vorrebbe dare alla madre una sepoltura degna, nella famiglia dello zio materno sono tutti presi dalle prossime nozze della figlia. Proprio per l’indisponibilità dello zio del denaro per seppellire la sorella, Fausta si costringe a uscire dal bozzolo in cui è rinchiusa e andare a servizio nella villa di una pianista. Un affacciarsi spaurito al mondo che viene reso anche visivamente dalla regista.

La giovane, priva di autonomie e facilmente soggetta a crisi d’angoscia, durante uno dei suoi consueti svenimenti viene portata in ospedale dove un medico rimarca allo zio le preoccupazioni per la sua condizione: Fausta ha da tempo una patata in vagina che germoglia e le porta infezioni. Pensato come un modo per contrastare nascite indesiderate, la giovane lo rivela come rimedio che le era stato messo per evitare che avesse a subire la stessa violenza della madre. L’imbarazzo dello zio, che ribatte come i tempi siano cambiati da allora, si infrange contro il tempo fermo nella mente di Fausta. È infatti una sorta di temporalità d’oltretomba quella che vive la giovane, che continua a cullare il corpo in disfacimento della madre, unto dalle donne della famiglia e fasciato in un sudario, nascosto poi sotto il letto dove la cugina ha steso il suo abito nuziale: una vita che va avanti nascondendo i lutti sospesi.

Alla villa intanto, a osservarla da distanza intendendone spaventi e coartazioni, c’è un giardiniere, bella metafora di qualcuno impegnato a far crescere ciò che è vivo. Le parla di come si possa leggere tutto nelle piante, di come i fiori dicano quello che non si riesce a dire con le parole e del bisogno della terra di essere ‘ri-mossa’. Quella stessa terra cui la destina la leggenda, perché chi è nato con il latte della paura si dice sia ‘senz’anima’, fuggita nella terra (come un tubero) per mettersi al sicuro.

Fausta risuona dell’identificazione a un oggetto anti-vitale, quella di Paloma è una maternità traumatizzata e offesa che ha visto amputate le proprie capacità soggettualizzanti, che non è stata in grado di offrire l’appoggio delle illusioni transizionali protettrici ma solo una captazione difensiva che ha spogliato la figlia del desiderio di un rapporto fiducioso con il mondo. Ma ciò nonostante, nel suo intimo la giovane protagonista sembra aver custodito una sensibilità aperta verso le cose, lo si vede nel poetare creativo con cui esprime i suoi pensieri e si consola nelle paure, nel suo piacere per la bellezza, nella scena in cui porta il corpo della madre sulla spiaggia per mostrarle il mare, un invito di speranza a paesaggi diversi per entrambe.

Anche la pianista finisce con il contribuire a un moto individuativo nella protagonista: in crisi creativa, ha tratto dal suo canto la melodia per una composizione che rilancia la sua carriera, ma negando poi a Fausta il riconoscimento promesso, un’ingiustizia che scatenerà la sua ribellione.

La necessità di dare una degna sepoltura alla madre che Fausta “guadagna”, è lo specchio del suo percorso interno: dalla condivisione cieca delle credenze materne, in quel tempo fondativo delle alleanze che blinda ogni altra possibile lettura della realtà, a un tempo angoscioso di apprendistato a un mondo esterno fino a quel momento precluso, specie l’universo maschile. Nel dialogo con lo zio la giovane sostiene la “verità e bontà” delle prescrizioni materne che le assicuravano un’immunità assoluta dai pericoli, che la “normale condizione umana”, fuori da quella grandiosità onnipotente negativa, non può certo garantire. Come ricorda Aulagnier circa le dinamiche profonde degli stati di alienazione “è sempre in nome di una «buona causa» che si aliena il proprio pensiero” (1979, p. 35). Ma poco alla volta Fausta inizia anche a comprendere il sacrificio delle proprie parti vitali che ha mortificato e offerto in pegno a quell’illusoria protezione dalle angosce.

Se nel gruppo familiare c’è un uomo che cerca di esortarla alla vita per averla per sé, suscitando il suo rifiuto, il giardiniere si “lascia usare”, assecondando la sua misura di possibile avvicinamento. Proprio quella postura astinente sembra consentirle di maturare la fiducia di un fuori non sopraffacente cui affidare il desiderio di una soluzione nuova, rendendo così lentamente negoziabile la possibilità di fare il lutto delle illusioni onnipotenti per liberare una vita più piena.

Perché la rinuncia ai patti narcisistici e l’integrazione degli elementi scissi sono un passaggio profondamente minaccioso, oltre che carico della colpa di un tradimento. Nel crescendo d’angoscia che Fausta attraversa una volta fuori dal consueto isolamento, è ben rappresentata la forte resistenza a svincolarsene, per i vantaggi identitari, affettivi e difensivi di quei patti.

La fine di tutto il nostro esplorare

sarà giungere al luogo da cui siamo partiti

e conoscerlo per la prima volta

Attraverso l’ignoto rammemorato cancello

Eliot, Quattro quartetti

Questi percorsi di storicizzazione richiamano la descrizione winnicottiana della paura del crollo, temuto da certi pazienti come attesa angosciosa di una minaccia di effrazione collocata nel futuro, e della necessità che l’analisi arrivi a confrontarli con l’elaborazione integrativa di eventi che, in realtà, sono posti in un non-ricordabile passato da dove sequestrano l’esistenza nell’angoscia di una ripetizione coatta.

“Non sono io a generarti. Sono i morti. / Sono mio padre, il suo, i loro maggiori; / quelli che un lungo dedalo di amori / tracciarono da Adamo e dai deserti / di Caino e d’Abele, in un’aurora / così antica che è ormai mitologia, / per giungere, midollo e sangue, al giorno / del futuro, a quest’ora in cui ti genero. / Ne sento l’affollarsi. Siamo noi / e tra noi tu, sono con te i futuri / figli nati da te. Saranno gli ultimi / e insieme quelli d’Adamo. Ed io sono / essi. L’eternità sta nelle cose / del tempo, nelle sue labili forme” (Borges, Al figlio).

Essere identificati e identificarsi, perché “ogni uomo possiede nella sua attività psichica inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di far recedere le deformazioni che l’altro ha imposto all’espressione dei suoi impulsi emotivi” (Freud, 1912-13, p. 161). Non siamo completamente definibili dalle designazioni dell’altro perché c’è un nocciolo della persona irriducibile a ogni ingiunzione, e al contempo ci animano pulsioni, desideri e un’attività fantasmatica in continuo rimaneggiamento fuori del nostro controllo: la nostra libertà si ferma là dove agisce la predominanza dell’inconscio e la realtà esterna non si piega ai nostri voleri.

La mediazione dell’oggetto innerva la nostra esistenza dalla funzione soggettivizzante che passa attraverso il discorso genitoriale, all’alterità come trazione di crescita, con la sua ricchezza affettiva e la possibilità di nuovi sguardi e acquisizioni. Ma non c’è crescita che non abbia a che fare con movimenti separativi che patiscono una quota di rinuncia agli attaccamenti e all’appartenenza.

Individuarsi è una fatica che espone alle tentazioni di rimanere invischiati in posizioni esistenziali consolidate, a volte perfino in relazioni parassitarie che impediscono di far evolvere una vera cifra personale, fuori da vincoli e lealtà egemoniche esproprianti.

Se le cose sono andate sufficientemente bene, cercare la propria strada significherà stagliarsi da una matrice che avrà costruito i suoi riconoscimenti e le possibilità di ripresa dei suoi resti; altrimenti sarà ben più periglioso il cammino per contrastare il “già scritto” e dischiudere transiti trasformativi al divenire, per far sbocciare i desideri non ancora sorti come tali in un presente arricchito del passato invece che vincolato da esso.

Bibliografia

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[1] Legato è un termine che, oltre a convogliare il significato di un vincolo, in senso giuridico designa la delega a un incarico da svolgersi in base a un patto, in questo caso inconscio.

[2] Il racconto è contenuto nel libro Risvegli nel buio (Boringhieri, 2007). L’Autrice, che ha una laurea in letteratura e un dottorato in psicologia clinica, esercita la professione a New York.

[3] A giugno 2024 un tribunale di Lima ha condannato 10 ex soldati che durante quella guerra civile utilizzavano la violenza sessuale sulle donne come “metodo di intimidazione”. Quegli abusi ripetuti, dai quali erano nati numerosi bambini, erano già stati documentati fin dal 2003 dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione peruviane.

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