Cultura e Società

“Il morso” di S. Lo Iacono. Recensione di D. Federici

30/05/24
"Il morso" di S. Lo Iacono. Recensione di D. Federici 1

IL MORSO

di Simona Lo Iacono (Neri Pozza, 2017)

recensione di Daniela Federici

parole chiave: #rivoluzione, #cambiamento, #vulnerabilità, #desiderio

Se non speri l’insperato,

non lo troverai.

Eraclito

Una prosa incantevole per un romanzo che racconta l’umano proteso alla ricerca di un miglior compimento di sé, al suo rigenerarsi continuo verso un possibile ancora invisibile, una storia intrigante sull’avventura del vivere, con i crocicchi degli incontri e le vulnerabilità alla base delle sue trasformazioni.

Lucia Salvo ha sedici anni quando la madre la manda a servizio dai conti Ramacca per risanare le sorti familiari. La fanciulla lascia Siracusa per Palermo con un fagotto di stracci e un medaglione d’argento a batterle in petto con l’immagine di nonna Manina, donna forte e volitiva che le ha insegnato tutto quello che sa, a leggere, a scrivere e a prendere la vita dal verso giusto, e che prima di morire le ha consegnato una sola eredità: ama.

Lucia si porta dietro la reputazione di ‘babba’, la pazza, nomea che le è stata affibbiata per le oscure crisi convulsive che lei chiama il ‘fatto’.

Il fatto aleggia sulla vita di Lucia come una soglia, un’imminenza sempre pronta a manifestarsi, e lei pure ha finito per considerarlo così: un’ombra che la precede. Col tempo ha anche imparato a coglierne i segnali, i misteriosi anticipi… inizia sempre con un formicolio. Poi una scossa, e la testa artigliata da corvi, mille corvi che rodono in fronte, travasano il male e la battono di destra e di mancina, e Lucia non può che dire: “basta, basta!” ma, mentre lo dice, la prende anche un accesso di vita che deve fuoriuscire dalle orbite, sorpassare la schiuma della bocca. Non allenta il morso, dopo averle beccato capello per capello, e lei li vede allontanarsi che scuotono le ali, spiumate dalla gazzarra, nere come il precipizio in cui la sprofondano. Dopo, la luce prende a invaderla poco per volta. Lucia forza l’udito all’ingresso dei suoni, sente di essere chiamata, di dover rispondere. Non conosce questa altezza da cui deve volare, questa intermittenza che la costringe  a spegnersi. Ha capito che attenderla non serve a fuggirla, non serve a impedirle di tornare e che, forse, è un’illusione anche vigilare. Quando “il fatto” sta per accadere, Lucia bada solo che intorno nessuno la veda, e che, dopo, riassestandosi in un equilibrio nuovo, simile a una nascita recente, non le sfuggano i particolari della giornata, il lavoro che stava facendo. Le parole che stava per dire, l’abito che stava per mettere. Così, ha imparato a riannodare la vita al punto esatto in cui viene spezzata e a evitare che chi la circonda se ne possa accorgere.

L’epilessia è una delle invenzioni letterarie di cui Simona Lo Iacono ha dotato la sua splendida protagonista, che, come le è consueto nei suoi romanzi, è ispirata a una figura realmente esistita che diede il suo contributo alla primavera dei popoli, i moti rivoluzionari del ‘48. La Sicilia di quegli anni è descritta con cura nelle abitudini e nelle ambientazioni, dalla nobiltà opulenta e bigotta, chiusa a proteggere i propri privilegi, a un irresistibile corteo di personaggi dalla vita disadorna.

Fin dall’arrivo a Villa Ramacca ci si trova di fronte a uno scenario che apparecchia i contrasti.

Lucia strabilia innanzi all’arenaria gialla che spande tutto intorno bagliori di sole; e poi innanzi a certe statue che limitano una scalinata tortuosa, a chiocciola, e svettano con teste mostruose o ghignanti. … Che mente mai può avere concepito una struttura così sospesa tra la vita e i mostri? Quale misteriosa affinità avrà mai fiutato tra l’esistenza e la natura sviata, scivolata verso l’imprendibile? … Lucia pensa che l’architetto di Villa Ramacca deve forse avere confidenza col “fatto”, perché nessun altro avrebbe potuto rappresentare quel limite, fragilissimo e oltraggioso, tra normalità e devianza, tra abituale ed eccezionale, tra salute e malattia. Né alcuno avrebbe potuto intuire più compiutamente che la natura produce entrambe, costringendole a convivere nello stesso corpo.

Lucia è una creatura acuta, istintiva, espertissima di tutto ciò che, pur di segno opposto, convive in una sola forma, forse per quella sua malattia che le ha insegnato la rassegnazione a essere preda di un enigma. Forse perché Nonna Manina i contrasti della vita glieli aveva spiegati bene.

lo diceva sempre: quando ricamava e girava la stoffa dal lato sbagliato: “Guarda Luciuzza, guarda che bello tutto questo filo storto che regge la figura giusta dalla parte opposta. Nun tu scurdari”.

“Cosa, nonna, non mi devo scordare?”

“Che i mali punti e i punti buoni vengono tutti dalla stessa mano”.

L’Autrice manda in scena un tempo storico teso fra una tradizione arroccata e il suo sovvertimento, uno sfondo che risulta magistrale a rappresentare anche l’inquietudine del divenire che anima ogni essere umano. Dal desiderio che ci sporge oltre ciò che abbiamo, alle profezie in giacenza dei nostri sogni da realizzare, agli inevasi profondi che insistono al di là della nostra consapevolezza prendendo a morsi l’anima con i suoi condizionamenti, siamo abitati dalla spinta verso un ‘altrove’. Scriveva Leopardi: «questo è il sommo de’ nostri diletti, e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di questo che, per la sua incertezza, non ci può mai appagare».

A Villa Ramacca il Conte figlio spadroneggia fra gli agi e le serve da sottomettere, vorace di un appetito che non sembra neanche di donne, ma di una mancanza maledetta e dolente, una perquisizione dell’anima e della volontà che a volte gli fa intuire una ragione lontana in quelle pretese mai paghe, da figlio riottoso e mal disposto, privato di ciò che pretendeva gli fosse dato come segno d’amore. L’Autrice descrive con maestria quei cambi di registro misteriosi: sono come lampi che lo immettono faccia a faccia con se stesso… Gli era capitato con alcune amanti, poteva bastare un particolare vulnerabile dei loro corpi, e improvvisamente la sua ricerca di piacere si tramutava in necessità di consolazione e conforto, una di quelle tristezze che evadono dal corpo per finire nel cuore.

Una splendida raffigurazione di come un bambino apprenda a spostare la soddisfazione immediata dei desideri materiali al posto dei più profondi e autentici bisogni di contenimento, lasciando in eredità all’adulto che diventa, una brama per il possesso delle cose che non può estinguere la sua fame più profonda.

All’arrivo della nuova servetta, il giovane Conte si chiede se troverà un incontro un po’ meno scontato, qualcuno che per una volta gli sfugga, dandogli l’impressione che la caccia sia vera e che il trofeo abbia capitolato solo per desiderio. E Lucia lo accontenta, assestandogli un morso da furetto e sfuggendo ai suoi assalti.

Di fronte a quel respingimento, il conte esce dal suo spleen e scopre che deve averla per placare la paura della morte. Deve averla per tornare bambino… Per la prima volta pensa che un vero amore lo farebbe simile a un deserto finalmente abbeverato, a una liberazione non più del seme, del latrinoso allagamento della carne, no, ma del dolore che non sapeva d’avere. Del male dentro e poi fuori, finalmente sputato con quella scoperta: che avere una donna è niente di fronte al destino di perderla, e con lei di perdere quell’attimo di necessità così simile a Dio… d’improvviso vuole piacerle come un bambino, vuole strapparle una tenerezza e una fantasia, vuole essere l’origine di un suo bisogno e ricordarle che in quel bisogno troverà pace … tremando per la prima volta di una vera attesa.

Eccolo il desiderio, quello che sostiene lo scarto fra ambire e ottenere, che riconosce il bisogno e l’alterità di ciò che può offrirsi o sottrarsi, fuori della propria onnipotenza.

Il desiderio di amare ed essere amati. Quel che ci accende all’appassionarci, è la risposta

contro la magarìa: (che) è non sapere cosa fare della propria vita. A chi possa servire. A cosa. Non è solo cercare l’amore, ma trovare un senso a questa mancanza di pace che chiamano tempo.

Così ha capito cos’era la sua fame di felicità. Nient’altro che questo: definirsi, cercarsi; ma in relazione a tutte le altre cose, al mondo intero.

La giovane adolescente raccontata dell’Autrice pare una miccia che accenderà la rivoluzione nei vari personaggi. La trama tesse con ispirata grazia i travagli di ognuno per liberarsi dalle proprie maschere e accogliere gli inattesi, fra cadute nell’ombra e risalite.

E rivela le tante forme di quel titolo: è un morso la violenza, la spinta di libertà degli oppressi, l’epifania dell’amore, è morso l’ignoto della vita e quel che tormenta l’anima dal buio del dentro, è un morso il desiderio, la follia, la malattia, la morte.

Lucia lo sa, il “fatto” glielo ha insegnato: c’è più incertezza a vivere che a morire.

Allora se c’è una pazzia da nascondere è questa sua nuova lucidità sulla condizione umana che le si presenta nuda e cruda, senza allori.

È come l’uomo, il “fatto”: pericolante. Tra luce e buio, in bilico.

Lucia, che per la sua pazzia era considerata inoffensiva, un corpo abitato dal niente, con il suo senso cristallino della vita, si farà coinvolgere dai moti rivoluzionari per poi finire nella Real Casa dei Pazzi di Palermo. In quel luogo da ribattezzare, con le labbra tagliate da rughe e le fenditure nere degli occhi, da corvo, molti anni dopo sembrerà bisbigliare che tutto capiva e che forse babba c’era diventata.

Diranno: lasciate pure che scriva ciò che vuole sui muri. Anche se non ha un nome, avrà comunque una storia da raccontare.

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