IL GUARITORE INFETTO
La cura ai tempi del coronavirus
di Nadia Muscialini
(Ed. La Meridiana, 2020)
Recensione a cura di Maria Grazia Gallo
In un’epoca e più che mai in un momento storico dove si assiste alla pericolosa deriva del negazionismo e della rimozione della morte e della caducità, il testo della collega Muscialini ha il grande merito della testimonianza e il potere curativo della narrazione e della condivisione di un’angoscia e di un’esperienza traumatica che va elaborata, a maggior ragione quando è collettiva.
Non è un caso che il libro abbia avuto tempi di pubblicazione molto veloci.
E a proposito di cura, mi sono presa molto cura della lettura di questo testo intenso, dal titolo fortemente evocativo, e me ne sono fatta “contagiare”: l’impatto emotivo è molto forte e ci si cala totalmente nella realtà di quello che succedeva e immagino succeda tuttora, colpiti dall’irruenza prepotente e cruda di un reale traumatico che… “toglie il respiro”, appunto, e la capacità di pensiero.
E’ l’angoscia, il terrore senza nome che paralizza, che rischia di disumanizzare, di far agire difensivamente i curanti come “macchine da guerra…. con un computer nel cervello”, di dare risposte “distaccate”, ma poi gli stessi non possono che constatare di essere irrimediabilmente “umani” con tutto ciò che l’umanità comporta: fragilità, vulnerabilità,attraversamento del dolore, senso del limite, caducità .
“……Abbiamo iniziato a camminare a piedi nudi, ma con il cuore in mano” dice un’infermiera….
Muscialini con questo testo ha dato coraggiosamente un nome all’angoscia insieme agli altri e l’ha condivisa in modo partecipe con tutti noi che la leggiamo e ne parliamo. L’ha resa pensabile e ha dato parola e voce al dolore del curante la cui sofferenza è spesso molto poco riconosciuta: “bisogna presidiarla costantemente e aver cura di chi cura”.
Guarire non è curare: il primo rimanda ad istanze onnipotenti e all’idealizzazione della figura del guaritore, il secondo riguarda la capacità di ascolto, di contemplare il limite, di rêverie come quella di una madre sufficientemente buona che accudisce il proprio bambino cercando d’interpretarne i bisogni.
“Capire è curare (capire e cura sono la stessa cosa), entrando in relazione, compromettendosi con l’altro”, dice Pellizzari citato in modo illuminante dall’autrice e “la cura, di cui ogni essere umano necessita ancor prima di nascere, è un atteggiamento etico fondamentale” .
E mai come in questo drammatico frangente i curanti sono stati messi alla prova rispetto a quella “capacità negativa”, (che mette alla prova noi per primi, curanti psicoanalisti) di sostare cioè, tollerandola, nell’incertezza e nella precarietà, in attesa di comprendere qualcosa di più del paziente e della sua malattia e di noi insieme a lui: ritrovare al fondo dell’oscurità la luce o quel “raggio di intensa oscurità” (Grotstein J.S, 2010). Da guaritori a curanti nella zona di confine tra la consapevolezza del dolore e della finitezza e la tentazione di rimuoverle per non esserne sopraffatti.
Difficile la “tenuta”: il virus, come uno tsunami, ha stravolto consuetudini, abitudini e modi di stare insieme: “quell’abitudine che ci aiuta a sentirci immortali” (J. L.Borges); ha fatto crollare certezze, conoscenze acquisite della medicina, protocolli consolidati e minato profondamente nel campo sanitario le identità professionali improvvisamente“senza cure”(tanto più queste erano ancorate alle cure, quanto più sono crollate).
Bisogna fare a meno e rinuciare a difese precostituite, a regole rassicuranti, e nel contempo avere e percepire il compito primario della cura che diventa un compito impossibile. Si “naviga a vista” e nelle pagine del testo si percepisce controtransferalmente il senso di smarrimento,di alienazione estraniante e perturbante, a un passo dalla disgregazione dell’Io e dal suo naufragio definitivo.
Persone , volti mascherati, tempi sono tutti uguali: in una testimonianza toccante, un’infermiera descrive il suo disorientamento temporale; svegliatasi all’improvviso, crede sia già giorno e tardi per recarsi in ospedale: “comincio a girare a vuoto per la stanza in panico…..è già giorno….” E dopo essersi precipitata a compiere tutte le azioni mattutine in un crescendo di confusione, rabbia e smarrimento, realizza che è sera: “ho perso il senso dei giorni e delle ore. Riguardo l’orologio: ore 7, ma di sera. Mi ributto sul divano e mi metto a piangere…cazzo”.
Stati di depersonalizzazione, ipocondria e sindromi di disadattamento, smantellano le corazze simbolicamente difensive dei camici bianchi e delle divise : “tutti i miei muri di sicurezza che ho costruito sono crollati. Sono nuda, non fatemi male”.
E c’è chi soccombe: “ Ho il cuore distrutto perchè una mia amica e collega mi ha lasciato… si è tolta la vita………Questo tsunami ha travolto anche noi e i più fragili non hanno retto………..
Abbiamo cercato di fare tutto al meglio delle nostre possibilità, ma anche noi contiamo delle vittime, e non poche, sia in quanto contagiati sia perché alcuni di noi si sono tolti la vita”.
Anche chi legge non può fare a meno di congedarsi con dolore e angoscia da quell’ultimo saluto, facendo l’occhiolino, di “Mary per sempre”, e si chiede se potrà essere accompagnata almeno con una degna sepoltura.
La sanità collassa e con lei l’ospedale nella sua funzione in quanto istituzione di grande contenitore e difesa da angosce primarie, persecutorie e depressive, sostegno affettivo oltre che tecnico/sanitario.
Venuta a mancare tale funzione e le sue implicazioni transferali: un grembo e un corpo materno che non contiene più, il rischio , leggendo le testimonianze,sembra essere quello di un’eccessiva identificazione proiettiva di oggetti/parti del Sé danneggiati; il progetto di lavoro, che rimanda simbolicamente alla creatività e generazione di un bambino o al corpo materno da riparare , fallisce per gli attacchi dello stesso e allo stesso.
Tutto è impregnato di elementi beta (Bion, 1972) e i curanti temono e sentono la colpa di non essere il “seno buono” che nutre e che fa guarire (stare meglio).
Come uscire, allora, da questo inferno di disperazione e di solitudine de-umanizzante in cui sono immersi curante e paziente, madre e bambino, in una simbiosi pericolosamente distruttiva e destinata a soccombere?
Ritrovando parti di Sé scisse e di umanità perduta, mettendosi anche se faticosamente, in contatto con la propria sofferenza e le proprie esperienze dolorose e traumatiche che la relazione con l’ammalato riattiva e suscita: stare vicini alla sofferenza senza farsene travolgere, con un ascolto partecipato, umano ed autentico.
“La ferita del guaritore” dice Muscialini, se elaborata, integrata e “rimarginata, può, quindi, essere utile e …quasi indispensabile per affrontare l’esperienza dolorosa dell’altro”.Si riattiva “quell’innata capacità d’immedesimarsi con gli altri e provare dolore e sofferenza per gli ammalati con cui si ha un rapporto di cura” e si può così accedere alle proprie risorse vitali,dell’immaginazione e della creatività.
“La sfida è”, appunto, “quella di cercare di trovare delle risorse positive in situazioni che sembrano solo territorio della disperazione e dell’assenza di speranza”; appellarsi, mi viene da commentare, agli “angeli della nursery” di Liberman: laddove il trauma rischia d’invadere la relazione, il genitore/curante può aiutare nel ritrovamento di “un angelo” nella memoria,(di quei residui, cioè, di esperienze emozionali primarie positive che hanno a che fare con il senso di protezione e di cura) e proteggere il paziente/bambino dalle proiezioni più distruttive.
Il guaritore si spoglia delle sue istanze onnipotenti (assistenza umanizzata) e la memoria cura, una “memoria che sceglie e che riscrive”, come dice Borges in una sua bellissima poesia: si tratta di non dimenticare, di dare parola e di trasformare in una nuova narrazione condivisa ciò che è stato e il dramma vissuto. E di non dimenticare, di dare e lasciare una testimonianza come è nell’intento e nella forte esigenza e motivazione dell’Autrice di questo testo.
Il più potente medicamento sembra essere la condivisione, il potersi raccontare in quanto esseri umani, “fare squadra”, come dice un medico del Pronto Soccorso che si è ammalato: “o la squadra resta insieme e lotta per il Bene comune o siamo Noi a crollare insieme al nostro mondo” e sentire che c’è un ascolto partecipe, specifico ,un’assistenza umanizzata.
Allora, se trasformato in parola, il rumore infernale dei macchinari e dei respiri affannati può diventare la voce materna che dà sollievo.
Nel caos indifferenziato e de-soggettivante dove i volti sono tutti uguali, Muscialini non solo è quella voce ma dà voce, attraverso l’ascolto e la testimonianza, ad ogni singolo: individuato, specifico, con la propria trama biografica momentaneamente spezzata e da ricostruire.
L’ascolto individuale conforta, ma soprattutto il poter condividere con i colleghi anche solo in un gruppo WhatsApp, ma poi nasce l’esigenza di un gruppo “vero”e proprio,più strutturato, di lavoro che diventa “un salvagente indispensabile al quale aggrapparsi”; e le riunioni si moltiplicano “per il bisogno di confronto e di conforto”.
Lo stesso testo che ne deriva e che riporta e trascrive la realtà drammatica di quest’esperienza può essere a mio avviso considerato un oggetto transferale su cui si appoggiano affetti, emozioni,ricordi di tutti i protagonisti di questa tragica vicenda umana che ci accomuna e che si convogliano e si riattivano in tutti noi che lo leggiamo.
Un testo dall’alto valore non solo etico, ma “affettivo” e terapeutico.
L’Autrice lo conclude con quello che potrebbe essere un inno ad un Nuovo Umanesimo:
“Le sue mani attente dentro le vite degli altri.
Le sue parole toccano la loro anima.
L’uomo che cura l’altro uomo è un Uomo.
E’l’Uomo che cura.”
P.S.: anch’io lavoro in un Ospedale (anche se non “in prima linea”) e ho deciso di proporre la lettura di alcuni stralci di questo libro alla mia équipe : per non dimenticarci di essere vulnerabili e umani.
BIBLIOGRAFIA
Bion W.R.,(1962) Apprendere dall’esperienza, Trad. it. Armando,Roma, 1972.
Borges J.L., Diritto in Poesie 1923-1976
Grotstein J.S., Un raggio di intensa oscurità,Raffaello Cortina,Milano 2010