Cosimo Schinaia (2014)
Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura
Ed. il Melangolo, pp. 180
Questa recensione del bel libro di Cosimo Schinaia nasce dal dialogo e dall’incontro, avvenuto per la sua presentazione, tra me, l’architetto Alessandro Baldassari(1) e l’autore stesso.
E’ con affettuosa attenzione che ho letto il libro, condividendo con Schinaia sia la formazione psichiatrica-psicoanalitica sia la nascita in Puglia, e la passione per l’architettura, di cui da anni mi occupo. Il riferimento alla nascita dell’autore nella città di Taranto, città pugliese che fu capitale della Magna Grecia e che dal centro del golfo guarda a quella porzione di Mediterraneo che prende il nome di Mar Jonio, mi ha particolarmente colpito. Questo fatto, a suo dire, ha favorito la costruzione di una vita professionale posta al crocicchio di differenti specializzazioni e interessi. Schinaia ha una formazione psichiatrica, contaminata dalla psicoanalisi e viceversa. “La sensazione di essere sul confine – dice l’autore – se da un lato accresce un sentimento di libertà, con la possibilità di passaggi da un territorio all’altro, dall’altro mette in discussione il sentimento di identità, che spesso viene confuso con il bisogno di appartenenza”. Schinaia con questo libro, che cerca di indagare ed approfondire i possibili rapporti tra Architettura e Psicoanalisi, ci dà una brillante dimostrazione di come le possibili contaminazioni tra varie discipline, tra vari territori possano essere feconde. E’ l’architetto Renzo Piano, citato nel libro, che ci ricorda che l’architettura è un’arte di frontiera e che abitare la frontiera significa eludere i confini. “Io stesso – dice Piano – ho scelto di lavorare mescolando le discipline. Non mi interessano tanto le differenze tra arti e scienze, mi interessano le similitudini”.
Allora Psicoanalisi e Architettura: più volte e in più occasioni ho sollecitato (convegni, cortometraggi di mia produzione) la necessità di un confronto tra queste due discipline. Schinaia dedica a questo aspetto un capitolo nella parte centrale del libro. Io aggiungerò soltanto che tale necessità, il perché di tale confronto, richiama quello che dico ai miei pazienti quando si accingono ad intraprendere una terapia analitica e chiedono “a cosa mi servirà? A stare meglio….”
Scrive, infatti, Di Battista, architetto: “Noi architetti non dovremmo essere in cerca di suggestioni: vogliamo fare solo un mestiere che sia utile, che aiuti a vivere meglio, che serva a produrre manufatti per il corpo e per la mente”!
Se l’architetto trasforma le sue emozioni in Forme, l’analista pratica le trasformazioni delle emozioni in Linguaggio. Il dentro e il fuori, titolo di questo libro, sembra ribadire che compito dell’architetto deve continuare ad essere quello di rappresentare, cioè di rendere esteriore qualcosa di interiore, connettendo l’interno con l’esterno.
Può sembrare superfluo sottolineare come l’ambiente influisca notevolmente sul benessere fisico e psichico, e ci sono mille studi che lo provano. “Chi progetta spazi progetta comportamenti” dice l’architetto G. Gregotti.
L’architettura è ancora sostanza di cose sperate, come suggeriva Persico? Sebbene molti dicano che attualmente l’architettura è più sostanza di speranze deluse, porre l’accento sulla speranza sembra essere l’unica via per trovare un senso per entrambe le discipline e per il loro futuro. L’architettura come la psicoanalisi racconta la difficoltà di stare al mondo ma non rinuncia al futuro.
Ed è quest’aria che si respira nel libro, soprattutto in uno degli ultimi capitoli intitolato I luoghi della cura. E’ attraverso la sua esperienza in manicomio, in qualità di psichiatra già contaminato dalla psicoanalisi, che l’autore ci allerta su come lo studio dell’architettura per esempio in spazi manicomiali ormai in dismissione, o in altri spazi istituzionalizzati, possa avvicinarci all’idea che lo spazio esterno non solo favorisca ma addirittura possa determinare l’insorgenza o la cronicizzazione della sofferenza psichica, attraverso la negazione o la perversione dei bisogni comunicativi.
Ancora oggi, ci ricorda Schinaia, c’è una pressoché totale mancanza di studio e progettazione di spazi adibiti alla cura della malattia e del disagio psicofisico, oggi per esempio dove l’invecchiamento della popolazione italiana e mondiale dovrebbe invece farci porre maggior attenzione a questo aspetto. E come dovrebbero essere questi spazi? Lo stesso autore prova ad elencarne alcune caratteristiche: spazi partecipati, ma non invasivi; protettivi ma non autoritari; discretamente ma duttilmente capaci di garantire la necessità per la persona in difficoltà di isolarsi senza dover rinunciare alla possibilità di comunicazione con gli altri. In modo originale fa riferimento e ci invita a rivolgerci all’architettura monastica, in particolare francescana, pensata come un continuo fluire dal privato della cella, al chiostro e all’incontro della sala capitolare. E mi sembra che in questa direzione stia andando la sperimentazione di spazi di cohousing.
Non poteva mancare da parte dell’autore, proprio per la sua doppia natura di psichiatra psicoanalista, un capitolo sulle Stanze di Analisi. Sappiamo come dall’ideatore della psicoanalisi in poi, ogni analista organizza la sua stanza di cura. Quella di Freud, collezionista di sculture antiche, era particolarmente “affollata”: la stanza di analisi in genere riflette il modo di funzionare dell’analista, della sua tecnica, di come vede e sente lo spazio relazionale. Siamo passati dal troppo pieno dello studio di Freud, al troppo vuoto delle stanze degli analisti successivi, in un omaggio a volte eccessivo alla così detta neutralità analitica; a quelli odierni che tendono a far risaltare la soggettività dell’analista, specchio di un cambiamento teorico-clinico di una psicoanalisi sempre più intersoggettivista e relazionale. Suggerisco di iniziare a pensare anche alla stanza di analisi del futuro, sempre più tecnologico, e per questo ne sto realizzando un modellino in legno. Di che cosa comunque ancora oggi necessita una stanza di analisi? Direi di uno spazio che faciliti l’Ascolto: facilitazione da perseguire anche in Architettura stando a quel che dice l’architetto D. Libeskind in risposta ad una domanda su come nascano le sue idee e i suoi progetti “…ascolto le pietre….”. Mi viene in mente un artista, Pinuccio Sciola, che ha costruito, scolpendo la pietra, La città sonora, e spero che dall’incontro tra Psicoanalisi e Architettura possano scaturire “Città scolpite, ….musiche e suoni racchiusi in uno skyline di pietra: che come una lampada magica aspetta soltanto di essere “strofinata” per diffondere e liberare la sua voce e le sue irreali melodie”.
Il libro, complesso e ricco di citazioni, rimandi e suggestioni, si interroga armoniosamente sul rapporto tra due discipline apparentemente distanti, e forse il perno su cui farle girare può essere la creatività. Che rapporto c’è tra estro, formazione, talento: la creatività è proprio di tutti e basta solo scoprirne la chiave per accedere a quello che la Pop-art definisce “il serbatoio creativo”? Se guardiamo alla storia più recente dell’architettura, dove l’abbraccio mortale della composizione architettonica ha spesso soffocato l’aspetto creativo, e anche nel libro ci sono pregnanti esempi, la succitata frase genera molte perplessità.
Sembra anche per l’architettura condivisibile la preoccupazione dell’autore che questa arte perda il proprio contenuto simbolico, la capacità come dice Auguste Perret di generare belle rovine: forse il timore maggiore è quello che si perda il patrimonio simbolico collettivo e con esso la capacità di reverie, e rielaborazione di ciò che l’ha prodotta. Riprendendo la definizione di Rabinow citata da Schinaia, sull’’architettura che è un sapere e storia della professione, evoluzione della scienza del costruire e riscrittura delle teorie estetiche, il compito è quanto mai difficile e rischioso. Ritornando alla seconda parte del libro che parla anche della Casa oltre che dei Luoghi di cura, l’autore ha ben reso la complessità del problema, in primis la differenza tra progettare una casa su misura per un committente o progettare case senza sapere chi le andrà ad abitare. C’è da rinforzare l’idea di Schinaia che rifiutare il rapporto tra interno ed esterno, tra dentro e fuori è perversione, una perversione che può essere destinata ad accentuarsi creando dei gusci protetti di qualità in conflitto voluto con il caos dell’esterno. L’autore ribadisce con forza che un’architettura che non tenga conto del rapporto in continuità tra esterno ed interno dell’edificio sia destinata a provocare disastri, sia essa riferita all’abitare comune come ai luoghi di cura. Allora il compito dell’integrazione tra le due discipline, Psicoanalisi ed Architettura, oggi più di ieri può essere quello di muoversi elasticamente e delicatamente tra aspetti funzionali, simbolici, antropologici, ponendosi tra continuità ed innovazione. Un invito che mi sembra di aver raccolto da tempo, e che rivolgo come Schinaia soprattutto ai colleghi più giovani nei due campi.
Mi sembra che con questo libro un altro bel passo avanti sia stato fatto nella possibile integrazione tra Psicoanalisi e Architettura!
Marta Capuano
Novembre 2014
Note (1)Arch. Alessandro Baldassari, Direttore del Centro Studi per l’Urbanistica e l’Architettura G. Guidi – Pisa.
Vai a Freschi di Stampa , Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura. Cosimo Schinaia – Edizioni Il melangolo (2014)