Il bambino nella neve
Il bambino nella neve
Wlodek Golkorn
Feltrinelli 2016
Recensione in forma di intervista all’Autore a cura di Giovanni Foresti
Un libro che suscita un rispetto quasi reverenziale. Icastico come un sogno ben riuscito (o come un sonetto che funziona grazie a un magico risparmio di sillabe), il libro di Goldkorn incute in chi legge il timore di guastare l’effetto se si aggiungono, o si tolgono, parole, frasi, idee. Sembra che ogni possibile osservazione sia destinata a meritarsi l’anatema di Benedetto Croce: elementi allotri che guastano colpevolmente la coerenza dell’insieme.
“Immaginate il colore del fuoco? Immaginate l’odore? Io non voglio immaginare. Voglio che questa storia rimanga un buco nero.
All’ingresso del campo, accanto alla rampa simbolica, su un muro di cemento armato si possono leggere scolpite in pietra, in ebraico, e nella traduzione polacca, le parole di una poesia di Dan Pagis, autore israeliano nato nella Bucovina, quindi non lontano da qui, e che molto ha scritto sulla Shoah.
In questo convoglio,
io Eva,
con mio figlio Abele.
Se vi capitasse di vedere mio figlio maggiore
Caino. L’uomo.
Ditegli che io.” (ivi p.62).
Anche l’Autore qui si ferma. E perché mai, dunque, dovremmo proseguire noi?
Eppure questo è anche un libro che milita con efficacia… Già milita: ma contro cosa o contro chi? Ecco la domanda – l’unica domanda – alla quale rispondo da solo. Per presentare non l’uomo che ha scritto il libro (un uomo che purtroppo non conosco – un uomo che vien voglia di conoscere… ), ma l’Autore che si presenta al suo Lettore attraverso le pagine del testo, oso sostenere un’opinione. La mia ipotesi è che il baricentro emotivo del libro sia esplicitato a pagina 41: “Sono stato fortunato a crescere in una famiglia in cui il rancore, l’odio e la vendetta erano inconcepibili. Per questo il mio rapporto con la memoria, con l’indicibile, con l’inimmaginabile, è più sereno rispetto a quello di molti miei coetanei… Io cerco di comprendere, non cedo alla vendetta.”
Per me lettore (si noti: non Lettore) il libro è l’opera di un Autore che, forte di questa solida stabilità emotiva, accetta il rischio di avvicinarsi all’orrore e di studiarlo analiticamente. Il libro milita dunque contro il museo molesto delle frasi fatte (la “Disneyland dell’orrore” scrive Goldkorn); contro i pensieri poco pensati e per nulla personali/personalizzati che ci raggiungono e ci colonizzano; contro le idee che riceviamo dal contesto culturale cui apparteniamo e che ci assoggettano.
Il libro è insieme una ricerca storica, un viaggio nello spazio/tempo e un’indagine sul proprio funzionamento interiore: un ricco ed eloquente esempio della capacità che possiedono gli esseri umani di istituire un rapporto dinamico con se stessi e la propria storia, producendo pensieri spontaneamente autoanalitici di grande perspicacia. Sono Einfâlle, avrebbe scritto Freud. Semplicemente thoughts – pensieri in cerca di un pensatore – per chi ha letto Bion.
Molte di queste intuizioni folgoranti sono espresse con frasi estremame*nte concise. Si dà dunque il caso che un’intervista possa essere fatta chiedendo a chi ha scritto il libro di dire di più: mettendo semplicemente l’indice su un passo del libro e guardando l’Autore quasi senza parlare.
Perché dici/scrivi questo? Abbi pazienza. Usa più parole. Adesso faccelo capire meglio.
Per esempio, nella pagina che ho già citato ci sono almeno due passi che meritano sviluppo ed esplicitazione. “Soprattutto – scrive Goldkorn – penso che la memoria non serva a rivendicare i torti subiti, a chiudersi nel recinto della propria comunità.” Domanda: rapporto fra ricordo/vendetta e memoria/identità; può parlarcene un po’ di più?
E poi: “Penso che della memoria vada fatto un uso politico”. Cosa intende più precisamente con quest’espressione così apparentemente (e ricercatamente) anacronistica “uso politico”?
Pg 28: “Stavamo discutendo della memoria come spazio vuoto, quando tirai fuori la foto di nonna Taube. La scrittrice mi chiese: Ma davvero porti sempre la sua foto con te? […] Era spaventata e intimorita… […] O forse neanche lei reggeva l’insostenibile peso di una memoria che è tutta immaginazione.”
Pg 63: “La memoria è tale quando è avvolta dalla nebbia e soggetta a cambiamenti, vale a dire quando è viva.”
Pg 153: “La memoria è fatta di immagini: sognate, viste nelle fotografie e nelle opere d’arte, costruite da noi stessi e dagli altri. La memoria è solo il nulla su cu cerchiamo di strutturare la nostra identità. Ed è un bene che sia così. Altrimenti non avrei potuto scrivere e amare le persone vive. Il desiderio ha come premessa l’oblio.”
Ancora sulla memoria, a pg 156, l’Autore commenta un video di Jane Korman che ritiene catartico (si intitola Dancing Auschwitz). Scrive: “È un inno alla vita, all’avvenire: l’oblio ma non il perdono, come strumento indispensabile della memoria.” Questa affermazione è poderosa! Il perdono no. L’invenzione cristiana più efficace, scrive la Arendt in Vita Activa. Come si spiega? L’Autore ci dice quel che ci dice. Ma l’autore?
E poi, visto che sia qui che nel testo è comparsa l’Autrice de La banalità del Male, l’indice corre alle pagine e ai passi dove Goldkorn scrive frasi su questo tema. “Il male, se manifestamente arbitrario e radicale, esercita un grande fascino” (p. 109).
E poi, a pg. 133, il passo che segue: “La Shoah è solo un vuoto. Io di quel vuoto ho paura, e questo libro è un tentativo di far fronte all’angoscia, ma negare che il vuoto è vuoto, cercare di riempirlo con presunti significati positivi e con un messaggio di speranza è peggio dell’angoscia: è il rifiuto di capire quanto il Male sia radicato dentro ognuno di noi.”
Il passo è concluso da questa frase enigmatica: “È quel male che dobbiamo indagare, non per dire che siamo tutti carnefici, ma per sapere come non diventare dei boia.”
Come quella bambina nominata in una pagina in cui viene descritta la reazione dei pazienti più piccoli alle interpretazioni degli analisti, vorrei dire a Goldkorn: parli in uno strano modo, ma per favore parla ancora.
Quando finalmente incontrerò l’uomo in compagnia del quale sono stato per tante ore, durante il 2016, gli chiederò anche altre cose oltre a queste.
Gli ricorderò alcune frasi della sceneggiatura di un film che piace tanto alla mia figlia più piccola (Man on fire: Tony Scott 2004), perché descrive il rapporto fra una bimba e la sua guardia del corpo (tema trattato da Goldkorn a pg 29 con una citazione di Amos Oz), e farò in modo che si riesca a parlare di un film che ha dato molto da pensare a suo padre (non sono mica solo padre, infatti… ): In un mondo migliore.
La regista di Un mondo migliore è Susanne Bier, un’allieva di Lars Von Trier. Il titolo originario è Hævnen, e compare in sovraimpressione negli ultimi fotogrammi. La parola danese non vuol dire paradiso, come avevo ingenuamente immaginato quando l’ho letta per la prima volta, ma vendetta.
Gennaio 2017
Vlodek Goldkorn è stato per molti anni il responsabile culturale de “L’Espresso”. Ha lasciato la Polonia nel 1968. Vive a Firenze. Ha scritto numerosi saggi sull’ebraismo e sull’Europa centro – orientale.