I mostri non possono essere annunciati.
Psiche “Il pensiero in tempo di guerra”, numero 2/20016.
Leonardo Spanò
I tried to forgive, i tried to forget, tried not to relive what makes me
upset, we all make mistakes, so why not admit them, i know they’re mistake,
it’s just like vietnam, life during wartime, life during wartime, life during
wartime, time to reflect time, time to rethink time, life during wartime, i
tried to forgive, not to forget, the things you dont give you always regret,
when things are so rough and people are dying i say thats enough there’s no
use in lying, life during wartime, life during wartime, time to improve time,
time to do good time, life during wartime, i thought i could change the way
that you think, instead it’s so strange i turned you to drink, why why did i
roam why did i roam, i shouldve stayed home and thrown out your iphone, thrown
out your iphone, i thought i forgave, i thought i forgot, i tried to be brave
but found i could not, i made a mistake and now its not too late, my hearts
full of ache is this what is called fate, life during wartime, life during
wartime, life during wartime, time to repeat time, time to respond time, life
during wartime, i cannot forgive, i cannot be forget, the life that you live,
all you’ve forgot, life during wartime, life during wartime, life during
wartime, time to repeat time, time to be strong time, life during wartime, i
cannot forgive, i cant be forgot, the life that you live, all that you’ve got,
life during wartime
Life during wartime Time to repeat Time to be strong Life during wartime
You cannot forget what can’t be forgot The life that you live, is that all that you’ve got?
Life during wartime Devendra Banhart feat. Beck – Life During Wartime (OST Life During Wartime)
Sì, proprio così: la vita durante la guerra può essere un momento per riflettere, un tempo per ripensare; lo ha fatto cantare a Devendra Banhart e Beck, col loro stile soventemente scanzonato e infantilmente distaccato, il geniale Todd Solondz, nel suo film più cupo e nero, ma anche più politico e ribelle (dunque vivo), Life During Wartime. Una scena su tutte: il perturbante cammeo di una incarognitissima Charlotte Rampling, sempre comunque fatale, assolutamente terrificante nel ruolo di un’anziana donna predatrice, che, a chi le chiedeva spiegazione per le sue condotte inumane, come unica giustificazione trova quella di rispondere, in un sussulto di feroce autoconsapevolezza, “Because I am a monster”.
Il nuovo corso di Psiche ci ha abituato, ormai da qualche anno, alla presenza di animali fantastici, spesso veri e propri mostri, accampati sulle sue belle copertine. Minacciosi o placidi, archeologici o futuribili, ironici o terrifici segnalano l’accesso a ogni nuovo numero. Nel caso di quest’ultimo la tradizione non è persa, e non sorprende dunque che ad attenderci sulla soglia di questo Psiche Il pensiero in tempo di guerra (Il Mulino, Bologna, 26 €) sia proprio una creatura mostruosa. Quello che invece davvero sorprende è accorgersi di una straordinaria coincidenza tra l’immagine inaugurale e il contenuto del fascicolo. Già dal titolo dell’editoriale di Maurizio Balsamo, il mostro è, parafrasando un film di Bellocchio, “sbattuto in prima pagina”. Riprendendo l’immagine, ma soprattutto l’idea, presente nel romanzo di Ahmed Saadawi “Frankenstein a Baghdad”, vengono delineati i modi e gli stili con cui provare a interrogare un tema tanto equivoco e ampio come può essere quello della guerra. La prima postura da assumere è sicuramente quella di abbracciarne la sua intrinseca ambivalenza. La ripresa del Frankestein di Saadawi serve proprio a questo: si tratta di una creatura formata dai resti di corpi che sono insieme quelli delle vittime e dei carnefici, è l’immagine più ibridata e controversa di ciò che la guerra può rappresentare; un tempo dove i confini tra vita e morte, innocenti e colpevoli, distruzione e costruzione, orrore e salvezza svaniscono e appaiono continuamente rimescolati e rinegoziati. Solo occupando questo punto di vista, mobile e non univoco è possibile, come scrive Balsamo, in una ricognizione del “fenomeno guerra”, analizzare “quell’insieme di fratture, di piegature, di modifiche, di incapacità, che accadono al pensiero che deve affrontare la questione della guerra”.
Se è vero che i mostri aiutano a illuminare la profonda ambivalenza del dispositivo bellico, è utile comunque chiedersi che tipo di reazione essi generano in noi. Jacques Derrida sottolineava come la capacità dei mostri sia quella di lasciarci senza potere (“rivelano di colpo l’impotere”, per usare le sue parole), perché o troppo potenti o perché in ogni caso minacciosi per il potere. Ad ogni modo ciò che essi producono è un effetto traumatico. Ma dopo questo primo evento si assiste immancabilmente a operazioni (normalizzazione, legittimazione, assuefazione) che addomesticano i mostri. È importante che l’apparizione del mostro rimanga e produca sempre un trauma, che sia qualcosa che terrorizza, che spaventi. Le odierne guerre e lo stato di terrore perpetuo e continuato con cui i terroristi sembra vogliano farci convivere quotidianamente realizza esattamente questo: un operazione di addomesticamento. Assuefatti all’orrore, ipnotizzati da immagini che sembrano film, insensibili a violenze indicibili. I mostri come le guerre debbono continuare a spaventare, cosi da rendere possibile una reazione, un pensiero. Se mai si potesse cogliere un aspetto positivo nella brutalità di un trauma sarebbe proprio la capacità di scossa, di risveglio, di messa in opera di soluzioni che produce. I mostri non possono essere annunciati, altrimenti diventano animali domestici; la brutalità della guerra non può divenire domestica, ma deve continuare a rappresentare qualcosa di profondamente estraneo e perturbante.
Il volume è ricco e articolato. Nella sezione Focus trova posto un doloroso e palpitante testo di Jacques Andrè; prendendo come punti di repere temporali i terribili attentati parigini del 7 gennaio e del 13 novembre 2016, lo psicoanalista francese stende un diario-riflessione volto a illustrare il sostanziale e repentino sconvolgimento che un evento terroristico a noi vicinissimo può produrre nella stanza d’analisi, luogo per eccellenza “al riparo dal mondo”. Pone poi il problema di come riuscire a farsi carico di tale violenta e brutale irruzione del reale, evento che sembra mettere in crisi e ridurre al minimo il consueto lavoro di simbolizzazione che normalmente si dispiega durante una seduta analitica.
Tra i Saggi, la sezione in cui saperi e punti di vista appartenenti a discipline diverse hanno luogo di dialogare fecondamente, gli autori si misurano con l’analisi di fenomeni che, per quanto molto distanti tra loro, appaiono accomunati dalla volontà di interrogare gli effetti psichici di una violenza e di un terrore che spesso appaiono incomprensibili. Tra questi si legge l’antropologa Ana Cristina Vargas che, raccontando del pluridecennale conflitto colombiano, illustra quale possa essere il ruolo di una violenza collettiva e costante sulla costruzione delle singole individualità. Il saggio di Leonardo Capezzone, docente di Storia dei paesi islamici, permette di aprire una riflessione sulle crociate offrendo per una volta però il punto di vista degli storici arabi.
Nella sezione Dialogando sono ospitate tre importanti voci. La psicoanalista Emily Kuriloff, autrice qualche anno fa di “Contemporay Psychoanalysis and the Legacy of the Third Reich. History, Memory, Tradition”: libro che accoglieva una riflessione circa il peso del vissuto traumatico degli psicoanalisti perseguitati durante la seconda guerra mondiale nello sviluppo della teoria psicoanalitica successiva. Nell’intervista con Nelly Cappelli, tale modello, basato sulla trasmissione transgenerazionale del trauma, viene ripreso e riattualizzato alla luce dei tragici eventi prodotti del terrorismo di oggi e dai recenti attentati. Louis Raffinot domanda a Bruno Nassim Aboudrar, filosofo e storico dell’arte, se le guerre contemporanee abbiano causato dei cambiamenti di natura estetica nel modo stesso di percepire il “fenomeno guerra”. Sembrerebbe, infatti, che il paradigma con il quale si è sino a oggi percepita la guerra, ovvero quello basato su una dialettica visibilità/invisibilità, sia di fatto inservibile se applicato agli scenari bellici attuali, dove si è confrontati piuttosto con una sostanziale a-visibilità delle immagini, abbaglianti e illeggibili. In ultimo, la scrittrice Dacia Maraini con pacata fermezza rievoca le sue vicende di infanzia, quando fu internata in un campo di prigionia in Giappone, lasciandole dialogare con il nostro non certo rassicurante presente.
Il Dossier è occupato da un imponente e documentato lavoro della filologa classica Monica Centanni, intitolato “Figli di Marte”: attraverso un’accurata selezione antologica e iconografica, l’autrice, sulla scia di nobilissimi esempi passati (il Warbug dell’Atlante di Mnemosyne su tutti) decostruisce testi e immagini di guerra, avvicinandoli “per contatto” o mostrandoli in tutta la loro diversità, aprendo a nuovi e inauditi significati tracce testuali o iconiche che sembravano schiacciate sotto il peso di una unica e sola lettura.
Tra gli Interventi si possono leggere due testi che nascono da ricordi di natura autobiografica: il breve scritto di Erri De Luca, basato sul racconto della sua esperienza di militante a favore delle vittime durante la guerra nell’ex Jugoslavia, e quello di Maurizio Bettini e del suo “pianista misterioso”. Al cinema e alla musica (due linguaggi con i quali la psicoanalisi è da sempre in fecondo dialogo) sono dedicati due saggi: la storica del cinema Ghada Sayegh racconta la rinascita del nuovo cinema libanese (impegnato oggi nella ricerca di nuove forme adatte a raccontare la guerra), il musicista Carlo Perrucchetti approfondisce il ruolo della musica durante la prima guerra mondiale. Due interventi sono scritti da docenti di Diritto Pubblico: illustrano i cambiamenti intervenuti nella prassi e nel pensiero giuridico negli ultimi anni a causa dell’escalation terroristica e del più complessivo cambiamento della guerra tra Stati. Non mancano ovviamente testi di più chiaro stampo psicoanalitico: tra questi, vale la pena citare quello di Laura Ambrosiano. Partendo dal racconto della bizzarra storia di Armin Wegner, un anonimo cittadino tedesco che scriveva lettere contro la guerra ad Adolf Hitler, viene messa a tema una interessante riflessione sulla qualità di un’emozione mai interrogata a sufficienza come la vergogna.
In coda al volume, nella sezione che accoglie le “schede di lettura”, trova posto la recensione del volume della sociologa francese Riva Kastoryano “Que faire des corps des djihadistes”, uscito per Fayard nel 2015. Che fare dei corpi degli attentatori responsabili degli attacchi suicidi a New York (2001), Madrid (2004) e Londra (2005)? Il libro tenta di rispondere a questo quesito utilizzando rapporti ufficiali che provano a ricostruire gli spostamenti degli jihadisti tra il 2001 e il 2005, ma anche attraverso interviste con le autorità pubbliche dei paesi dai quali provenivano, con i rappresentanti delle comunità locali, tanto in occidente quanto nei paesi di origine. Ciò che emerge è come in questo caso la sepoltura di questi corpi (o di questi resti) rappresenti tutto tranne che un problema di natura legale, politica o diplomatica. Il significato è qui di ordine eminentemente simbolico e morale. L’utilizzo dei corpi – la cui cittadinanza diviene di difficile attribuzione – come vere e proprie armi e la nozione di guerra non territoriale rende inapplicabile qualunque giustizia e mina alle fondamenta la tenuta della nozione di Stato-nazione. La sepoltura di questi giovani, sostenuta per altro da una narrazione identitaria circa il loro appartenere all’Oumma, una nazione globale senza frontiere, rigetta con violenza l’idea di un’appartenenza a una specifica terra, rendendoli de facto inseppellibili e dunque mai morti.
Dal Frankeistein di Saadawi, mosaico di corpi dilaniati, ai corpi dei terroristi e alla loro impossibile sepoltura, è il corpo l’elemento che resta a fare problema, a insistere. In un cortocircuito di immagini abbaglianti e di confusione tra morti e vivi, sembra prevalere il tentativo di sottrarre i corpi alla loro realtà di corpi, alla brutalità reale delle loro carni, la perdita dell’individualità nell’anonimato, la confusione tra quelli che ancora sono e quelli che non sono più. Lo slittamento di senso più significativo e ambiguo, ma anche più preoccupante, è il lento ma progressivo approdo al registro dell’impersonale. Mario Santagostini, poeta lodevolmente parco ma di immensa lucidità, in una prosa poetica di un suo libro di qualche anno fa scriveva: “Servirà a poco, farsi un’immagine dei morti più aderente. Ammesso che ne esistano. Forse, non si amano, e nemmeno amano i vivi. Da negligenti, improduttivi, risentiti. Impegnati nel loro eclettismo, sono via via allume, aria quando sa di zinco, aria ozonizzata. Eppure c’è dell’altro: i rimasti più indietro, gli stipati nelle macellerie del possibile. E allora mi sembra che i morti sono già adesso un po’ meno morti, che un giorno non lo saranno quasi più e incontreranno i vivi. Che una forma simile all’addio, disadatta al finale, li riunirà tutti in una quarta, di persona plurale”.
Vero però è che nel corpo stesso e nella sua irriducibilità a ogni tentativo di essere de-pulsionalizzato, neutralizzato e reso puro simbolo, nella sua capacità tenace di individualizzarsi, di fare senso e di fare rumore, che alberga la vita psichica e forse, più in generale, la vita stessa. Il rimedio agli scenari di sparizione e di silenzio che la scia agghiacciante e sanguinosa di eventi terroristici e bellici di questi ultimi anni sta adombrando risiede forse nella capacità tutta umana di udire ancora il fracasso del corpo, il fracasso di Eros, in grado di zittire anche quello delle armi.
Un’ultima volta ancora, la poesia. Una lirica di Amelia Rosselli, tratta da Variazioni belliche, libro che già dal titolo sposa una visione volutamente contradditoria e fecondamente ambigua sul tema della guerra, una trama di componimenti costruiti su una logica battagliera, opposizionale, ma anche indefessamente liberatoria (tanto a livello formale quanto tematico) :
“Hanno fuso l’ordigno di guerra con le/mie dita troppo occupate a servirsi/di cibi cannibaleschi e tutto il mondo/è corso a vedere.//Pene infranto e rotta condotta sono lì a farvi da guida: l’esperienza è/maestra degli svogliati, i poveri d’immaginazione/che rotolandosi nell’aldilà hanno voluto//imprigionarvi. Voglia di fare temprata/da consuetudini che hanno invece tremebonde/pratiche: quelle di non sapere dove le hanno lasciate.//Ed è il dovere a farti strada come fosse/una sbiadita lanterna e spaccata che/nulla illumina salvo che il tuo piede/che sbaglia.//Gli aeroplani hanno cominciato a sparare/sulla folla poi hanno tradito così come/è normale nella pioggia di ogni giorno/e anche la sera.//Ogni giorno tentano un tranello e ogni/giorno torna la purezza e ogni notte/mettono in dubbio quello che hanno fatto di giorno.//Di giorno sognano; di notte vegliano;/il pomeriggio dormono; la mattina pregano.//Pregano che non se ne andrà così presto/la vita che ha nascosto la morte per/tanto tempo finché un giorno ritrovarono/la notte stesa come un morto”.
Leonardo Spanò, medico, psichiatra, psicoterapeuta, è responsabile sanitario presso una comunità terapeutica per pazienti psicotici. Svolge attività privata a Roma, dove risiede. Ha pubblicato lavori su riviste nazionali e internazionali. Le sue aree di interesse riguardano la psicosi, gli stati limite, la psicoanalisi applicata a cinema e letteratura. Collabora con il mensile “L’Indice dei libri del mese”.
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