Cultura e Società

“God save the queer”, “Ave Mary” di M. Murgia. Recensione di S. Pazzaglia

4/09/23
Bozza automatica 59

God save the queer. Catechismo femminista (Einaudi, 2022)

Ave Mary. E la Chiesa inventó la donna (Einaudi, 2011)

di Michela Murgia

Recensione di Sabrina Pazzaglia

Parole chiave: #queerness, #femminismo, #inclusione

Michela Murgia ha fatto scelte comunicative precise, offrendo un contatto quotidiano attraverso i social, le dirette frequenti, i podcast, gli spettacoli teatrali, i numerosi incontri a cui si rendeva disponibile. Scelte che hanno portato tanti a sentirla come un interlocutore sempre presente, come un’amica, una figura intima, il cui pensiero, anche quando non si era d’accordo, era sempre un bel regalo.

“Non ho bisogno di scomodare i molti studi delle neuroscienze in merito per avere la conferma che l’immaginazione immersiva genera nel cervello le stesse reazioni dell’esperienza sensibile. È reale, cioè produce effetti di realtà, qualunque esperienza che attiva un mutamento nella persona che la vive. In termini di cambiamento può essere quindi più autentico il botta e risposta di messaggi con un amico o la discussione che segui su una piattaforma digitale piuttosto che la frase fatta che ti ripete tua madre in carne ed ossa mentre a tavola ti porge le patate al forno” (God save the queer, pag.106). Così l’autenticità del nostro rapporto, del dolore per la perdita, dell’emozione per aver partecipato all’intensità del suo vivere negli ultimi mesi e il desiderio di rimanere con lei ricordandola.

Ecco allora l’invito a rileggere i due testi di Michela Murgia relativi alla riflessione sulla fede e sul genere, collegarli ad un testo di Teresa Forcades, teologa, monaca di clausura e molto altro ancora e unire idealmente queste Autrici alle riflessioni sul femminile, sul patriarcato e sulle nuove forme di genitorialità e di cura di Manuela Fraire.

Il terreno teologico su cui Forcades e Murgia si muovono è quello della natura

intrinsecamente relazionale del Dio cristiano, in quanto trinitario: il Padre, il Figlio e Spirito Santo, nella loro relazione d’amore garantiscono “un modello di unità nella diversità, costituito da tre momenti indissociabili ed inconfondibili: il puro dare (rappresentato dal Padre), il puro ricevere (rappresentato dal Figlio) ed il condividere (rappresentato dallo Spirito Santo), e basato sulla categoria della gratuità, in dialogo con la categoria della reciprocità e della libertà” (Forcades, La Trinità oggi, pag. 73).

Su questo presupposto teologico, Forcades, già docente a Berlino di “Teologia Queer”, va oltre il genere, dichiarando che sì Dio ha creato uomo e donna a Sua immagine, ma poi, in Gesù Cristo, ha chiamato l’umanità a farsi Cristo, cioè a realizzarsi nella piena maturità come “pezzi unici, nella nostra originalità. Le persone che hanno un’identità sessuale che non collima con le categorie socialmente dominanti incarnano una queerness, una ‘stranezza’ che nel senso più profondo appartiene a tutti noi, poiché creati ad immagine di Dio e chiamati ad essere come Dio…” (Forcades Fede e Libertà, pag.59).

Questo movimento d’amore tra le tre distinte persone della Trinità, che in quanto tale implica la relazione libera con l’altro diverso da sé, viene ripreso da Murgia che ne offre una rappresentazione iconografica suggestiva attraverso la celebre icona di Rublev. Rappresenta l’incontro del Dio Trinitario con Abramo presso le Querce di Mamre e Murgia racconta come l’unica volta in cui sia stata colta da sintomi riconducibili alla sindrome di Stendhal sia stato al cospetto di questa immagine che la rapiva nella sua profonda verità. Icona del 1400, oggetto di devozione e anche di recenti perverse scelte di potere (mi riferisco al recente conflitto tra la Direzione del Museo moscovita che la ospitava e Putin che ne ha voluto far dono al Patriarca Ortodosso). Mostra in modo sublime l’aspetto dinamico del movimento affettivo alla base dell’incontro tra Abramo e Dio, dinamismo tra le tre figure trinitarie, racchiuse in un cerchio, e lo stesso osservatore, su cui è posto il punto di fuga della prospettiva.

Così in questa “lezione su Dio”, quale è un’icona, ciò che emerge è la pluralità, l’inclusione, il movimento. “Cosa c’è di detonante nel dipinto? – ci dice Murgia – In primis ci sono tre individui alati che si somigliano tanto da sembrare monozigoti. Difficile attribuire loro un sesso: i tratti delicati, l’assenza di barba e i complicati intrecci delle capigliature sono marcatori della femminilità, mentre le posture autorevoli e i corpi androgini sembrano appartenere ad un’area simbolica maschile. Sono uomini? Sono donne?… L’artista ha pensato che scegliere non fosse necessario ed ha lasciato l’ambiguità: il binarismo di genere non è la chiave di comprensione dell’immagine, dove i soggetti sono allo stesso tempo altro ed oltre” (God save the queer, pag 75). “La relazione delle tre Persone è esplicitata dai loro micromovimenti. Lo sguardo è catturato da una geometria che inscrive le tre figure in un cerchio e ne coglie il moto corrispondente… Rublev ha fatto sì che staccare gli occhi da questo movimento risultasse molto difficile: si possono passare le ore a girare in vortice dentro l’icona… Laddove la Trinità piramidale sembra dire: “Tu qui sei sotto”, la circolare ti dice: “Tu sei dentro”, un cambio di prospettiva radicale che Rublev ottiene invertendo la posizione del punto di fuga… colloca il punto di fuga negli occhi di chi la guarda, generando l’effetto che siano le tre Persone ad affacciarsi a me piuttosto che io a loro… per aprirsi ad una quarta dimensione, quella della relazione con me” (pag.76-78).

Un secondo importante elemento identitario delle Autrici, oltre alla fede cristiana, riguarda l’appartenenza alla tradizione femminista, grazie alla quale entrambe formulano un pensiero incarnato, un pensiero cioè radicato nell’esperienza di essere nate in un corpo di donna, pensiero attento all’inclusività, alle minoranze, alla povertà, all’impotenza (essendo, queste, esperienze del femminile nelle società patriarcali).

Così Forcades rivendica la necessità di applicare le sue riflessioni alla differenza

sessuale e di genere.

Facendo riferimento al lavoro della psicoanalista americana Nancy Chodorow (La funzione materna. Psicoanalisi e sociologia del ruolo materno, La Tartaruga,1991), riflette sui diversi universi simbolici e di significato tra gli uomini e le donne. D’accordo con Chodorow ne pone le basi nei processi di separazione dal primo oggetto d’amore e di accudimento, la madre, e nei processi di individuazione. Se per le donne lo sviluppo del Sé le vede in continuità con la figura materna, con cui si identificano in quanto femmine, per gli uomini l’individuazione implica una separazione più netta poiché non possono dire “non sono Lei ma sono come lei”, ma piuttosto “sono diverso da Lei, sono separato”. Così la donna avrà una filia verso la fusione, l’uomo verso la separazione; il peccato (nel senso etimologico, pes captum: inciampo, movimento che impedisce il cammino fluido) sarà per entrambi lo stesso, cioè il rifiuto dell’esperienza di comunione, ma declinato nell’uomo a favore dell’esperienza di separazione e della paura alla comunione con l’altro, nella donna declinato viceversa verso il preferire esperienze di fusione con l’altro non riconoscendo la separazione e la diversità. L’uomo scappa dalla comunione d’amore in senso trinitario, la donna la trasforma in un rapporto fusionale e simbiotico in cui non viene accolta la diversità propria o dell’altro. “Essere persona, essere capaci di comunione come lo sono il Padre, il Figlio, lo Spirito, non significa quindi esistere in una coppia eterosessuale (teoria della complementarietà), né essere un ermafrodita (essere maschio e femmina allo stesso tempo), ma trascendere il genere, cioè superare i processi di individuazione infantile che tendono a ridurre il nostro essere personale… andar oltre gli stereotipi di genere di “femminilità” (auto- donazione che non coesiste con una libertà di uguale intensità) e mascolinità (libertà che non coesiste con un amore di uguale intensità)… Come ci insegna la dottrina della Trinità, l’amore e la libertà sono inseparabili…” (pagg. 77-78).

Per Murgia l’incontro con questo Dio che rappresenta “un amore plurale e moltiplicativo, che non ha bisogno di ruoli né di genere per fare spazio intorno a sè” (pag 84) è del tutto coerente con il femminismo: con la critica femminista al potere patriarcale simboleggiato da un rapporto verticistico. Il cerchio in cui si manifesta la Trinità di Rublev è invece onnicomprensivo, rappresenta un potere che circola tra tutti i membri e li mette sullo stesso piano. Rappresenta l’esercizio di potere dell’empowerment, rendere l’altro consapevole e capace e, quando l’altro è fragile ed umile abbassarsi per entrare in relazione: “di un Dio di successo io sarei forse potuta diventare fan, ma è di questo Dio fallace e negoziatore sono diventata fedele” (pag 49), scrive Murgia, commentando il passo biblico della creazione, in cui Dio osserva la solitudine dell’uomo dopo avergli portato tutti gli animali da nominare, la considera non un bene e procede nella creazione della donna. “La scena ha

qualcosa di comico e patetico insieme: Dio è nella posizione surreale di essere un creatore sotto esame, che sbaglia tre proposte prima di azzeccare quella giusta.” (pag. 48).

L’incontro con il Dio trinitario è inoltre coerente con la riflessione e pratica femminista

dell’esperienza del corpo, da cui non si può prescindere, rappresentata nella narrazione cristiana dall’incarnazione e dalla passione di Gesù, ma va anche oltre nell’inclusività, come ci insegna Rublev nell’immagine di quell’incontro in cui ciascuno di noi è tirato dentro, oltre il corpo, oltre il genere,oltre le nostre stesse caratteristiche e scelte, nell’offerta di una relazione che ci offre libertà ed amore e ci invita ad offrirne. È l’incontro che Dio propone alla ragazza Maria di Nazaret, ragazza, non vergine, come è stato tradotto in italiano ed in greco il termine ebraico “alma”. Maria oggetto di una lunga riflessione di Murgia, che ne decostruisce l’immagine passiva data dalla Chiesa, immagine funzionale all’esercizio del potere patriarcale. Attingendo direttamente dalle scritture la mostra sotto una nuova e vivificante luce.

Sulla strada della teologia femminista, Murgia rilegge il testo biblico mostrando come, con scelta precisa, siano state ignorate le parabole e le letture che avrebbero permesso alle donne “di riconoscersi ad immagine di Dio, in un Dio che fosse anche a loro immagine. Agli uomini è stata invece sottratta la possibilità di vivere la ricchezza di una spiritualità della reciprocità: essi sono costretti a pensarsi dentro ad una relazione con Dio in termini esclusivamente virili, in un cortocircuito simbolico talvolta surreale. Se delle suore si dice che sono spose di Cristo, dei sacerdoti si è costretti ad affermare che sono sposati con la Chiesa, imponendo all’istituzione ecclesiastica di occupare il vuoto simbolico generato dall’epurazione sistematica delle immagini femminili di Dio dai racconti di fede” (Ave Mary, pag.133-134). Ad esempio, al capitolo 15 del Vangelo di Luca, Gesù racconta tre parabole per

esemplificare la qualità dell’amore di Dio: la prima e la terza, molto note, conosciute come “la pecorella smarrita” ed il “figliol prodigo”, in cui i protagonisti sono due uomini, sono fonte di luoghi comuni, di iconografie. Le ricorderete tutti: raccontano la prima di un pastore che fa di tutto per ritrovare la pecora smarrita e la terza un padre che ri-accoglie con tenerezza un figlio disgraziato; la seconda parabola, quella in mezzo, ha come protagonista una donna ed è la parabola generalmente ignorata. Denominata generalmente come “ la dramma perduta”, che è una moneta dell’epoca, segue lo schema narrativo delle altre: si perde qualcosa che si festeggia ritrovandola. Ma qui abbiamo una donna sola, con mezzi (la moneta è sua), che poi festeggia con le amiche. Non ci sono uomini. Anche nelle due parabole che la accompagnano non ci sono donne. Ma questa sparisce dalle narrazioni, dalle letture domenicali, delle altre si fa memoria.

Così Murgia nel recuperare la ricchezza simbolica del femminile nel testo biblico percorre le precise scelte narrative che il potere patriarcale ecclesiale ha posto nella ri-narrazione dello stesso e le decostruisce restituendoci la portata rivoluzionaria del messaggio evangelico rivolto al femminile.

La critica al sistema simbolico paternalistico, con il bagaglio rappresentazionale che

contiene, tra cui il binarismo, critica che così efficacemente hanno portato avanti, tra le altre, Forcades e Murgia, si è manifestata anche nel pensiero psicoanalitico e ne dá conto in modo articolato Manuela Fraire ne “La porta delle madri” (Cronopio, 2023). Scrive Fraire, facendo riferimento al pensiero di Piera Aulagnier: “ad essere messo in discussione non è solo il binarismo e la conseguente attribuzione del genere da parte della famiglia, bensì anche il binarismo su cui poggia ancora l’interpretazione a disposizione dell’analista fino a che non sarà nei fatti attiva la disgiunzione di maternità e paternità dalla genitorialitá… La nozione di attribuzione, decisamente il contributo più significativo della gender theory, concorre non poco alla formazione dell’equazione personale dello psicoanalista. La nozione attribuzione, che non compare esplicitamente nel pensiero di Aulagnier, è tuttavia presente tra le righe del suo “Contratto narcisistico” che rappresenta un punto di vista che la libera dal significato violento attribuitole dalla gender theory” (pag.35-36).

L’interpretazione, strumento specifico della pratica analitica, in un sistema semantico diverso dal binarismo, diviene proposta di pensiero, invito a condividere la natura intimamente relazionale e liberatoria del pensare, co-costruzione nella relazione analista paziente; si libera della potenziale quota di violenza intimamente implicita al binarismo ed invita ad una conoscenza del Sè quale territorio ampio ed in divenire.

Curiosamente il titolo del libro di Manuela Fraire, “La porta delle madri”, che fa riferimento ad una frase di Freud, richiama le ultime pagine del libro di Murgia “God Save the Queer”, in cui viene ricordato che Gesù di sé dice che lui è la porta dell’ovile. Dentro l’ovile le pecore sono al sicuro, possono riposare, scaldarsi ma non cibarsi; fuori dall’ovile c’è l’erba, il movimento, ma anche il pericolo, i predatori. La vita delle pecore è garantita dal movimento tra il dentro ed il fuori “ed ecco che le parole di Gesù smettono di essere oscure: lui è la porta, cioè la Persona che rende possibile praticare la soglia come spazio vitale… La pratica della soglia, la queerness che rigetta l’appartenenza a un unico recinto è pratica cristologica… accettare la queerness come prassi cristiana significa riconoscere che il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale” (pagg.114-115). Viene allora da fantasticare che anche la porta delle madri, quella che in battuta Freud avrebbe voluto aprire attraverso il lavoro di Breuer con Anna O.,

possa descrivere un luogo al cui interno, in un intimo e caldo contatto con il

femminile-materno, ci si senta protetti e circondati da calore ma manchi quel nutrimento e quella crescita che si trova fuori, nel mondo, nelle altre relazioni, anche nel pericolo.

Ed in questo caso la soglia, cioè ciò che consente il movimento dal dentro al fuori cos’è? A mio modo di vedere il pensiero, la riflessione su di sè e sul Sè in movimento, terreno anche del pensiero e della pratica psicoanalitica.

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