Gesù. Il film di una vita
di Carl Theodor Dreyer (Iperborea, 2023)
a cura di M. Vanelli e con postfazione di G. Fofi
Recensione di I. Tavilla
Parole chiave: #Dreyer, #Ordet, #cinema, #Gesù, #miracoli
Dreyer, i miracoli di Gesù e la forza ipnotica del cinema
Marco Vanelli ha recentemente curato per l’editore Iperborea di Milano la sceneggiatura del film sulla vita di Gesù che Dreyer non riuscì mai a girare, offrendo ai cultori del maestro danese e agli amanti del cinema in genere un utile strumento per riuscire a comprendere l’autentica vena creativa di un regista che alla vita di Gesù ha ispirato le vicende di tutti, o quasi tutti, i suoi lungometraggi.
Nella nota introduttiva, Vanelli riferisce dei tentativi posti in essere da Dreyer – prima alle prese con il produttore statunitense Blevins Davis, della cui inaffidabilità si avvide troppo tardi, e poi con la nostra Radio Audizioni Italiana – per dar corso al suo «film mentale», che cominciò a meditare fin dagli anni Trenta e che ancora nel 1968, anno della morte del regista, non superò lo stadio di sceneggiatura (ricordiamo en passant che Vanelli è anche l’autore di uno studio più corposo sull’argomento, che siamo tra i pochi ad aver avuto la fortuna di leggere in anteprima e che ci auguriamo presto possa raggiungere una platea di pubblico più ampia).
Come viene specificato, il lavoro ha tenuto conto di tre diverse copie: il dattiloscritto dell’originale inglese Jesus of Nazareth, la traduzione italiana di Ernesto Ferrero, pubblicata da Einaudi nel 1969 (Gesù. Racconto di un film), che Vanelli pensa corrispondere alla versione ridotta in vista di una possibile produzione italiana, e una seconda traduzione anonima, questa volta completa, risalente al 1950 e proveniente da ambienti RAI. È proprio quest’ultima versione a costituire la base del testo, emendato dai refusi e integrato dei commenti di carattere storico-psicologico, che accompagnano l’originale inglese ma che non trovavano spazio nella sceneggiatura tecnica italiana.
E sono proprio i commenti tra parentesi a offrire alcuni degli spunti a nostro avviso più interessanti per meglio sondare le intenzioni con le quali Dreyer si preparava a girare il film della sua vita. A questo proposito, occorre notare l’abbondanza delle spiegazioni in chiave parapsicologica e razionalistica dei miracoli. Tale accorgimento, di cui in questa sede vorremmo azzardare una possibile spiegazione, non deve farci comunque dimenticare che il Gesù di Dreyer è prima di ogni altra cosa un taumaturgo. Nella sceneggiatura del film, infatti, le scene di guarigioni sono numerose (l’isterico, la suocera di Pietro, lo zoppo, il servo del centurione, la figlia di Giairo, l’emorroissa, il sordomuto, la donna curva, il fanciullo epilettico, i dieci lebbrosi, la risurrezione di Lazzaro, il paralitico di Betsaida, il cieco nato) e attingono a tutti e quattro i vangeli. La guarigione dei dieci lebbrosi è narrata solo in Luca (Lc: 17, 11-19), la risurrezione di Lazzaro (Gv: 11, 1-44) e la guarigione del paralitico alla piscina di Betsaida (Gv: 5, 1-18) sono presenti solo nel quarto vangelo. L’impressione, dunque, è che Dreyer abbia voluto offrire una summa dei poteri miracolistici di Gesù.
Una seconda osservazione, che naturalmente non sfugge a Vanelli, è che l’episodio della trasfigurazione viene riportato à la lettre e «oltre all’apparizione prodigiosa di Mosè ed Elia, non manca la voce del Padre che riconosce in Gesù il suo Figlio» (p. 8). Non c’è solo questo, però. Dal racconto della trasfigurazione in poi, Dreyer omette ogni spiegazione razionalistica, ad eccezion fatta per la didascalia che accompagna la guarigione dei dieci lebbrosi – dove si legge che al tempo di Gesù “lebbra” era termine alquanto generico, che poteva indicare anche alcune eruzioni cutanee di natura psicosomatica. Ma qui, più che la volontà di “spiegare” il miracolo o ridimensionarne la portata, riconosciamo l’altra costante preoccupazione di Dreyer – che Vanelli prontamente coglie – vale a dire la verosimiglianza storica del racconto, tanto da far venire in mente analoghe osservazioni relative alla scrofola nel celebre I Re taumaturghi (1924) di Marc Bloch.
A riprova di quanto dicevamo, la chiosa all’episodio della guarigione del giovane epilettico, recita che «Gesù scaccia il diavolo dicendo, etc.». Perfino la risurrezione di Lazzaro è compresa tra i segni miracolosi operati da Gesù. E qui Dreyer ha davvero poco da aggiungere all’accaduto. «Gesù che concentra le sue forze psichiche» è soltanto la causa seconda o “occasionale” perché «la gloria di Dio» possa manifestarsi. Il miracolo operato da Gesù presso la piscina di Betsaida e la guarigione del cieco nato, infine, non sono introdotte né accompagnate da spiegazioni di alcun genere. In verità, l’episodio del cieco nato, prevedeva originariamente una didascalia, poi cassata. Questa omissione è, a nostro parere, assai importante, perché sembrerebbe indicare come dopo la trasfigurazione non sia più lecito – narrativamente, ben inteso – dubitare in alcun modo dell’autorità di Gesù.
La nostra supposizione trova ulteriore conferma nel fatto che le uniche interpretazioni “razionalizzanti” del miracolo espresse per bocca dei personaggi (e dunque “udibili” anche dagli spettatori) vengono dai farisei: «Gli anziani parlano tra loro a bassa voce. Alcuni di loro dubitano della cecità del giovane. Dopo tutto poteva non essere stato cieco, poteva avere avuto la vista abbassata» (p. 269).
A questo punto non possiamo esimerci dal domandare per chi e con quale intenzione, in realtà, Dreyer compone i commenti che accompagnano quasi tutte le scene di miracoli. A vantaggio di chi Dreyer torna a ripetere con insistenza che i miracoli di Gesù hanno un’origine mentale, perché mentale si suppone essere il disagio che intendono guarire? Partiamo da un dato elementare, e cioè il fatto che le didascalie non sono destinate al pubblico, non sono rivolte agli spettatori da una voice over, ma “comunicazioni di servizio”, a beneficio esclusivo di attori, tecnici o di quanti altri collaborano alla realizzazione materiale della pellicola.
La sceneggiatura di lavoro del film Ordet (1954) – che seguendo la felice intuizione di Vannelli, a cui fa eco Goffredo Fofi nella sua postfazione, potremmo considerare una delle molteplici declinazioni del paradigma rappresentato dal film sulla vita di Gesù – pare offrire una risposta convincente alle nostre domande. Il testo si apre con una premessa in cui il regista, rivolgendosi ai propri collaboratori, spiega che lo scopo del film è «approntare una strategia comunicativa atta a far sì che gli spettatori, fin dalle primissime inquadrature, possano accogliere il miracolo della risurrezione come un fatto verosimile» (ricordiamo che la pellicola in questione si conclude con la risurrezione di Inger da parte di Johannes, il personaggio che si crede Gesù). Nell’ambito di queste considerazioni, Dreyer paragona la forza di suggestione che spera di ottenere all’ipnosi.
Dreyer è cosciente delle riserve mentali che il pubblico potrebbe nutrire nei confronti della tematica miracolistica. Ma è altrettanto avveduto del fatto che i primi «spettatori mentali» del film – per parafrasare un’altra immagine di Vannelli – sono proprio coloro che collaborano alla sua realizzazione. È la loro resistenza ad accogliere il miracolo che il regista deve cercare di vincere anzitutto. Perché? Per la stessa ragione, crediamo, per la quale Gesù esige di essere lasciato solo (pare che anche Dreyer lo pretese talvolta sul set dei suoi film!) ogniqualvolta l’incredulità di chi gli stava accanto avrebbe potuto compromettere l’efficacia del miracolo.
Perché gli spettatori possano essere suggestionati al punto da credere nella verosimiglianza del miracolo occorre che gli attori per primi credano nel potere taumaturgico di Gesù. Dreyer sarebbe dunque artefice di una doppia suggestione, ottenuta mediante quella che potremmo ben chiamare una «catena psichica». Indurre lentamente i propri collaboratori a credere nella plausibilità del miracolo è la condizione fondamentale di riuscita del film. Soltanto infatti se questi avranno messo da parte la loro incredulità – e ciò può darsi purché accettino di considerare il miracolo come un fatto inscritto nell’ordine naturale delle cose, magari attribuendone l’origine a fenomeni isterici o psicopatologici – la pellicola riuscirà a suggestionare anche il pubblico, fino a ipnotizzarlo.
Vedi anche: