Cultura e Società

Sopravvivere: Anitha

17/03/15

Provate a immaginare di essere aggrappati con una mano a uno spuntone di roccia proteso su un abisso: per un tempo incalcolabile non sarete altro che quella mano aggrappata a quella roccia, quella mano-roccia che concentrerà tutta la vostra possibilità di esistenza in un punto dello spazio così come in un punto del tempo. E’ un’immagine del genere che Piera Aulagnier sceglie per far intendere l’essenza della ‘condizione’ psicotica, condizione in cui si è primariamente impegnati, o per meglio dire concentrati, con tutte le proprie forze in una necessità di sopravvivenza. Tale sforzo comporta una cancellazione del tempo storico, o meglio una sua non-instaurazione, non sussistono né passato né futuro, il che significa ‘automaticamente’ per la Aulagnier che non può aver luogo nessun Io, tutto è concentrato e ‘sprofondato’ in un unico istante dilatato all’infinito, ci si ritrova letteralmente in un ‘buco nero’ del tempo. Inoltre viene cancellata ogni percezione della propria estensione corporea e psichica, non c’è nessuno spazio somatico che l’Io può abitare, in cui può insediarsi, né alcuna topica psichica in cui può ‘distendersi’, su cui può articolarsi. In questo mostruoso presente, a differenza delle consuete immagini che sottolineano nell’esperienza psicotica l’elemento di dispersione, di frammentazione, di disseminazione, vorrei sottolineare invece, al contrario, un elemento di estrema ed assoluta ‘concentrazione’, una esperienza di ‘densità’ sensoriale talmente intensa da obliterare evidentemente ogni possibile spazio di pensiero o di parola. La psiche stessa diventa una psiche-roccia, incorpora cioè un elemento inanimato che le consente di sopravvivere: deve cioè farsi roccia come unica possibilità di r-esistere.

L’immagine che si disegna nelle parole della Aulagnier si traduce in tragica realtà per centinaia di migranti ammassati, o dispersi se preferite, attorno alle nostre coste, confini liquidi in cui si può tanto galleggiare come relitti quanto andare a fondo come ‘corpi morti’. Emergono dall’acqua mani che si aggrappano a funi, funi a cui dovranno stringersi per un tempo indeterminato prima di essere tratti in salvo, se le cose andranno bene, e per tutto questo tempo indecidibile si diventa solo questo: una mano aggrappata a una fune, una mano-fune che più dimentica di essere o di essere stato qualcos’altro oltre questa mano-fune più ha possibilità di salvezza. Tutto il proprio essere si rattrappisce e si incapsula in quel segmento di ‘membra’ indistinguibile da quel pezzo di corda. Ed è proprio in questo ridursi a zero, in questa sorta di grado zero dell’umanità, che si coagulano tutte le energie e le possibilità di ‘sopravvivenza’, appunto. Ma anche dopo ci si sente ‘salvati’ o semplicemente ‘sopravvissuti’? Cosa resta nella psiche di chi ha fatto l’esperienza di essere ( nella psicosi), o di ridiventare (in una situazione estrema), una mano-cosa, una cosa (Sache) dal punto di vista psichico? Si ricorderà che per Primo Levi l’esperienza della disumanità consiste proprio nell’essere diventati una ‘cosa’ agli occhi di un altro essere umano. Quest’esperienza resterà incancellabile sia in chi l’ha provata sia in chi l’ha fatta provare, alterandone per sempre la ‘sostanza’ umana, come sostiene sempre Primo Levi. La sua stessa parabola vitale ci testimonia come, sopravvissuto al campo di sterminio, non si fosse mai sentito davvero ‘salvato’, a dispetto del titolo di un suo famoso testo, ma avesse solo differito l’incontro con ciò che già da tempo lo aveva ’sommerso’.

Così Anitha viveva perennemente sulla soglia, era arrivata con una delle tante carrette del mare in cui si sono già disperse e confuse identità, origine, provenienza, tutta una fetta della propria umanità che molto a lungo sembra indispensabile e di cui poi si scopre che si può fare a meno, che si può vivere ( o meglio sopravvivere) anche senza. Nello stesso identico modo in cui Levi descrive come i deportati di Auschwitz appena arrivavano nel campo perdevano istantaneamente tutta una porzione della loro identità e diventavano ‘altro’, un’umanità in regime di sopravvivenza ovvero in difetto di umanizzazione, per così dire.
Si diceva che avesse perso un bambino ma non si sapeva bene né dove né come, restava tutto il giorno in un angolo affianco al portone del centro di accoglienza guardando fuori, come se aspettasse qualcuno; di sera restava sulla soglia della camera da letto non poteva distendersi e riposare, restava semivigile, in attesa…sembrava entrata in una ‘sospensione’ del tempo. Qualcuno le aveva diagnosticato una depressione ( forse sarebbe meglio dire una deprivazione?) Quando me la portarono chissà cosa le avevano promesso o fatto immaginare, che io avessi qualcosa che poteva farla stare bene, che da me avrebbe potuto ‘trovare’ qualcosa. Mi guardò dalla soglia, che non oltrepassò, e mi disse soltanto “ah, sorellina…!” accompagnando le parole con un gesto della mano e forse immaginai, o forse l’ho sentito veramente, che aggiunse “..tu non sai”, si voltò e andò via con una dolcezza indolente, con rassegnazione, non aveva trovato quello che cercava ma soprattutto aveva avuto l’immediata percezione che io non potessi averne proprio nessuna idea. Cos’è che io non potevo sapere, né vedere, né forse immaginare?
Stringeva il pugno come a serrare qualcosa che non voleva farsi sfuggire, ma la mano era vuota eppure immediatamente veniva serrata di nuovo. Lo sguardo sembrava liquido come se continuasse a fissare la distesa del mare in attesa che le riportasse qualcosa…
Molte donne hanno perso in mare i loro bambini, non sono riuscite a trattenerli a sé, li hanno visti ‘scomparire’, non morire, e sembrano aspettare che il mare glieli riporti. Spesso il lavoro dei terapeuti si traduce nel restare accanto a loro ad aspettare, sapendo, ma senza mai poter parlare di quanto è accaduto: quello che è accaduto non è accaduto. Anche per Anitha tutto ciò non poteva in alcun modo essere ricordato, ‘sopravviveva’ in lei, come lei sopravviveva a sè stessa. Tutto il suo corpo e le sue giornate erano diventati un ‘monumento’ (sopra)vivente a questa ‘perdita’ impensabile e incontornabile psichicamente, espulsa dalla rappresentazione ma anche dalla percezione.

Marzo 2015

NOTA (1): Psichiatra e antropologa, psicoanalista SPI – IPA (Caserta).

Vedi della stessa autrice:

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Vai all’intervista con Virginia De Micco

 

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