Cultura e Società

“Lo specchio vuoto” di S. Toumi. Recensione di D. Scotto di Fasano

3/09/23
"Lo specchio vuoto" di S. Toumi. Recensione  di D. Scotto di Fasano

Parole chiave: Decennio nero, Rispecchiamento, Specchio vuoto interno, Lutto inelaborato, Sindrome da cancellazione

Samir Toumi, 2016, Lo specchio vuoto

Trad. dal francese di Daniela De Lorenzo, Mesogea edizioni, Messina, 2018, pp.75, 16,00 euro

Recensione a cura di Daniela Scotto di Fasano

De Lo specchio vuoto è impossibile parlare senza al contempo parlare dell’Algeria.

Ma, prima di entrare nel merito delle vicende narrate in questo piccolo, intenso e doloroso romanzo di Samir Toumi, non posso non evocare – in funzione delle mie libere associazioni – un libro di Ferdinando Scianna dallo stesso titolo – Lo specchio vuoto – il cui sottotitolo potrebbe essere molto appropriato anche per Lo specchio vuoto di Samir Toumi: Fotografia, identità e memoria. In particolare ovviamente per quanto attiene a identità e memoria.

Forse Samir Toumi non sa di questo libro, omonimo solo nella sua pubblicazione in italiano (nell’edizione francese infatti il titolo è L’effacement, La cancellazione), ma colpisce che Mesogea, la casa editrice italiana, abbia scelto il titolo di un libro, quello di Ferdinando Scianna, che ha a sua volta a che fare con questioni identitarie e temporalità storiche (oltre che geografiche) diverse al punto da essere contrapposte. Non voglio esagerare, ma l’inconscio fa sempre, in fondo, il proprio ‘mestiere’.

Tornando a Samir Toumi, sono due i protagonisti del suo piccolo, doloroso, straordinario romanzo: l’Io narrante; l’Algeria. Un’Algeria erede delle lotte per l’Indipendenza e del cosiddetto Decennio nero, la guerra fratricida che insanguinò il paese dal 1992 data del colpo di Stato militare al 1999, con l’elezione del presidente Abdelaziz Bouteflika.

Come per quanto concerne i lasciti nelle generazioni successive alla guerra d’indipendenza, anche con le pesanti eredità del Decennio nero ancora oggi l’Algeria è costretta a confrontarsi. Molti studiosi dei fatti algerini, come ad esempio Karima Lazali, vedono la realtà algerina – segnata da divisioni profonde – alla luce del concetto di fratricidio e della sua reiterazione specifica della realtà culturale islamica. Fratricidio come ossessione, dice l’Autrice, che – come nota Cristiano Rocchi nella sua recensione a questo testo – lo intreccia con l’assenza: “Il piacere del fratricidio è una costante storica che sfugge al ricordo” (Lazali 2018, p. 259).

Se ne hanno a mio parere nel romanzo le ‘tracce’ per entrambe le questioni. Impossibile dunque dire quanto l’Io narrante sia il figlio dell’Algeria e quanto l’Algeria e l’Io narrante non siano altro che il ‘rispecchiamento’ del vissuto di Samir Toumi nei loro confronti.

Sottolineo la parola vissuto, perché credo che essa sia la lente attraverso la quale lo scrittore riflette sul suo paese, l’Algeria, sui frutti della sua combattuta e sofferta indipendenza e, poi, sulla tragedia della lotta fratricida del Decennio nero e sul suo lascito di lutti.

Nella lettura entriamo in contatto con l’Io narrante, Io privo di un nome, e già questo, a mio parere, la dice lunga sul ‘niente’ che è seguito alla lotta per l’indipendenza (novembre 1954 – marzo 1962), condotta e vinta dagli indipendentisti algerini guidati dal Fronte di Liberazione Nazionale.

Ma anche, stando ancora al pensiero di Karima Lazali (2018), ella, come nota Rocchi, parla dei “patronimici sfigurati”, frutto delle ritrascrizioni in arabo dei cognomi modificati dall’amministrazione coloniale: “…i nomi ereditati durante la colonizzazione sono diventati pressoché irriconoscibili nel momento della ritrascrizione in arabo, poiché lo stato algerino ha continuato a fare riferimento ai codici di ritrascrizione imposti dall’amministrazione coloniale, ossia a ciò che aveva fatto del luogo della filiazione un non luogo” (p. 144).

Ed ecco forse il senso dell’anomia che caratterizza l’Io narrante de Lo specchio vuoto, per meglio dire, de L’effacement.

L’Io narrante è il figlio minore del “venerabile comandante Hacène, illustre mujaheddin, torturato e poi condannato a morte dalla potenza coloniale francese” (p.11). Hacène però non muore e nell’Algeria indipendente avrà incarichi importanti e soprattutto di potere, come tutti i suoi compagni di battaglia. Uomo molto mondano, “adorava avere ospiti, e casa nostra era uno dei luoghi di ritrovo più in vista di Algeri (p.35) […] Gli piaceva mangiare e beveva parecchio. […] Era un vero seduttore e piuttosto vanitoso” (p.37). Il protagonista invece era un tipo discreto, cui non piaceva mettersi in mostra, come dice di sé (p.38), al punto che, quando chiede alla madre di raccontargli com’era da bambino, si sente rispondere: “Come se non ci fossi” (p.39).

C’è in famiglia anche un fratello maggiore del protagonista, Fayçal, che a sua volta in adolescenza e poi in gioventù è stato un grande seduttore e l’anima delle feste.

All’inizio della storia, ormai anziano, Hacène è ‘scomparso’ da un anno. Ne consegue nella madre del protagonista una totale apatia, non si alza più dal divano, non scambia con il figlio nemmeno una parola.

Gli occhi della madre sono per il figlio ‘uno specchio vuoto’. Come forse lo sono sempre stati. L’effacement del figlio?

Al compimento del proprio quarantaquattresimo compleanno, si verifica per l’Io narrante la prima cancellazione: “Arrivato davanti allo specchio, non ho visto il mio riflesso. […] Terrorizzato e col cuore in gola, sono corso in camera e mi sono piazzato davanti alla specchiera. Anche lì, niente riflesso, non esistevo più.” (p.9).

Siamo alla prima pagina del primo capitolo, il cui titolo è La cancellazione. Il protagonista chiederà aiuto al Dottor B., che gli diagnostica la sindrome da cancellazione, di cui si sa – dice – “molto poco, sembra colpire per lo più individui algerini di sesso maschile nati dopo l’Indipendenza” (p.13) e suggerisce come unico rimedio una psicoterapia. L’Io narrante accetta e prendono il via le sedute, nonostante che sia del Dottor B. sia della sindrome da cancellazione il protagonista non trovi in Internet traccia alcuna.

Così, prende il via il romanzo, che pagina dopo pagina percorre – seduta dopo seduta – la vita dell’Io narrante.

Colpisce, nel corso delle rievocazioni dei quarantaquattro anni della sua vita, come il protagonista sia praticamente sempre stato una assenza: “dotato di un indubbio talento nel passare inosservato” (p.15); nel suo ufficio trascorre le sue giornate davanti al computer “come sospeso nel vuoto, fuori dal tempo” (p.16); la sua fidanzata gli parla ininterrottamente per nulla turbata dal suo silenzio, non aspettava “nessuna risposta da parte mia” (p.22); per Yasmine, la bella ragazza di Fayçal adolescente, della quale il protagonista è innamorato, “non esistevo davvero” (p.47); “La tecnica era semplice, l’avevo acquisita fin dall’infanzia: bastava restare immobili, non dire nulla […] In quei frangenti immaginavo di essere invisibile” (p.64).

Insomma, a me pare che sia proprio uno specchio vuoto interno quello che ha accompagnato la vita dell’Io narrante. Ma, nel prosieguo delle sedute, avviene il ‘miracolo’.

Il protagonista rompe il fidanzamento (e possiamo immaginare il senso deflagrante di sfida oltre che di messa in discussione di tradizioni ancestrali che tale rottura può avere in Algeria) e si trasforma.

Mentre però agli occhi del mondo – e del lettore – il protagonista inizia ad avere consistenza, corpo e sentimenti ‘umani’, di rabbia, reattività, insomma dal punto di vista del comportamento non è più ‘invisibile’, davanti allo specchio non esiste, definitivamente, più (p.70).

Nel secondo capitolo – Orano – c’è un Io narrante nuovo: capace di stupirsi, di emozionarsi, di godere, di diventare, come Hacène, “seduttore e piuttosto vanitoso”, di permettersi fame di vita e appetiti di molti tipi, amicizie, calore, anche il calore delle docce calde che lo mettono in contatto fisico con il proprio corpo e con la sensazione di avere e essere un corpo.

Mi sono chiesta perché a Orano… Che, certo, è un famoso luogo di ricreazione, che rappresenta soprattutto, nell’immaginario algerino, la città liberale, festosa, con il suo lascito andaluso ed europeo e il raï.

Ecco perché forse convocare la religione – apparentemente praticamente assente dal libro –, come sto per fare, potrebbe apparire come un riflesso un po’ condizionato, dal momento che in questo romanzo si parla dell’Algeria senza focalizzarsi sull’islam, come mi ha fatto notare, sensatamente, Livio Boni.

Ma ritengo, in quanto non posso non pensare all’inconscio e alle sue scelte, che non sia un caso che proprio da Orano l’Algeria africana e islamica abbia mandato un segnale a papa Francesco. Orano, capitale del vivere insieme è solo uno dei titoli con cui la stampa algerina ha accolto  la beatificazione di diciannove religiosi cattolici  vittime di attacchi islamisti tra il maggio 1994 e l’agosto 1996. La cerimonia di beatificazione è stata celebrata l’8 dicembre 2018presso il santuario di Santa Cruz a Orano, avvenimento straordinario per un paese quasi completamente musulmano.La scelta della sede ha voluto evocare l’autobomba sull’uscio della Curia che provocò nel 1996 la morte del vescovo di Orano Pierre-Lucien Claverie assieme all’autista e amico musulmano Mohammed.

Io credo che – non so quanto consapevolmente, ma penso non a caso, in base alle leggi del pensiero inconscio – che per questo il protagonista scopra proprio a Orano le proprie capacità – e possibilità – umane di essere nella vita. Senza dubbio perché Orano è nell’immaginario algerino simbolo della libertà, della disinibizione, del piacere, ma credo anche perché Orano si lega oggi anche alla pesante eredità fratricida del decennio nero, ne è nell’immaginario algerino anche la cifra complementare.

Infatti il lettore si emoziona assieme al protagonista, ma… arrivano, nel terzo e ultimo capitolo, i Vuoti di memoria, frase che dà il titolo al capitolo. Non voglio dire molto di più per non guastare al lettore la lettura di questo interessante – e bello, è il caso di dirlo – piccolo romanzo.

Aggiungo solo che il ritiro è massiccio, il vuoto è di immagine, di memoria, mentre al suo posto sopravvengono fantasie sempre più consistenti sia di identificazione con il padre sia con la certezza, finalmente!, di esserne il figlio preferito.

Forse è anche per questo che l’Io narrante non ha nome proprio?

Egli è – sempre stato, ma ora lo ‘sa’ – Hacène? Con il corteo di fantasie paranoiche che ‘necessitano’ del nemico. Ora finalmente l’Io narrante è l’FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Ma in tali fantasie è anche fratricida nei confronti di Fayçal…..

Ecco perché credo che parlare della vicenda del protagonista sia parlare dell’Algeria. Il terzo e ultimo capitolo narra di un paese che non ha ancora elaborato l’idealizzazione dei padri fondatori (dei quali è metafora Hacène) e non ha fatto i conti con il Decennio nero, su cui – dopo la proliferazione delle amnistie –  sono calati il silenzio e l’oblio: gli studiosi parlano infatti, a proposito del clima politico algerino seguito al Decennio nero, di amnesia più che di amnistia. Il nuovo governo, rieletto, non si è prodigato – come è accaduto in Sud Africa – a lavorare sulle radici del male, ma si è limitato a una restaurazione dell’ordine: proprio come accade all’Io narrante de Lo specchio vuoto nelle pagine finali del romanzo.

In effetti oggi il tema della sicurezza resta centrale nell’agenda politica algerina.  Il Decennio nero ha comportato l’aumento delle forze di sicurezza, oltre che la loro progressiva specializzazione e professionalizzazione, anche grazie all’arrivo al governo dell’uomo forte Bouteflika: il Dottor B.?

In fondo, l’iniziale è la stessa…..

L’Algeria è l’Io narrante, schiavizzata da un passato eroico irreplicabile, irraggiungibile, oppressa da un lutto inelaborato che getta la propria ombra sull’Io degli “individui algerini di sesso maschile nati dopo l’Indipendenza” (p.13), che hanno subìto la ferocia del Decennio nero, con la conseguente vera e propria sindrome da cancellazione del futuro di una nazione?

L’intero romanzo, sia in termini individuali che storici e sociali, è, a mio parere, impregnato di psicoanalisi.

Jacques Lacan (1938, 1949) introduce in ambito psicoanalitico il concetto di “stadio dello specchio”, rifacendosi a Wallon (1931). Fin dalla prima formulazione, Lacan, come Wallon, sottolinea l’impotenza del piccolo umano alla nascita (l’Algeria, metaforicamente, alla sua nascita come nazione indipendente?), che fa sì egli non possegga, alle origini della sua vita mentale, un’immagine di sé unitaria e integrata. Secondo Lacan, proprio tali fattori fanno del piccolo umano un essere sociale, poiché il suo sé ha fin dall’inizio a che fare con elementi che abitano sia il sé che gli altri, in senso lato l’ambiente, dal quale dipende per la soddisfazione dei suoi bisogni e per sopravvivere. E’ con lo “stadio dello specchio” che il neonato sperimenta una prima consapevolezza di sé come un tutto unitario.

Ma è stato Donald Winnicott (1971) a descrivere a fondo il ruolo giocato dalla madre come “primo specchio” per il bambino: “Ora, ad un certo punto, viene il momento in cui il bambino si guarda intorno. Forse il bambino al seno non guarda il seno. E’ più probabile che una caratteristica sia quella di guardare la faccia. […] Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è se stesso.” (Winnicott, 1971). In tal modo, secondo Winnicott, la madre, tra i sei e i diciotto mesi del neonato,sostiene la formazione della personalità del bebè, offrendogli come uno specchio la visione di se stesso negli occhi – nella mente – di un altro. In altri termini, precursore dello specchio nello sviluppo è lo sguardo materno. Secondo l’Autore, se la madre è incapace di fungere da specchio, il bambino sarà privato della possibilità di iniziare a costruire uno scambio significativo con il mondo.

Quello che accade al protagonista de Lo specchio vuoto?

Quello che accade oggi in Algeria, dove lo sguardo degli eroi dell’FLN non ha rispecchiato altro che se stesso, impedendo ai nati dopo l’indipendenza di costruire uno scambio significativo con il loro mondo? Dove l’amnesia cancella in apparenza l’orrore del Decennio nero, con la progressiva specializzazione e professionalizzazione dei sistemi di sicurezza?

Infine, prima di arrivare alla conclusione, ritengo (e sono grata a Livio Boni che me l’ha suggerito), che vada spesa ancora una breve riflessione su Fayçal, il fratello maggiore del protagonista, che si è trasferito a vivere a Parigi, dando colà il via a una serie innumerevole di attività professionali una più fallimentare dell’altra.

Senz’altro, in termini individuali, Fayçal rappresenta l’esito infausto che in letteratura psicoanalitica sappiamo frequentemente caratterizzare la vita di soggetti viziati da cure genitoriali eccessivamente protettive.

Senz’altro però, in chiave metaforica e metastorica, Fayçal rappresenta anche la gioventù algerina (sovente quella più economicamente agiata e colta) che scelse di spostare la propria vita in Europa, in particolare nell’ex potenza coloniale, la Francia. Trovandovi senza dubbio, in molti casi, una libertà e un’autonomia inimmaginabili in Algeria, ma spesso soffrendo – come Fayçal nel romanzo – un grande malessere (forse legato a sensi di colpa nei confronti della propria origine e della propria gente) e autodistruttività.

La conclusione insomma è amara, nessuno dei due fratelli (l’Algeria?), almeno per ora, troverà alla fine della propria storia il senso del vivere.

Bibliografia

Lacan J., 1938, Les complexes familiaux, trad. it. parziale in Mannoukian A., 1974, a cura di, Famiglia e matrimonio nel capitalismo europeo, Il Mulino, Bologna, 1974, pp. 449-487.

Lacan J., 1949, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, trad. it. in Lacan J., 1966, pp. 87-94., Scritti, Einaudi, Torino, 1974

Lazali K., 2018, Il trauma coloniale. Indagine psicopolitica della colonialità in Algeria, Astarte Edizioni, 2022, Pisa.

Winnicott D. W., 1971, La funzione di speccbio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile, trad. it. in Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974, pp. 189-200.

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