L’ITALIANO
Parole chiave: Freud, Ricordi di copertura, Contiguità, Afriche
L’Italiano, 2014, di Shukri al-Mabkhout
A cura di Daniela Scotto di Fasanofre
Edizioni e/o, pp. 366, International Prize for Arabic Fiction 2015
Shukri al-Mabkhout ha dichiarato che anche quando ne L’Italiano ha parlato della Storia, l’ha fatto in modo finzionale, romanzesco, pur dicendo la verità: molto spesso ha detto – la fiction dice la verità.
A proposito di questa dichiarazione, ho pensato a uno ‘stratagemma’ cui lo scrittore è ricorso per parlare di fatti scomodi in modo finzionale.
Il pensiero è però andato anche al terzo tipo dei ricordi di copertura descritti da Freud (1899), dove un contenuto manifesto ne copre un altro e il nesso tra il ricordo di copertura e l’impressione coperta è di contiguità nel tempo. Il ricordo di copertura è allora in tal caso contemporaneo o contiguo.
Come ne L’Italiano? In effetti, in una bella intervista rilasciata a Giacomo Raccis (2017) Shukri al-Mabkhout ha dichiarato: “Possiamo avere le idee che vogliamo, ma in realtà, da qualche parte, siamo prigionieri del nostro patrimonio culturale, dei nostri riflessi, della nostra psicologia – che è fragile: questa esitazione esprime il fatto che le idee, anche quelle straordinarie e nobili, nella realtà prendono un’altra dimensione, che mostra questa esitazione dell’uomo. È per questa ragione che Abdel Nasser rappresenta la sinistra, rappresenta una generazione, la mia generazione. Ma soprattutto – ed è la cosa più importante – in questo personaggio io ho cercato di esprimere, come posso dire…, l’aspetto umano che condiziona il rapporto tra un ideale e la realtà, questo avanti-e-indietro che alla fine dei conti conosciamo bene. […] Abdel Nasser esprime quindi questa incertezza, questo va-et-vient della società tunisina di un’epoca che non è così lontana.”
Credo che possiamo individuare la contiguità nel fatto che la generazione del protagonista rappresenta quella dello scrittore e il contenuto manifesto – nel romanzo vicende destinate a non durare nel tempo e rapporti destinati a fallire – copra quello latente: il dubbio che si cambi per non cambiare, come in Tunisia nel passaggio dal regime di Habib Bourghiba, cioè da una Tunisia ‘moderna’, a quello di Ben Ali, suo ex ministro dell’interno.
L’Italiano prende il via a fine giugno o inizio luglio 1990 a Tunisi. Si tratta di un momento denso di conseguenze per la storia del paese, quando dal regime di Bourghiba si passa a quello di Ben Ali.
Siamo in un cimitero, al funerale di hajj Mahmud, il padre del protagonista (come ne Lo straniero di Albert Camus, ma lì il funerale era quello della madre): “Chi era in prima fila aveva visto Abdel Nasser dare un calcio con i suoi pesanti anfibi in faccia all’imam [sheikh Allala] che si trovava all’interno della fossa e predisponeva la salma all’inumazione” (p.11).
Abdel Nasser, L’Italiano protagonista del romanzo, è un uomo complesso. Di sé dirà, all’epilogo delle molte vicende cui assisteremo nel dipanarsi della storia: “«Io non sto bene, e non starò bene neppure in futuro. Né lo sono mai stato prima d’ora. […] Perché fin da piccolo sono abituato ad avere una doppia vita.»” (p.23).
Di lui la madre, hajja Zeinab, la lady di ferro della casa, dice: “Da un figlio del peccato non ci si può aspettare nient’altro che vergogna!” (p.12). Fa in tale dichiarazione la sua comparsa una delle cifre del romanzo e dei suoi protagonisti: l’ambiguità.
Legittimo ovviamente chiedersi di chi possa essere figlio Abdel Nasser, dati i suoi tratti così poco tunisini: del peccato? Infatti, vedremo come nel prosieguo della storia sarà inevitabile pensare che Shukri al-Mabkhout lasci supporre in Abdel Nasser, l’Italiano, “l’esistenza di un fantasma inconscio impregnato delle emozioni della madre, quando lui era ancora nel grembo materno” (Green 1992, p.92). Di fatto, un alone di ambiguità accompagna lo sviluppo del romanzo: hajja Zeinab, alle amiche che insistentemente le chiedono nel corso degli anni da dove le sia saltato fuori un figlio così bello e soprattutto così diverso dagli altri cinque, lei stessa “mascherava l’imbarazzo con una risposta scherzosa: «L’ultimo sfizio prima di chiudere la fabbrica».” (p.28). Risposta ambigua, dal momento che dopo Abdel è venuta al mondo un’altra figlia, la sorellina minore Yusr…. Inoltre, si Mahmud, il padre, in un episodio in cui la tensione tra lui e Abdel per un’accesa discussione era alle stelle, dando uno schiaffo “al ragazzo insolente […] sbraitò: «Sta’ zitto, bastardo!»” (p.22).
Peraltro, Abdel definisce ambiguo il rapporto con si Mahmud (p.38), che “fingeva” (p.39) di sgridarlo.
Ci sono poi tre sorelle; con la maggiore, Juvaida, Abdel ha un pessimo rapporto, lei disapprova i libri che lui divora “fin da quando era piccolo, libri che portavano alla miscredenza, all’immoralità” (p.12). In effetti, Abdel Nasser cresce ‘contro’. Perché questo ‘crescere contro’? Contro cosa? Contro chi? Tra le molte ragioni, ne emerge una dalle pieghe del passato connessa alla vicina di casa lalla Jnina, la moglie di sheikh Allala, che al cimitero era “La sola persona che sorrideva – un sorriso misterioso e ambiguo […] «Abdel Nasser ha ragione» – disse – «Io al suo posto avrei fatto di peggio»” (p. 13), lasciando tutti ovviamente costernati.
Abdel, da bambino fino all’adolescenza avanzata, è stato fatto oggetto delle attenzioni ambiguamente abusanti della donna e da quelle più esplicite e violente di suo marito, l’imam sheikh Allala preso a calci da Abdel Nasser mentre ne seppelliva il padre.
Si profilano vicende torbide, con storie che allungano la loro ombra sul presente, anche quello: “della Tunisia: e infatti al-Mabkhout ha già annunciato che questo romanzo avrà un seguito che porterà Abdel Nasser, detto ‘L’Italiano’ per la sua bellezza, fino ai giorni nostri.” (Raccis, 2017).
Da sottolineare l’evenienza della contemporaneità della sepoltura del padre della Patria Bourghiba e quella del padre dell’Italiano. Un caso?
C’è poi in famiglia Salah ed-Din, il fratello maggiore di dodici anni (importante cattedratico in Svizzera, dove vive con la moglie svizzera Carla), “tenuto in gran considerazione per tutto ciò che riguardava l’economia e le politiche monetarie del Maghreb e dell’Africa” (p.17).
I due fratelli si stimano e apprezzano reciprocamente, ma “La verità era che avevano un rapporto ambiguo” (p.18). Rappresentano i due volti della Tunisia: Abdel ha intrapreso un percorso particolare, “il suo stile di vita non era adatto a una società conservatrice come quella tunisina che non riconosceva la libertà individuale e non rispettava le scelte del singolo” (p.18). Abdel è le speranze della Sinistra, quella studentesca in particolare, in lotta contro la montante marea degli islamisti. Salah ed-Din è invece il volto della Tunisia conservatrice, di cui non mette in crisi la realtà secolare ma la ‘mimetizza’ sotto spoglie europee condizionate però dall’atmosfera oppressiva del potere. Salah ed-Din insomma metafora di quella Tunisia finalizzata “a rafforzare la posizione della Tunisia nel mercato globale, e in particolare i rapporti dell’economia tunisina con quelle europee, in primis Francia e Germania. E sottolineava il fatto che le politiche sociali legate al settore economico erano semplice populismo che aveva portato alla crisi dell’Unione generale tunisina del lavoro nel 1978 e alla Rivolta del pane nel 1984” (p.19).
Mediante Salah ed-Din, Shukri al-Mabkhout ‘dialoga’ a mio parere con un altro scrittore tunisino, Kamel Daoud, che si rifiuta di scrivere in arabo per prendere, a suo dire, le distanze dai valori negativi dell’islamismo. Riprenderò il tema più oltre.
Ma perché la persona, l’uomo Salah ed-Din vive altrove? Solo perché studi e professione lo hanno allontanato dal suo paese o qualcos’altro ha svolto un ruolo in questo suo prendere definitivamente le distanze dalla terra d’origine, al punto che quando gli capita di tornare in Tunisia si limita a contatti ‘toccata e fuga’ con i suoi familiari? Da chi è fuggito? Da chi sta lontano? Come sappiamo, e come già ho detto, come psicoanalisti sappiamo che nulla è ‘a caso’. In un dialogo denso di verità e emozioni, Abdel chiede al fratello, a sorpresa: “«Perché sei scappato in Francia e hai abbandonato Jnina?[…] Hai lasciato Jnina da sola, l’hai rovinata. […] eravate innamorati, le hai fatto perdere la verginità e poi non hai voluto sposarla.»” (p.24). Ma la verità non è questa: Jnina, ragazza orfana di madre e viziata dal padre, che sembrava una donna fatta, attraente e seducente e aveva relazioni con molti ragazzi, un giorno d’estate, si intrufolò nella stanza del ragazzo timido, che al solo vedere le ragazze diventava tutto rosso dalla vergogna, “«e si era spogliata davanti a me. Era la prima volta che toccavo il corpo di una ragazza. E successe quel che successe. Ma ciò che tu non sai è che il mio rimorso fu forte quanto la gioia di quell’esperienza. Non puoi immaginare quanto. […] Quella è stata la prima e l’ultima volta. Tutti sapevano tutto ma la politica del silenzio la faceva da padrona. [..] Può darsi che io sia stato la causa del matrimonio di Jnina con ‘Allala il derviscio o della morte di suo padre. Ma non volevo essere io a pagare il conto nel bordello di hajj esh-Shadhli. Tutti c’erano entrati gratis un sacco di volte.»” (pp.25-26).
Come vedremo, sarà Abdel, fin da quand’era piccolo, “a pagare il conto di tutte le fatture” (p.26).
La voce narrante è quella dell’amico d’infanzia di Abdel, che lo trascina via dal cimitero e lo porta lontano, impedendogli di arrivare a strangolare, forse, sheikh Allala. Capiremo il senso di tale amara riflessione più avanti, quando il “ragazzino scontroso” (p.42), divenne il beneficiario di un accordo segreto e apparentemente incomprensibile tra i suoi genitori e il marito di Jnina (il cui rapporto con la donna era di violenti scontri continui), che la portò a vivere nella casa di Abdel, trattata da Zeinab come un’altra figlia (p.25). Qui, lei “iniziò a occuparsi di lui: gli faceva il bagno, lo coccolava, giocava con lui. […] In quei giorni iniziò a conoscere […] il profumo di Jnina […] lei lo guardava […] gli sorrideva […] a volte gli chiedeva di giocare al gioco del dottore.” (p.43).
Il rapporto ambiguo e segreto andrà avanti a lungo, con inevitabili lapsus (spesso Jnina lo chiamava col nome del fratello), costituendosi come manipolazione psichica del ragazzino. Un rapporto che lo segnerà nel profondo nel suo rapporto con le donne, senza che egli ne sia consapevole, se non molto tempo dopo. Al fratello che gli dirà che gli pare che Abdel parli di sé come del bicchiere mezzo vuoto, egli risponde “«Il bicchiere era in frantumi fin dall’inizio. E io non sono stato in grado di rimetterne insieme i pezzi […] fin da piccolo sono abituato ad avere una doppia vita»” (p.23).
Infatti, nella vita de L’Italiano, segreti, ambiguità, sospetti, storie parallele scorrono, apparentemente, senza intrecciarsi, comportando però slittamenti di senso, fratture dolorose e irrimediabili, per cui – oltre che come thriller intrigante – la vicenda narrata può essere vissuta da chi legge come la storia di un complesso processo analitico.
Questo il ‘contenitore’, per così dire la ‘forma’ che il romanzo assume, ma il contenuto che dà ‘forma’ alla forma è un doloroso atto d’accusa sia alla situazione politica e economica per come degenera da Bourghiba a Ben Ali (compresa la “frammentazione cancerogena della sinistra burocratica”, p.61”), a livello sociale, sia, a livello individuale, a ciò che porterà a fallimento le vicende di tutti i personaggi del romanzo.
Zeina, la moglie, compagna di battaglie all’università, è una ragazza bellissima, di origini berbere, “una filosofa che eccelleva nell’arte di argomentare” (p.127), “figlia della politica di Bourghiba, il quale aveva fatto in modo che le donne si credessero forti al pari degli uomini” (p.53).
Il cui nome (sarà un caso?) evoca per assonanza quello della madre di Abdel: Zeinab…
La storia tra loro prende il via durante una manifestazione universitaria, per cui saranno portati in prigione per alcune ore. In tale circostanza, Zeina dice a Abdel che da lui si era sentita protetta, “le aveva permesso di tornare a sognare. Non sognava da tanto tempo. Da quando era una bambina. Lui l’aveva riportata nei campi prima che il ricordo del grano e degli anemoni svanisse” (p.111). Qui, inevitabilmente, il mio pensiero è andato all’episodio dell’incontro della Volpe con il Piccolo Principe. Un incontro destinato a non durare, come tutti quelli di Abdel con le donne descritti nel romanzo, a differenza che con gli uomini. Tra questi, in particolare l’amico d’infanzia nonché voce narrante, che confessa di non essere riuscito, “nonostante gli studi di filosofia e quella che Zeina definiva la mia ‘intelligenza’” a liberarsi dall’educazione ricevuta: “I miei genitori per me erano sacri, con buona pace di Freud.” (p.131). A proposito di tale affermazione, mi sono chiesta se l’Autore non intenda dire, tra le righe, dell’impossibilità che la Psicoanalisi possa ‘funzionare’ nel suo paese. Ad esempio, sulle pagine di un testo di filosofia di Zeina “c’erano delle annotazioni: punti interrogativi accanto a una frase tra virgolette o una riga verticale sul margine […] Qui e là, brevi commenti in francese […] L’unico capitolo pulito era quello sulla psicoanalisi.” (p.224). Troppe le dolorose contraddizioni che intrappolano soggetti capaci di pensiero critico e colti, risorse che non li mettono comunque al riparo dal peso della cultura e delle tradizioni del mondo arabo. A proposito dei pensieri della voce narrante, l’Autore ci mette in contatto con quella che potremmo definire l’inevitabilità dell’Edipo. Ne consegue che, “lungi dal prevederne l’obsolescenza come proclamano molti autori, io consideri oltremodo necessario il modello che ne dà conto. A mio parere esso è ancora il concetto migliore che serva a unificare i campi diversificati della pratica psicoanalitica, terapeutica e non” (Green 1992, p.92). Edipo che, laddove il soggetto non possa ‘pensare’ l’omicidio del genitore come simbolico, non può essere, come è necessario accada, ‘superato’. O, per altri versi, possa – se agito, come nei casi di abuso – bloccarne irrimediabilmente una felice elaborazione. Lo si vede nel percorso amoroso di Abdel con tutte le donne con le quali avvia una relazione amorosa (Jnina, Zeina, Najla’, Rim), caratterizzato, sempre, da un’intensa sensualità, grazie a una scrittura impregnata di odori, sapori e fisicità. Fatto decisamente inconsueto e ‘azzardato’, per come dall’Occidente pensiamo la cultura araba. Eppure, paradossalmente, è proprio la sensualità a costituirne le radici, basti pensare a Sharazàd ne Le mille e una notte, l’eroina araba premusulmana. Vero è che, con Said, tale straordinario testo poetico ha alimentato una visione occidentale dell’Oriente ammalata di ‘orientalismo’, contraltare coloniale delle proiezioni del proprio rimosso in un altrove totalmente altro. Ma di fatto al-Mabkhout si riallaccia evocandoli capolavori della cultura araba: L’interprete degli ardenti desideri, del filosofo del XIII secolo Ibn’ Arabi, e Il giardino degli amanti, di Ibn Quayym Al Zawjiya. Un testo che mostra come nella lingua araba si declinano più di sessanta modi per dire ti amo. Infine, è da sottolineare quella che per me è una grande dote di questo libro: l’evocazione del pensiero – profondamente arabo, rafforzato dal Corano – che ritiene la sessualità e la sensualità alla base della vita relazionale, anche nel cibo, nei profumi, nei colori. Il Paradiso infatti è pensato come luogo di piacere sessuale infinito, dove è bene assaggiare il miele dell’altro, segno della attitudine divina della generazione. al-Mabkhout ha secondo me il coraggio di recuperare le radici stesse di una cultura altrimenti ‘demonizzata’, innanzi tutto dagli arabi stessi, che ostacola a parere di molti la possibilità di sviluppare un pensiero libero. Credo che nella scelta di riallacciarsi a queste radici, come in quelle di scrivere in arabo e di aver accettato di tradurre il libro in italiano, in inglese ma non in francese, al-Mabkhout avvii una mossa riparativa del fatto che “Il tempo del colonialismo ha fatto sì molti giovani non conoscessero l’arabo: e da lì è nata quella che chiamiamo la letteratura maghrebina in lingua francese. […] quello che io rifiuto categoricamente è un discorso come quello di Kamel Daoud, per il quale l’arabo è la lingua degli uomini di Stato e dei religiosi. Ma non è vero, è la nostra lingua. […] Il mio romanzo non è un romanzo religioso, e non sostiene il “discorso del potere”. Questa posizione ideologica […] vuole – come nel caso di Daoud – darsi uno statuto presso l’altro, presso colui che ha paura dell’Islam, che ha paura di questo mondo e di questi giovani radicalizzati effettivamente pericolosi. […] Credo ci sia bisogno di vedere che esiste tutto un mondo arabo che è diverso da quello che vediamo in televisione o di cui leggiamo sui giornali. Altrimenti il rischio è quello della mistificazione, di un’omologazione, che finisce per identificare l’Islam con il radicalismo.” (Raccis 2017)
Tali prese di posizione non impediscono a al-Mabkhout di mostrare quelli che anche nella Tunisia di Bourghiba e di Ben Ali si costituiscono come pesanti e patogeni condizionamenti culturali. Lo vediamo nelle vicende di tutte le protagoniste femminili, a partire da Zeina, che da bambina ha subito una profonda ferita, che l’ha condizionata pesantemente nel suo rapporto con l’altro sesso e nella dedizione che possiamo dire ‘maniacale’ con cui rifugge la fisicità. Infatti, si ‘rifugia’ nello studio coatto che, con Meltzer, possiamo pensare come claustrum e, con Jhon Steiner (che ne parla a proposito delle organizzazioni patologiche), come rifugio della mente. Tutta pensiero, si potrebbe dire di lei. Ma poi si racconterà a Abdel Nasser, l’unico a cui apre l’archivio delle sue sofferenze: “Tu non sai niente della tua principessa e di cosa ha sofferto per colpa dei berberi” (p.112), e lo dice “muovendo la testa e a volte anche il busto avanti e indietro” (p.112), evocando una sorta di manovra autistica di autocontenimento. “Successe un’estate” (p.113); la madre era assente, impegnata nella casa di sidi Khalifa – il suo datore di lavoro – per dieci giorni. “Un giorno era stremata dalla fatica […] Alla fine era crollata in un sonno profondo da cui si era svegliata poco prima dell’alba, in preda al panico […] sentì un coltello di carne penetrarla da dietro, puntando uma volta al didietro e un’altra al davanti. […] il coltello era solido e tagliente e si muoveva dentro di lei. […] Capiva che era successo qualcosa di indecente. […] poi perse conoscenza.” (pp.116-117). Chi? Il padre? Il fratello? Zeina non lo saprà mai. “Quel giorno Zeina sentì di essere diventata un’altra persona. Le passavano per la testa cose strane, e così si mise ad annotarle su un quaderno. In quel taccuino trovò un rifugio […] era una cosa che poteva fare soltanto in francese.” (p.119).
In tal modo, dichiara Shukri al-Mabkhout nell’intervista citata, ella “Parlando del suo corpo, delle sue ferite, ha fatto una sorta di terapia – alla maniera freudiana, perché parlando lei capisce se stessa. Quindi io ho provato a estendere questo problema psicologico al suo rapporto con la politica. Anche questa dimensione psicologica, tremendamente intima, per me rappresenta un’interrogazione politica, e non solo psicologica e individuale. È un unico sistema simbolico, profondamente intricato.” (Raccis 2017).
Purtroppo come psicoanalisti sappiamo che non è sufficiente ‘capire’ per guarire. Zeina infatti resta intrappolata nel claustrum testa, non sa come lasciarsi andare alla realtà del matrimonio con l’Italiano, come ‘coniugare’ i suoi ambiziosi progetti (confermati anche nella seduta di laurea dalla presidente della commissione, definita dagli studenti “la Tatcher della filosofia o la lady di ferro” – p.192 -, che le predice un futuro nel campo della filosofia in Tunisia e nel mondo intero), con la quotidianità del rapporto amoroso. Di cui abortirà, all’insaputa di Abdel, il frutto. Non c’è posto in lei per la donna che è: “Non sono contro l’animale che è in noi, però lo temo. Mi ha fatto del male e ha lasciato sul mio corpo i segni indelebili di profonde ferite.” (p.111). Infatti, quanto sia vero – come ha dichiarato Shukri al-Mabkhout – che il “rapporto con la politica, questa dimensione psicologica, tremendamente intima, rappresenta anche un’interrogazione politica”, è dimostrato dal fatto che questo “unico sistema simbolico, profondamente intricato” non sarà sciolto. Zeina non diventerà la brillante filosofa dei suoi sogni ma finirà per vivere in Francia all’ombra di Eric S., “un tizio francese piuttosto avanti con gli anni […] ricercatore in sociologia” (p.77) del Centro nazionale di ricerca scientifica francese, che Zeina conobbe quando era una studentessa dell’ultimo anno, prima ancora di avviare la relazione con l’Italiano che sfocerà nel loro matrimonio, e con il quale Zeina manterrà per anni un rapporto epistolare clandestino. Con Eric S. Zeina si sposerà dopo aver imposto all’Italiano il divorzio. Tra loro ci sono quarant’anni circa di differenza d’età e la loro relazione è, a parere della voce narrante, “complicata e ambigua” (p.304). Zeina fa dell’uomo Eric un ridicolo pupazzo che si getta ai piedi di chi lo ha costruito, prostrandosi come un povero schiavo (p.304), e come non chiederci quanta amara soluzione abbia trovato Zeina all’essere stata lei ‘pupazzo’ nelle mani di chi – fratello? padre? – l’ha violentata bambina. Facendo con Eric S. ‘bastione’, come Willy e Madeleine Baranger descrivono un rapporto dove i bisogni dell’uno fanno appunto bastione con i bisogni dell’altro. Eric S. infatti “potrebbe essere suo padre” (p.302) e appartiene – sempre secondo la voce narrante – a quegli uomini avanti con l’età che sposano una ragazza che ha la metà (o anche un terzo) dei loro anni perché “Credono che la donna restituirà loro la giovinezza” (p.304). Inoltre, “Eric era un sostenitore delle cause arabe e in particolare di quella palestinese. A me questa sua posizione sembrava un mix tra una visione romantica dell’Oriente e degli arabi e l’ideologia della sinistra schierata in favore dei popoli oppressi.” (p.302). “E’ una storia triste – dice la voce narrante – che ci mostra come questo paese […] spinga i suoi figli verso la rovina e la perdizione, annichilisca le persone intelligenti o faccia di tutto per arginarle e farle diventare come tutti gli altri, e a volte anche meno. Zeina voleva fare la ricercatrice universitaria, ma del suo sogno non ha realizzato nient’altro che vivere all’ombra di Eric da bambina insolente con cui lui si intrattiene, lui che per i nostri standard tunisini è un vecchio che vuol apparire più giovane e lascia carta bianca alle follie e ai desideri di lei, che finiscono per distruggere del tutto la sua dignità.” (pp. 305-305).
Credo non sia del tutto fuori luogo domandarsi se il ‘bastione’ che lega Eric e Zeina non sia costituito per lui da un inconscio bisogno di ‘riparare’ le ferite inferte dal suo paese alla Tunisia, bisogno impregnato per di più da “una visione romantica dell’Oriente e degli arabi” e da “l’ideologia della sinistra schierata in favore dei popoli oppressi.” (p.302); per lei, evocando il gioco del rocchetto illustrato da Freud guarda caso in Al di là del principio di piacere (1920),il fatto che con lui è Zeina a fare di un sostituto del padre colui con il quale può, da un lato, ‘agire’ un rapporto incestuoso alla luce del sole facendone, dall’altro, un “ridicolo pupazzo che si getta ai piedi di chi lo ha costruito, prostrandosi come un povero schiavo.” (p.304).
Un’altra figura femminile con la quale l’Italiano ha un intenso e carnale rapporto amoroso è Najla’, attraente, elegante, emancipata. Anche la vita di Najla’ avrà un epilogo amaro (diventerà prostituta d’alto bordo “con grossi squali della finanza e della politica” (p.309) “per debellare lo stress e la tensione causati dal fatto di lavorare nel governo di sua maestà il fautore del cambiamento, l’uomo dello zelo e del sacrificio per il bene della Patria.” (p.308). Ben Ali è, naturalmente, sua maestà…
Con Najla’ il primo incontro sessuale (una vera festa dei sensi) avviene quando Zeina è assente da casa il 6 novembre 1987, la notte in cui Ben Ali tradirà Bourghiba, il padre dell’indipendenza. Un caso? O possiamo supporre che Shukri al-Mabkhout alluda a una analogia tra i due tradimenti, che comunque cambiano il volto tanto delle vicende tunisine quanto di quelle narrate nel romanzo? La notte del primo rapporto con Najla’ e del suo primo tradimento di Zeina è per Abdel un incubo: “Si sentiva la testa pesante. Non capiva cosa gli stesse succedendo. […] Le immagini si accavallavano, si spintonavano. Cosa gli stava succedendo? […] Gli venne in mente una poesia di Nazim Hikmet sulle spiagge in cui non era tornato, sui luridi bar che non aveva visitato, sui vini migliori, ma anche i peggiori, che non aveva assaggiato. Cosa aveva vissuto, sulla soglia dei trent’anni? C’era una lacuna, lì da qualche parte. Qualcosa di oscuro.” (pp.239-239).
Le storie narrate riflettono quella di un paese in evoluzione in modi per certi versi incomprensibile all’Occidente, come bene chiarisce Shukri al-Mabkhout nella già citata intervista, sostenendo che la storia della Tunisia è una storia a spirale, dove conflitti precedenti si ripresentano dopo la rivoluzione. Così, nell’intero romanzo, il ‘peso’ del corpo si presenta e ripresenta, giocando nella vita dei protagonisti un ruolo essenziale. Forse l’Autore fa intendere, anche, che, se non si riesce a trovare il modo di lasciarsi alle spalle la rappresentazione simbolica del corpo di matrice arabo-musulmana e tunisina, non si riesce a essere – per quanto sia umanamente possibile – liberi.
Shukri al-Mabkhout fa riflettere in tal modo su quanto accade quando emergono e si pongono tra loro a confronto anche conflittuale aspetti di sé negati, forclusi, rimossi, scissi, scoprendo, in modo perturbante, che l’Io non è padrone in casa propria. Tale ferita narcisistica si manifesta nell’intero romanzo in scoperte devastanti per i protagonisti facendo, peraltro, da lente d’ingrandimento delle ferite non risolte della storia della Tunisia, caratterizzata da una transizione problematica perché priva di punti di riferimento collaudati.
Abdel Nasser, come gli altri personaggi, è difatti in tensione tra ‘i’ prima e ‘i’ dopo. Quando aveva circa otto anni, “‘Allala il derviscio […] lo chiamò dalla soglia della moschea […] lo trascinò a sé con forza e lo fece entrare nella zona per le abluzioni. […] gli mise una mano sulla bocca […] si abbassò i pantaloni e tirò giù i calzoni corti del ragazzino.” (p.335). Dice la voce narrante: “Abdel Nasser mi disse che, dopo quell’episodio, aveva pensato al suicidio” (p.336). E ancora, quando Abdel ha circa dieci anni, “Prima di diventare imam e marito di lalla Jnina, ‘Allala il derviscio si era ritrovato solo con lui un’altra volta quando [questi] aveva nove o dieci anni e […] trovò ‘Allala il derviscio ad attenderlo, con le mani aperte e una risata diabolica.” (p.337). Due settimane dopo, l’ultimo episodio, il più grave: “Una mano pesante gli immobilizzò la nuca. Non riuscì a voltarsi. L’imam prese a leccargli il collo con la sua lingua ruvida mentre lui cercava di divincolarsi. Con una mano toccava le sue parti intime, con l’altra gli stringeva il sedere.” (p.339). In nessuno dei tre episodi l’imam riesce a portare a compimento l’atto, ma l’Italiano da allora convisse con questo aspetto di sé scisso, mai purtroppo elaborato. A nulla valse che la voce narrante gli ricordasse l’antico proverbio “Non è effeminato chi viene preso con la forza” (p.338), questa angoscia e questo fantasma lo accompagnano nel suo sviluppo, tanto che, con Rim, l’ultima donna con la quale, nelle ultime pagine, nasce un abbozzo di relazione, il problema mai ‘guardato negli occhi’ riemerge in modo traumatico: “Le tolse i vestiti. […] Quando si avvicinò al posto segreto, lei allungò una mano all’altezza del pube dicendo: «No…No… Sono vergine!». Si girò. Lui capì che gli stava offrendo qualcos’altro. Impazzì, ma restò immobile. […] Lei non lo vedeva […] Quando si voltò a guardarlo lo vide con gli occhi sbarrati, assente, come se si fosse appena ricordato di qualcosa. […] Lei notò quel pezzo di corda floscia. Era afflitto. In ginocchio sul letto. Gli occhi spalancati, tremava e poi di colpo crollò sul materasso.” (p.333). All’amico voce narrante racconterà (svelandogli per la prima volta le esperienze di abuso subite da parte dell’imam): “Nel momento in cui Rim si era voltata […] gli erano balenate in mente le scene delle aggressioni di ‘Allala” (p.335).
Emerge in modo traumatico e scioccante il rimosso inquietante? La lacuna, il qualcosa di oscuro?
A Zeina che gli disse: “«Sai cosa significa essere violata da adolescente? Sai come ci si senta sopraffatti, e come si taccia per paura o per vergogna o per il senso di umiliazione che si prova?». (p.120), Abdel rispose: “«Si… lo so… Giuro sul mio onore che lo so».”(p.120); e Zeina: “«Tu non sai niente di tutto questo. Voi avete quei coltelli di carne e li sfoderate sempre per sgozzare i sogni e tagliare i cuori pezzo per pezzo»”. (p.120).
E vado a concludere: una storia avvincente, che si snoda, come già detto, su segreti, su parole non dette, per percorsi paralleli, ma tra le righe, costante, vibra una sorta di ciò che in una sinfonia è la ‘forma ciclica’, cioè quella sorta di melodia, di materiale tematico, che si ritrova in più di un movimento come elemento unificante: la spirale di cui dice l’Autore? Come ha dichiarato Shukri al-Mabkhout, Abdel Nasser è della sua stessa generazione, che – come il paese – sta continuando a cambiare: “Dico continuando perché voglio seguirlo in altre tappe della sua vita.” (Raccis 2017).
In questo romanzo la forma ciclica è rappresentata a mio parere dalla storia a spirale della Tunisia, delle sue tradizioni, i suoi profumi, i suoi vincoli, i suoi sapori, la sua corruzione, le sue amarezze, le sue speranze, la crescita dell’islamismo (i cui il protagonista vede l’espressione dell’impoverimento delle aree rurali e il provincialismo delle città) e la sua repressione, il malcostume, il degrado, l’ombra della Francia che ricade pesantemente sull’Io del paese, lo mortifica, lo inchioda in un lutto mortifero….
Proprio in rapporto all’ombra dell’oggetto (il padre? La Francia?) che ricade sull’Io mi pare molto più coerente l’immagine della copertina dell’edizione de L’Italiano in lingua araba. Perché faccio riferimento allo stato depressivo per come l’ha descritto Freud nel 1917? Perché esso prima era diretto all’oggetto, e mi chiedo se – ovviamente a livello macrosociale –, per esplorare il lavoro mentale necessario al paese, una volta conquistata l’indipendenza, non possa essere utile ricordare come gli stati depressivi si caratterizzano per una identificazione con l’oggetto perduto (per di più, nel caso delle colonie, oggetto ‘ucciso’), e però anche amato con grande ambivalenza. Questa la ragione per cui il malinconico, identificato con l’oggetto (e come potrebbe essere altrimenti, nel fantasma del colonizzato?), rivolge su di sé l’odio una volta provato per l’oggetto. Sé che, di conseguenza, non solo è perduto, ma alimenta nel soggetto sentimenti di colpa e di autoaccusa: “L’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io, che d’ora in poi poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente l’oggetto abbandonato.” (Freud 1917, p. 108). Ne risulta, nella descrizione di Freud, un soggetto impoverito, schiacciato dall’ombra di ciò che ha perduto, privo di futuro, il cui ‘lavoro’ (come lo definisce Freud), consiste “nel preservare la pertinace adesione all’oggetto” (ivi, p.105): l’ombra dell’oggetto che cade sull’Io. Nello stato melanconico si soffre per un qualcosa che rimane ‘enigmatico’ ma ‘inconsapevole’, quindi tanto più pericoloso, in quanto comporta un progressivo svuotamento del senso dell’Io. Shukri al-Mabkhout descrive con amarezza lo stato di apatia morale e sociale in cui la Tunisia precipita con Ben Ali, ma capiamo che anche nella Tunisia ‘moderna’ di Habib Bourghiba le cose non andavano molto meglio.
L’Italiano è anche stato censurato: nel giorno in cui ad Abu Dhabi Shukri al-Mabkhout doveva ricevere il premio come primo romanzo tunisino a vincere il Booker prize arabo, ne fu vietata la vendita in tutti gli emirati. Fortunatamente, il veto fu ritirato dopo pochi giorni.
Il romanzo non lascia molto spazio alle illusioni: la reale – ma nei fatti ‘inutile’, si potrebbe amaramente dire – libertà e autonomia di tutte le figure femminili descritte nel romanzo di fatto non le mette in grado di salvarsi nell’atmosfera tunisina intrisa di maschilismo e omertà; della Francia le cicatrici – quando non le ferite ancora aperte – sono ben visibili nel credito attribuito alla cultura francese e nella sudditanza intellettuale che ne consegue.
Ancora molto c’è da fare, soprattutto da desiderare, questo sembra essere nelle ultime pagine il messaggio di Shukri al-Mabkhout, che di fatto lascia la storia ‘tronca’, senza una autentica conclusione. Perché questo è di fatto vivere? Ma sappiamo anche che la vita va avanti, e L’Italiano avrà un seguito, al quale Shukri al-Mabkhout sta lavorando.
La Psicoanalisi è ‘palpabile’ in ogni pagina de L’Italiano, essendo il romanzo costruito su – e mediante – dialoghi, sia introspettivi, quando il narratore riflette su di sé, su Abdel Nasser e gli altri personaggi della storia, sia nei dialoghi – moltissimi – tra i protagonisti.
Forse esagero, ma, a mio parere, L’Italiano è anche un’amara ma bella e intensa storia analitica, che parla dell’implosione del suo protagonista: la Tunisia. Facendo riferimento all’intervista citata, credo sia importante concludere con una sorta di post scriptum. Lì infatti Shukri al-Mabkhout rivendica – in netto contrasto con “Kamel Daoud, per il quale l’arabo è la lingua degli uomini di Stato e dei religiosi. Ma non è vero, è la nostra lingua. E in ogni caso, la nostra lingua non è il francese, perché noi siamo stati colonizzati dai francesi.” (Raccis 2017). Shukri al-Mabkhout sostiene che oggi “c’è una nuova nozione, quella della «letteratura-mondo». Si tratta di una scelta, e quello che io rifiuto categoricamente è un discorso come quello di Kamel Daoud. La sua presa posizione significa mettere tutto ciò che è scritto in arabo in secondo piano, come se fosse una lingua imbevuta di religione e di idee tradizionaliste, mentre per affrontare il nuovo bisogna scrivere in francese. Ma non è vero. Il mio romanzo non è un romanzo religioso, e non sostiene il “discorso del potere” (Raccis 2017).
L’Italiano, insomma, scritto per scelta in arabo, italiano e inglese ma non in francese, rivendica, soprattutto nei confronti della Francia, la libertà di lavorare con e sulla lingua araba per esprimere la contemporaneità. Dissente insomma da una posizione che “vuole – come nel caso di Daoud – darsi uno statuto presso l’altro, presso colui che ha paura dell’Islam […] Ebbene cosa vuole comunicare? Anche io sono moderno; anche io difendo la libertà, sono contro il fanatismo, il radicalismo, il jihadismo. Non solo tu perché parli in francese e scrivi in francese.” (Raccis 2017) Shukri al-Mabkhout infatti afferma che “Il francese non è mica sempre stato una lingua che accetta i valori umani: c’è stato bisogno di un lavoro.” (Raccis 2017); così, oggi, per l’arabo. Ha questo dissidio un riferimento con il lavoro del lutto come descritto da Freud (guarda caso alla fine della prima guerra mondiale) in Lutto e melanconia? E comunque, sempre in rapporto al dissidio tra i due scrittori, credo che Shukri al-Mabkhout ci inviti a ‘lavorare’ sull’arabo e le sue plurime valenze tanto storiche quanto attuali con, per dirla con Bion, la “visione binoculare”, cioè con uno sguardo che sappia declinarsi – con le parole di Beckett – “ora faro ora mare”.
Bibliografia
Baranger W., Baranger M., 1961, La situazione analitica come campo dinamico, in La situazione analitica come campo bipersonale, Cortina, Milano, 1990.
Bion W.R., 1962, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972.
Freud S. 1899, Ricordi di copertura, OSF, vol.2, Bollati Boringhieri, Torino, 1989
Freud S., 1917, Lutto e melanconia, OSF, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Freud S., 1920, Al di là del principio di piacere, OSF, vo.9, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Green A., 1992, Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci, Alpes, Roma, 2022
Raccis G., https://www.labalenabianca.com/2017/10/16/costruire-la-modernita-larabo-intervista-shukri-al-mabkhout/