ORI GERSHT
Intervista a Lorena Preta
di Davide D’Alessandro
Sabato 26 e domenica 27 novembre, nella sede della SPI di Roma, in via Panama 48, si terrà la Giornata della ricerca e dello stato dei gruppi di ricerca della Società Psicoanalitica Italiana, avente come titolo: Still life. Ai confini tra vivere e morire. Sull’evento ho rivolto alcune domande a Lorena Preta, Membro Ordinario della SPI e dell’IPA, che ha scritto e diretto per molti anni varie serie di programmi scientifici per la RAI-TV ed è stata direttore della rivista “Psiche” dal 2001 al 2009. Autrice di numerosi saggi e curatele, nel 2015 ha pubblicato con Mimesis “La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà”.
Che cos’è “Still Life” e cosa si propone?
La morte è una realtà che riguarda non solo gli esseri umani ma tutti gli esseri viventi, da quelli vegetali a quelli animali, e che caratterizza la vita dell’universo che ha un inizio, il big bang, e molto probabilmente una fine, anche se non sappiamo come si svolgerà.Eppure la condizione della morte, come supponeva Freud, è difficile da rappresentare persino nell’inconscio, anche se sembra che dalla nascita del pensiero simbolico in poi lo sforzo sia stato sempre quello di trovare dei modi per raffigurarla.
Il Gruppo di Ricerca Geografie della psicoanalisi ha già prodotto sei podcast su questo tema che sono pubblicati sul sito della SPI e dell’IPA[1] e che riguardano le modalità di rappresentazione della morte in varie culture del mondo. Emergono delle caratteristiche dominanti per ciascuna cultura che si rifanno direttamente alle mitologie e alle religioni o agli eventi storici più significativi dei vari Paesi.
Ci è sembrato fruttuoso continuare la riflessione soprattutto in un momento storico come questo, caratterizzato da una brutalità del presente fatta di conflitti ormai endemici in molte parti del mondo; una pandemia planetaria che ci ha coinvolti in maniera inusuale, collegata ad una crisi ambientale sempre più grave ed evidente che rischia di stravolgere i ritmi e la natura stessa della terra; lo spettro di una minaccia nucleare che a stento riteniamo possibile, dopo anni in cui si era allontanata l’idea di un pericolo immediato di questo genere; una realtà fatta di trasformazioni corporee sempre più avveniristiche dovute alle nuove tecnologie; una soglia indefinibile tra la vita e la morte dove il corpo è mantenuto vivo addirittura in stato di ibernazione. Fenomeni che ci interrogano costantemente sul confine tra il vivere e il morire.
La morte quindi in questo contesto riprende la scena prepotentemente anche se non sempre in modo esplicito. D’altronde la mancanza del senso del limite che si riscontra in questi fenomeni corrisponde forse a un tentativo di rappresentare la morte per allontanarla, negarla oppure superarla in maniera onnipotente.
Anche se i modi per raffigurare la morte sono stati i più vari nella storia dell’umanità, abbiamo evocato nel titolo un’immagine che si rifà all’arte e riguarda un genere di pittura che ha avuto il suo massimo fiorire verso la fine del 500. Still Life erano chiamati i dipinti raffiguranti oggetti inanimati, ‘nature morte’ in contrasto con le raffigurazioni di persone e paesaggi animati. Si tratta per lo più di frutta o selvaggine poggiate su tavole apparecchiate più o meno riccamente. Oggetti colti in uno stato di fissità anche se evocativa delle origini vitali che li hanno preceduti, un albero da frutta, un animale prima libero poi abbattuto, a volte anche solo degli oggetti, una brocca, una tazza, un vassoio. Ogni cosa fissata in un tempo tra la vita e la morte. La fotografia scelta come logo del Convegno è di un artista israeliano, Ori Ghersht, che vive a Londra da più di trent’anni e che spesso nelle sue opere fotografa nature morte che poi fa letteralmente esplodere, brocche che si frantumano, mazzi di fiori che si disintegrano nell’aria a rappresentare forse la violenza subita dalla sua famiglia e dal suo popolo ma soprattutto quella del tempo attuale.
In questo senso l’interrogazione è fin dal titolo del convegno quella sul confine tra il vivere e il morire, sia in una visione processuale della vita che ne considera i passaggi e le trasformazioni, che nel suo rapporto costante con la morte che fa di vita e morte una diade inscindibile.
Ospiti e interventi sono tutti di rilievo. Può illustrarceli brevemente?
Lo sforzo è quello di articolare un discorso che metta a confronto varie culture e diversi approcci disciplinari proprio perché il problema attraversa qualunque psicologia e qualunque teoria della vita sia dell’uomo che dell’universo. Per questo ascolteremo famosi psicoanalisti come l’indiano Sudhir Kakar che mediante il confronto diretto con il pensiero freudiano definisce i due immaginari, quello occidentale e quello indù e buddista, che considerano la morte come la fine soltanto del Sé individuale e un ricongiungimento ad una realtà più espansa. Attraverso l’analisi della poetica del pensatore e poeta indiano Tagore emerge l’idea che la morte ha significato “a causa” dell’esistenza della vita.
Altro discorso più direttamente collegato alla storia recente anche se fatta derivare da mitologie persiane delle origini, è quello della psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour che analizza la ribellione delle ragazze e delle donne iraniane che togliendosi pubblicamente il velo e sacrificando delle ciocche di capelli, mettono in scena un simbolo della mitologia iraniana. Sta nascendo una “nuova epica femminile” volta ad instaurare “un’etica della vita” contro quella della morte.
Anche lo psicoanalista argentino Mariano Horentsein si rifà a degli episodi storici nel tentativo di esplorare la zona tra la vita e la morte a partire dall’esperienza dei “desaparecidos” durante la dittatura latino-americana e dei Musselmaner, come venivano chiamati i prigionieri nei campi di detenzione nazisti destinati a morire di inedia ma anche i rifugiati e gli espatriati. Su questo piano lo psicoanalista stesso è un abitante di una zona “straniera” assimilabile, più che a un archeologo o a un detective, a un antropologo forense, qualcuno che non solo aiuta chi non osa vivere, ma anche chi non può morire.
Lo psicoanalista italiano Andrea Baldassarro si rifà al basilare scritto di Freud Al di là del principio di piacere per sottolineare come nella psiche ci sarebbe una spinta inconscia all’autoannullamento: non un desiderio di morte, ma un ripristino della condizione che precede la vita stessa. In questo senso ci sarebbe solo il piacere ultimo che corrisponde “allo scioglimento definitivo, alla perdita dei confini.” L’individuo vorrebbe in effetti tornare ad un “non luogo” un vuoto senza più tensione che come abbiamo visto si riaggancia alle visioni di culture orientali.
Daniela Scotto di Fasano e Marco Francesconi riflettono psicoanaliticamente sui rapporti tra “parti vive e parti morte del sé”, ipotizzando la possibilità di un processo difensivo che muta “l’angoscia di morte in morte dell’angoscia” ed esaminando anche i rischiosi riflessi collettivi di questa e altre operazioni mentali che introducono un’illusione di immortalità individuale mentre stiamo immettendo nella realtà umana una “possibile mortalità collettiva”.
Rosa Spagnolo esamina la questione da un punto di vista neuropsicoanalitico introducendo l’ipotesi che se pensiamo alla vita come “una struttura capace di evolversi in qualunque incarnazione materiale si adatti meglio ai suoi scopi”, possiamo immaginare che una vita possibile e diversa ci aspetti in un tempo a venire legata all’evolvere proprio degli organismi intelligenti. In questo senso il suo discorso si aggancia a quello di uno dei grandi ospiti del convegno, Brian Greene, il matematico e fisico statunitense studioso delle nuove frontiere dell’astrofisica.
Greene attraverso la narrazione della storia dei diversi eventi cosmici ci fa veder come da un ordine originario l’universo si è spostato inevitabilmente verso il caos, ma ha permesso la formazione di pianeti e galassie e anche, attraverso i meccanismi biochimici, l’evoluzione di una coscienza complessa come quella umana. “Dobbiamo accettare che non esiste nessun progetto grandioso: le particelle non hanno uno scopo e non esiste una risposta finale”. L’unica direzione in cui guardare per la nostra ricerca “è verso l’interno”, la nostra storia, la nostra cultura, la nostra umanità.
La studiosa di Storia Orientale Silvia Ronchey riporta la sua esperienza dolorosa ma ricca di affetti e di pensiero fatta accompagnando James Hillman negli ultimi momenti della sua vita. L’esperienza della morte è stata vissuta da Hillman “pensando e creando immagini”, cercando “l’immagine vera o ultima”. L’intento di questa esperienza estrema è stato “estrarre l’immagine vera della psiche dalle false immagini del mondo per sconfiggere la morte proprio nel momento in cui si ferma la vita”.
Nadia Fusini da studiosa soprattutto di letteratura inglese si riferisce alla morte intrecciando profondamente l’immagine del quadro di Hans Holbein J., raffigurante i due ambasciatori ai cui piedi giace un teschio non visibile all’osservatore se non adottando un punto di vista che lo rilevi per anamorfosi, a Shakespeare. Un ingombro allo sguardo che richiama l’esclamazione di Amleto “Ay, there’s the rab” per esprimere la problematicità del pensiero della morte di fronte al quale c’è solo l’impotenza. Gli ambasciatori del quadro sono ambasciatori di Lady Life o di Mr Death?
La morte, che spesso cacciamo ed esorcizziamo, con il Covid e la guerra è tornata violentemente a bussare alle nostre porte. Che tipo di ricaduta c’è stata sui pazienti?
Non tutti gli psicoanalisti hanno fatto la stessa esperienza con i propri pazienti, d’altronde questi sono molto diversi tra loro e le reazioni dipendono dai diversi vissuti e storie personali. In generale però c’è stato sicuramente soprattutto da parte dei giovani un allarme molto forte e un senso di sconcerto nel periodo della pandemia, tanto che sono stati istituiti sia da parte della Società di psicoanalisi che di altre Associazioni psicoterapeutiche degli sportelli di soccorso ai quali le persone potevano rivolgersi per avere un aiuto immediato e poi caso mai essere inviati ad una psicoterapia. Io non ho fatto questo servizio e quindi ho avuto esperienza solo dei miei pazienti e devo dire che mi è sembrato che sulle difficoltà impreviste della pandemia prevalesse una grande esigenza di continuità del lavoro analitico e quindi della messa a punto delle proprie vicende secondo le modalità percorse da ciascuno fin lì. Il tema nuovo riguardava semmai la distanza e il modo di poterla vivere non drammaticamente ma secondo un “sentire comune” al quale almeno nella mia esperienza tutti sono stati molto sensibili. Infatti, c’è stato anche il problema nella prima fase della pandemia della presenza nello studio analitico e la sostituzione della corporeità in presenza con quella del telefono o della visione skype, ma il desiderio della comunicazione usuale con l’analista è stato prevalente su ogni mancanza e perdita. Appena possibile d’altronde io personalmente ho ripreso le sedute in presenza che, senza demonizzare le altre forme di lavoro con il paziente, ritengo senza dubbio la condizione privilegiata perché si possa svolgere la vicenda analitica. Ho trovato molto più disturbante per i pazienti e per tutti le vicende della guerra che hanno introdotto delle angosce persecutorie e di catastrofe molto forti che si possono riscontrare anche nei sogni. È come se le vicende di conflitto, a cui ci richiama la realtà della guerra, avessero un ingresso più immediato nel vissuto e anche nella rappresentazione inconscia, che non quelle inusuali e sconcertanti del nemico esterno-interno, estraneo-familiare del virus. Ma questa distinzione andrebbe precisata meglio perché penso sia determinante rispetto a quello che è accaduto.
Soprattutto, però, io sono convinta che in generale la trascrizione anche inconscia degli eventi reali richieda molto tempo e si depositi anche a lungo in una zona di sospensione da cui solo molto più tardi rispetto all’evento può trovare una figurazione. Come succede peraltro per alcuni eventi traumatici. Ma la riflessione psicoanalitica sul tema della guerra e del trauma è veramente molto vasta, sia quella di Freud che si è trovato a doverla affrontare fin dalla Grande Guerra, che di autori successivi. Non è qui possibile riportare tutte le elaborazioni psicoanalitiche sul tema ma certo andrebbero tenute presenti proprio in questo momento storico in quanto estremamente pregnanti.
Che cosa può la psicoanalisi in un contesto così complesso?
Credo che si riferisca non solo al contesto della pandemia e della guerra ma anche a quello più generale cui facevo cenno nella prima risposta. Cioè alla situazione mutata su molti piani per la crisi climatica e il cambiamento introdotto dalle nuove tecnologie e dalle nuove forme di comunicazione. Per essere breve e non potendo certo dare neanche lontanamente una risposta esauriente, credo che la psicoanalisi per la sua natura stessa è forse una delle poche discipline e pratiche che possono evolversi più “consapevolmente” insieme al contesto culturale e sociale di cui fanno parte. La psicoanalisi è un pensiero della complessità di per sé. Concepisce la psiche come un insieme di livelli che interagiscono tra loro nella dinamica interna e in relazione all’ambiente esterno. Fornisce uno sguardo allargato sulla realtà e il suo intento dovrebbe essere quello di “problematizzare” il campo senza sottostare a illusori conformismi che eludono la drammaticità degli accadimenti e dei vissuti soggettivi collegati. Mettere in evidenza per esempio “l’immaginario sociale” che sottende ogni produzione culturale o sociale e che si collega inevitabilmente a quello individuale, costruendo quelli che lo storico della scienza Gerald Holton chiamava i themata sottesi ad ogni cultura, anche quella scientifica. Si tratta di mitologie del tempo non esplicite ma che possono orientare la comprensione stessa della realtà e determinare la direzione dell’agire sia individuale che collettivo. Attualmente per esempio ci troviamo chiaramente a che fare in molti campi con una fantasia, o un themata, di “autogeneratività”, che riporterebbe l’individuo ad uno stato precedente la percezione della consapevolezza dell’alterità, nell’illusione di un’autosufficienza che renderebbe inutile ogni distinzione ma anche ogni conflitto. Questo porta molte conseguenze ma sarebbe un discorso molto lungo. La risposta sommariamente quindi è che la psicoanalisi può fare molto sia dal punto di vista culturale che da quello clinico terapeutico. Per me le due cose non sono scisse ma assolutamente intrecciate e interdipendenti.
Lei ha più volte indagato i fenomeni dell’animato e dell’inanimato, dell’umano e del disumano. Gli apparenti opposti continuano a toccarsi o, addirittura, a sovrapporsi?
Le due formule diadiche non sono in una correlazione diretta, cioè non è che l’animato abbia a che fare con l’umano e l’inanimato con il disumano. Però, se come giustamente lei coglie, sono stati spesso degli argomenti chiave per me è perché penso rappresentino dei ‘buchi neri’ che tenderebbero a risucchiare qualsiasi esperienza. Per l’animato e l’inanimato si tratta di stati indifferenziati della mente che ormai la psicoanalisi è abituata a trattare riferendosi ad aree sempre più arcaiche dello psichico e che possono essere definibili su un certo piano come una ‘morte psichica’, che si affaccia alla mente come uno stato di ‘non vita’ dove la mente è attraversata da oggetti bizzarri, devitalizzati, elementi beta, resti di processi identificatori e proiettivi mai passati per una elaborazione che li possa far evolvere dalla pura sensorialità. Panorami mentali che evocano gli scenari delle prima aggregazioni di elementi sfociata nella nascita della vita sulla terra, lontani dal rappresentare delle mete pulsionali e solo sperimentabili nella catastrofe di un breakdown. Oppure possono comparire nei sogni come oggetti indecifrabili tra l’animato e l’inanimato o più normalmente li ritroviamo nella vita quotidiana sotto forma di protesi di cui il nostro corpo è ormai pieno, o vanno ad alimentare quella popolazione di oggetti feticcio che usiamo senza più neanche averne coscienza come estensione del nostro corpo e delle nostre funzioni.
Per quanto riguarda la dialettica umano-non umano sarebbe necessario andare alla radice della definizione. Dobbiamo cioè chiederci che cosa è propriamente umano. Non appare più chiaro in questo mondo popolato da cyborg o da robot sofisticatissimi cosa sia umano. C’è una infinita narrativa letteraria e filmica sull’argomento. Tutti peraltro conteniamo degli elementi di non umanità come parti ‘irriducibili’ di noi che ci abitano discordanti e disomogenee come nel corpo di una chimera e che possiamo solo tentare di far convivere. L’umanità in realtà non è una condizione data fin dall’inizio ma qualcosa che si forma in maniera processuale e che non è data per sempre. Infatti si può perdere facendoci ritrovare improvvisamente “fuori dal mondo”. Su questo penso dobbiamo ‘lavorare’ soprattutto psichicamente.
[1] https://geographiesofpsychoanalysis.podbean.com/ https://www.ipa.world/IPA/en/en/Psychoanalysis/Geographies_of_Psychoanalysis_folder/Landing_Page.aspx