Secondo Jean Paul Raison la migrazione è un fenomeno ‘sfuggente’ dal momento che appena si pensa di averne colto e descritto i caratteri fondamentali essa invece già cambia, inoltre può presentare aspetti estremamente differenziati, a volte addirittura agli antipodi, appena si modifica il proprio punto di osservazione. Le migrazioni dunque sono un fenomeno estremamente mobile in cui la dinamica sociale e culturale letteralmente si incarna nella dinamica psichica e relazionale.
Le migrazioni richiedono un ‘passaggio di confine’ non solo geografico, ma soprattutto culturale ed esistenziale, dal momento che rappresentano per eccellenza il luogo della trasformazione e del transito. La dimensione del passaggio dunque coinvolge un complesso processo di trasformazione psichica e di negoziazione sul piano relazionale e culturale. Il ‘confine’ disegna un’intera dimensione psichica in cui poter sostare per un tempo anche lungo: il tempo richiesto da un vero e proprio processo di riformulazione identitaria. Sarà necessario, infatti, avviare un complesso e spesso irresolubile lavoro di lutto nei confronti del paese di origine e una risignificazione del proprio mondo e del proprio sé all’interno del tessuto simbolico del paese di accoglienza. Leon e Rebecca Grinberg assimilavano infatti l’esperienza migratoria a una vera e propria esperienza di ‘rinascita’ dal momento che sarà necessario ripercorrere un intero cammino evolutivo nel paese ‘straniero’ di cui non si conoscono né la lingua né le abitudini. Si sperimenterà di nuovo, e con straordinaria drammaticità come ci testimonia la cronaca, il proprio essere ‘inerme’, bisognoso di tutto, come un neonato. Si viene all’improvviso rituffati in uno stato di dipendenza quasi assoluto sul piano materiale e di totale inadeguatezza sul piano cognitivo ed affettivo, dal momento che bisognerà apprendere nuovamente ad esprimere il proprio pensiero e le proprie sensazioni. Il migrante sperimenta di nuovo la condizione dell’infans, che non conosce il significato della lingua ed è dunque costretto a cercare di orientarsi attraverso il tono emotivo delle comunicazioni, che quindi potranno apparirgli tanto più terrorizzanti e cariche d’angoscia quanto più difficilmente comprensibili, tanto più caotiche quanto più attraversate da frammenti emotivi ed echi persecutori non rappresentabili. In questo poderoso sforzo di ri-simbolizzazione del mondo e di sé stessi il rischio di sviluppare profondi disagi psichici appare molto alto. Spesso tale disagio si esprime attraverso disturbi psicosomatici, tanto vaghi quanto invalidanti e cronici. Il corpo diventa spesso veicolo di espressione di un disagio profondo dell’identità e dell’appartenenza e, talvolta, diventa bersaglio di un vero e proprio attacco inconscio poiché viene ritenuto la fonte di ciò che rende ‘diversi’ e inaccettabili. Nella migrazione si è spesso costretti a guardare il proprio corpo attraverso lo sguardo degli altri, che ce lo restituiscono in termini di corpo ‘estraneo’ sia socialmente che esteticamente.
Un altro dato particolarmente interessante riguarda i picchi di morbilità sul piano psichico, ovverossia i momenti in cui è più alta la possibilità di sviluppare una malattia o un grave disagio psichici: essi si verificano dopo tre-sei mesi dall’arrivo, poi dopo due-cinque anni e infine dopo quindici-venti anni dall’arrivo. Nel primo caso ci troviamo di fronte all’immediato impatto del brusco cambiamento migratorio, nel secondo caso di fronte alla prima fase di messa in discussione del progetto migratorio, una volta esaurita la ‘spinta’ iniziale, ma nel terzo caso ci troviamo sorprendentemente di fronte ad un rischio che si verifica in migrazioni stabili e consolidate, ‘di successo’ in un certo senso. Quest’ultimo dato ci testimonia della sotterranea e costante traumaticità connessa alla migrazione, legata soprattutto all’ininterrotto lavoro di lutto che richiede, alla necessità di fronteggiare costantemente angosce depressive e persecutorie, e di affrontare e sciogliere continuamente situazioni enigmatiche e ambivalenti sul piano relazionale e simbolico nel contesto di adozione, rispetto al quale è costante il timore angoscioso di potere essere nuovamente espulsi. La propria vita dunque poggia sempre su un terreno vacillante e incerto.
La questione del trauma attraversa costantemente l’esperienza migratoria: recidere le proprie radici psichiche e culturali – i propri legami – e cercare di trapiantarli in un altro terreno relazionale e simbolico comporta un rischio estremo, rischio che va dal concreto pericolo di morte alla perdita del senso della propria origine ed appartenenza. Il transito migratorio si dipana così ininterrottamente tra il rischio di finire ‘in fondo al mare’, coperti da un oblio insanabile di cui intere comunità recano ferite non rimarginabili, e la necessità di passare ‘attraverso le terre’, di lanciarsi in un’avventura estrema, ricca anche di risorse e di capacità di trasformazione, che reca una speranza di riscatto.
Memoria ed oblio si fronteggiano continuamente nell’elaborazione del trauma migratorio: la necessità di ricordare così come la necessità di dimenticare appaiono entrambe indispensabili per poter cercare di ‘abitare’ il presente, spesso sospeso in un’ambigua ‘terra di mezzo’. Il trauma migratorio non riguarda solo i singoli ma intere comunità che si scoprono a rischio di estinzione: la ricerca di un’ opportunità di rinascita e di ‘salvezza’ individuale che spinge a tentare la via dell’emigrazione non può mai farci occultare l’oggettiva ‘sparizione’, sia sul piano ‘reale’ che culturale, di interi gruppi umani. La drammatica realtà delle centinaia di morti anonime inghiottite dal ‘mare di mezzo’ (‘Mediterraneo’) impone alla vista ciò che invece si cerca di rimuovere, di non vedere, ovverosia lo spaventoso costo umano connesso all’esperienza migratoria. Non tanto e non soltanto in termini quantitativi, relativi all’atroce ‘contabilità’ delle morti, quanto in termini di ‘umanità’, della nostra stessa capacità di dirci e riconoscerci come ‘umani’: è la nostra stessa umanità che è in gioco quando siamo costretti a ‘specchiarci’ negli occhi di chi ci guarda dal confine dell’inumano. Primo Levi scriveva che l’esperienza della ‘disumanità’ consiste nel rischio di diventare ‘una cosa’ agli occhi di un altro essere umano. Questa esperienza terribile trasforma per sempre sia chi la prova sia chi la fa provare. Ecco perché difendere l’umanità dei migranti significa in fondo difendere la nostra stessa umanità.
Un fondamentale ruolo terapeutico rispetto ai molteplici traumi connessi alla migrazione è allora rivestito dalla possibilità di trovare uno spazio e un tempo, interni oltre che esterni, per raccontare e, in tal modo, letteralmente ‘ricucire’ la propria esperienza: ritessere i fili strappati della trama della propria esistenza. In questa operazione, sempre dolorosa e talvolta purtroppo impossibile, l’ascolto psicoanalitico diventa contemporaneamente momento di ‘cura’ individuale e di ‘testimonianza’ collettiva.
Marzo 2015
Nota 1): Psichiatra e antropologa, psicoanalista SPI – IPA (Caserta).