Chaos + Repair = Universe. Kader Attia, 2014
Parole chiave: Psicoanalisi, Inconscio, Africa
Gabriella Ghermandi Daniela Scotto di Fasano
Conversazione
Scotto di Fasano:
Nelle riflessioni condotte per avviare questa finestra, AfrichE-Tra(N)sformazioni, ci siamo interrogati con i colleghi sul modo nel quale si potrebbe descrivere il Corno d’Africa in rapporto alle ‘amnesie e rimozioni’ dei governi e degli stati che l’hanno occupato. Amnesie e rimozioni evidenti a chi si occupi dell’Africa come continente oggetto di invasioni e sfruttamento da parte di nazioni varie, tra le quali il nostro paese, l’Italia. Lei che cosa ne pensa?
Ghermandi:
Beh – glielo dico sorridendo – ma in effetti, già questa riflessione che lei mi sottopone e sulla quale mi chiede il mio parere, ha un presupposto – sicuramente a vostra insaputa – eurocentrico. Nel senso: concorderà con me sul fatto che si è molto parlato delle amnesie, di quello che non si ricorda, dell’Occidente che non fa i conti con se stesso, ma mi pare – possiamo discuterne – sempre una modalità che mette al centro della attenzione l’Occidente: l’Occidente invade, l’Occidente dimentica, in una posizione che resta centrale, sorta di squalo – se mi permette l’equazione – che diventa più importante del mare.
Scotto di Fasano: Mi coglie alla sprovvista. Interessante quanto pone alla nostra attenzione. Direi, da un punto di vista psicoanalitico, che l’Occidente, a causa del bisogno di lavare la propria ‘coscienza sporca’, in alcuni casi, oppure, in altri, a causa dei propri sensi di colpa, relativi all’occupazione di Libia e Corno d’Africa effettuata dalle generazioni precedenti, senza volere pone al centro dell’attenzione le proprie amnesie e le proprie rimozioni. Ho capito bene?
Ghermandi: Ha capito bene. In effetti, più che sulle rimozioni dell’Occidente, sulle sue amnesie (operazione che comunque ritengo vada effettuata, ma non solo quella), rifletterei sul modo in cui l’Africa vive il presente. E’ vero purtroppo che per molti aspetti l’Africa continua a essere assogettata all’Occidente, ma contemporaneamente l’Africa vive senza avere come punto di riferimento ‘assoluto’ l’Occidente. Ovviamente, resta pesante, oltre che inevitabile in un mondo interconnesso, l’assoggettamento al sistema economico imposto dall’Occidente dal 1600, attraverso l’imperialismo, ma oggi ci siamo emancipati da questa sorta di ‘sudditanza’, guardiamo all’Occidente non più, come fino a pochi anni fa, come a un punto di riferimento, non lo è più così tanto. Oggi lo vediamo nel campo letterario, musicale, per non citare che due esempi. Senza con ciò negare il fatto che ci sono ancora forti poteri esercitati dall’Occidente in Africa, ma oggi ce ne sono anche altri… Sottolineo insomma il rischio che parlare del rimosso dell’Occidente possa rivelarsi nei fatti un modo per girare la frittata, così, anche facendosi questo tipo di domande, l’Occidente continua a mettere se stesso in primo piano.
Scotto di Fasano: La sua risposta mostra quanto a livello inconscio funzioniamo – malgrado noi stessi – nel modo da lei descritto.
Ghermandi:
Infatti: sia che si assuma la colpa, sia che si arroghi dei diritti, il rischio è che l’Occidente metta sempre se stesso al centro dell’attenzione.
Scotto di Fasano: Resta pur vero, ahimè, che le nazioni postcoloniali – è l’ipotesi dello studioso Partha Chatterjee (1993) – tendono ad assomigliare ad una seconda copia della grande nazione europea e, in questo modo, rappresentando, in tal modo, uno spazio adatto alla realizzazione dei suoi propositi economici, sociali e culturali. In effetti…
Ghermandi:
In merito, devo limitarmi a un’esperienza personale, ristretta. Non sono in grado di fare un’analisi che possa ‘avere la misura’ rispetto alle altre nazioni africane, essendo io italo-etiope posso parlare solo dell’Etiopia, che peraltro ha una situazione molto singolare non avendo vissuto una colonizzazione ma solo un’occupazione. Sa, in Africa succedono cose strane… in Etiopia, ad esempio, sicuramente c’è una superficie che somiglia alla struttura dei paesi occidentali, ma c’è tutto un sottofondo, sotto, che permane e offre una possibilità ‘creativa’ di uscire dalla ‘sudditanza’. Un esempio: quando (mi pare nel 2008 o nel 2009) Addis Abeba è diventata capitale delle Afriche Unite, sono stati messi nomi alle strade, prima non ne avevano. Nessuno però, ad oggi, a Addis Abeba ha come riferimento il nome delle strade, ma i luoghi. Si potrebbe ipotizzare che dare un nome alle strade rappresenti l’impronta occidentale, inevitabile, da un certo punto di vista. Ma nel frattempo, comunque, punto di riferimento della popolazione è rappresentato dal rapporto con i luoghi, tant’è che se per mandare un DHL in Etiopia, a Addis Abeba, non si scrive Cameroon Street, ma si deve scrivere: “vicino… alla seconda rotonda di Megenagna”, “vicino all’albergo Tal dei Tali”.
Scotto di Fasano:
Ma davvero? Sulla busta?
Ghermandi:
Certo! Sulla busta. Lei fa il pacco per DHL e dà queste indicazioni. Se prova a cercare il DHL Addis Abeba su Internet, troverà “vicino al tal posto”, “vicino all’albergo Tal dei Tali”, “dopo la secondaroundabout del quartiere Megenagna.” Spero di riuscire a far comprendere che si tratta di un paese che si muove ancora così, dove ci possono essere risposte inattese e completamente estranee alle abitudini e ai comportamenti occidentali. Si tratta come di un magma sotterraneo che si impone sullo strato più superficiale, occidentalizzato. Ripeto, anche giustamente, da un certo punto di vista, ma pur sempre ‘non proprio’. Si tratta di un aspetto che ritengo sia importante tenere a mente e non trascurare, anzi, ritengo sia da sottolineare.
Scotto di Fasano: Io sono cresciuta a Mogadiscio, e quanto dice mi evoca un episodio della mia infanzia. Durante i mesi che precedettero la conquista dell’indipendenza, e quindi la fine del protettorato italiano, c’erano spesso agitazioni e manifestazioni di piazza, a volte anche molto pericolose. In tal caso era meglio restare in casa e non uscire in strada. Amici somali avvertivano del rischio i miei genitori dicendo loro: “Oggi pancia calda. Meglio restare a casa”. Ecco, ‘pancia calda forse è quel magma sotterraneo al quale lei ha fatto allusione, le radici originarie della propria identità culturale che, sepolte dalla necessità di far proprie quelle di altre culture, irrompono e si impongono: se si cerca il DHL Addis Abeba su Internet si troverà “vicino al tal posto”, “vicino all’albergo Tal dei Tali”, “dopo la secondaroundabout del quartiere Megenagna.”. Un irrompere che, peraltro, non può non richiamare alla mia mente di psicoanalista il significato e la funzione dei lapsus.
Ghermandi: Sa, le differenze tra Occidente e Africa sono, per certi versi, incommensurabili, per fare un altro esempio, lo stesso è accaduto nel modo in cui è stata gestita l’emergenza sanitaria, un modo molto diverso da quello occidentale, infatti la maggior parte della gente in Etiopia mi ha detto “Sì, sì, ma quelle cose van bene da voi perché siete tutti vecchi. Qui da noi chi doveva morire era già morto prima che arrivasse il Covid.”.
Scotto di Fasano:
Già, si muore prima che da noi, purtroppo… Il che obbliga a un modo diverso di gestire l’emergenza sanitaria… La stessa ragione per cui “L’antropologo Beneduce (2007), riferendosi agli studi di Collomb fatti a Dakar, ritiene, a proposito del rapporto tra neonato e madre, che non si tratti di relazione “simbiotica” ma “impersonale”, governata dalle regole del gruppo di appartenenza, dove la legge comunitaria deve prevalere su quella dell’individuo (172), per cui, di conseguenza, il bambino che fa parte della comunità non può essere un ‘possesso’ della madre. Secondo Tahar Abbal (2006) “Nei sistemi tradizionali, […] una volta che il bambino è stato nominato, dal punto di vista della filiazione, appartiene a un sistema completamente diverso da quello occidentale. La strutturazione familiare, anche la costruzione stessa dei legami, è completamente diversa.” (97).
I primi balbettii del bambino non indicano, in molte culture africane, l’emergere del linguaggio, ma “le ultime tracce del legame con il mondo dei morti, e si attende con impazienza che questi comportamenti cessino al più presto” (Beneduce 2007,185). Infatti, lo sguardo dei neonati, fino all’umanizzazione, dice Tahar Abbal, “guarda lontano”. Stiamo di fatto ragionando di identità, e, a tale proposito, che cosa pensa di quel controverso filone di studi (Homi K. Bhabha in The Location of Culture del 1994, ad esempio) in cui si parla dei processi culturali di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti come processi talora anche fertili?
Ghermandi: Mi perdoni, sono un po’… dissacratoria. Allora, sicuramente ci può essere un processo anche fertile, possiamo incontrarci come persone e non come colonizzati e colonizzatori (sorride), in incontri in cui ognuno porta le proprie… particolarità? Penso ad esempio allo scrittore libanese Amin Maalouf, che ha scritto proprio un piccolo saggio sull’identità dove dice che in Francia, dove è andato a vivere dopo essere cresciuto in Libano, gli domandano sempre se si sente più francese o più libanese, oppure, dopo una conferenza, quando scende dal palco, gli chiedono: “Adesso, a quattr’occhi, mi può dire se si sente più francese o libanese?”. Sembra, dice, che gli facciano questa domanda senza pensare che magari per alcuni aspetti è stato per lui molto più impattante il fatto di avere avuto un maestro delle elementari Tal dei Tali piuttosto che il fatto di aver vissuto metà della propria vita in Francia e metà in Libano. Penso che si appartenga a una identità non, o non solo, per ragioni familiari e/o contestuali o di sangue, ma per una questione di anima. Voglio cioè dire che secondo me, per quanto esso abbia solide e provate ragioni di essere, è necessario sforzarsi di uscire dallo schema colonizzati e colonizzatori, perché restare ‘intrappolati’ in tale schema ci pone in una posizione ‘data’, rigida, da cui quindi risulta complesso uscire. Colonizzato/colonizzatore è un’immagine forte, che porta con sé tutta una serie di archetipi, di stereotipi, dai quali si dovrà prima o poi uscire. Ecco perché penso che possiamo parlare di culture occidentali e culture, non so, africane e non solo di “colonizzati/colonizzatori”, dove l’accento è messo su una posizione che resta, ancora, di contrasto. Ponendo l’accento sulla dicotomia colonizzato/colonizzatore, abbiamo fatto dei danni, tra le righe di questo pensiero restano pensieri come: “Li abbiamo civilizzati”, “Ci hanno aiutato”. IL che forse per taluni aspetti può essere paradossalmente anche vero, ma al centro dell’attenzione permane qualcosa di statico, di duro, mentre occorre trovare un terreno fertile per qualcosa di nuovo, spogliandosi di concetti che fanno riferimento a ‘ruoli’. Un terreno è fertile solo quando l’incontro è tra persone e non tra ruoli.
Scotto di Fasano: Mi fa pensare, con quanto dice, che forse il senso di colpa dell’occidentale che è stato invasore e colonizzatore fa perdere la dimensione di persone che s’incontrano e non sono imprigionate ‘a vita’ nella dicotomia colonizzato/colonizzatore. Come psicoanalista penso che tale retaggio resti e sia per ora ancora ‘inevitabile, perché l’esperienza è stata di colonizzato/colonizzatore e ci dobbiamo fare i conti, ma effettivamente è ora di scrollarci di dosso questa componente – in termini psicoanalitici – persecutoria, facendo spazio all’idea che essa è solo una delle componenti tra diverse dimensioni umane e culturali…
Ghermandi: Esatto, non si può pretendere che si crei e si costruisca una relazione su un solo spicchio di una torta. Uno spicchio è solo uno spicchio, non l’intera torta. Questo ‘spicchio’, però, nella mia storia personale esercita – come nella fisica classica – una forza-peso, che, come è noto, varia a seconda del luogo in cui viene misurato: sulla luna, un uomo pesa meno che sulla terra. Ecco, per dirla negli stessi termini, la questione delle leggi razziali vigenti in Etiopia e in Eritrea ha esercitato, e quindi eserciterà per sempre, una forza-peso intensa, perché le leggi razziali hanno condizionato tutta la vita di mia madre, etiope, e, di conseguenza, la mia. Si tratta, innegabilmente, di un aspetto fondamentale e imprescindibile della mia vita e della mia formazione, ma è necessario però per me anche chiedermi che cosa ne ho fatto poi io, di e con questa parte fondamentale.Che cosa ho deciso di costruire? Cosa ho deciso di ricamarvi attorno? Come… come si è mosso l’albero che io sono, a partire da queste radici? In quale direzione ha proteso i rami?
Scotto di Fasano: Lei evoca quella che per noi psicoanalisti è una prospettiva preziosa. Infatti, se sottolinea l’importanza del background personale di ciascuna storia, sottolinea però anche, al contempo, che il soggetto della propria storia può ‘fare qualcosa’, non subirla e basta. A tale proposito, utilizzando il concetto, caro a noi psicoanalisti, di Nachträglichkeit, che cosa potremmo pensare del post-colonialismo? Dove questo ‘post’ rimanda ad un dopo, ad un evento successivo che però implica un prima. Lo psicoanalista Jacques André osserva che “L’après-coup è un trauma, e se non è semplice ripetizione è perchè contiene elementi di significazione che aprono, a condizione d’incontrare un ascolto e un’interpretazione, a una trasformazione del passato”. Cioè, sul passato l’individuo può ‘lavorare’, evitando di restarvi intrappolato e di esserne schiacciato. Un po’ quello che lei ha detto con la metafora del peso-forza. Se crede che quanto scritto da André possa avere un senso per ‘pensare’ il post-colonialismo, quali sarebbero a suo parere l’ascolto e l’interpretazione necessari?
Ghermandi: Quello che le dicevo la prima volta che ci siamo incontrate, al telefono: si tratta di trovare il seme da cui è germinato il concetto della superiorità bianca: l’ascolto. Collegare questo concetto al fatto che esso è stato creato per interessi politici, economici: l’interpretazione. Interpretazione che andrebbe estesa a ragionare intorno a ciò che ha giustificato la pretesa superiorità bianca, estesa a una esplorazione su quale fosse la realtà prima dell’inizio dell’imperialismo, realtà in Africa ma non solo, anche nel mondo, tra le potenze. Se, come mi ha detto, il ‘post’ rimanda ad un dopo, ad un evento successivo che però implica un prima, dovremmo ripensare e ricollocare gli eventi, fare il Risiko del 1600 (sorride). Con fare Risiko del 1600 intendo che sarebbe importante capire che la realtà è complessa, banalmente, averne la consapevolezza in ambito scolastico. Per esempio, in Italia i programmi di Storia insistono sull’Impero Romano, sulla Guerra dei 30 anni, su quella dei 100…. I programmi scolastici sono completamente focalizzati su questi eventi, eventi dell’Occidente. Io sono cresciuta studiando alla scuola italiana, ‘impregnata’ della continua esaltazione della grandezza dell’Impero Romano. Poi mi è capitato di andare, nel 2012, a Chicago e di visitare il Museo d’arte moderna e vedere tre mostre: una sugli Aztechi, una sulla Cina e una sull’India. E lì è stato come se la grandiosità delle loro opere mi avesse spostato il baricentro, mi avesse dato un’altra visione dei fatti, mostrandomi che veniamo cresciuti e nutriti di ‘Occidente’, cioè da un certo punto di vista di colonialismo, con il risultato che gli studenti non si conoscono né la grandezza del mondo né quante civiltà fossero grandi prima dell’Occidente e prima che l’Occidente iniziasse la propria mira espansionistica. Ecco, l’a posteriori per me è il recupero della verità della complessità della storia. Penso che questo sia il lavoro del ‘post’, questi gli “elementi di significazione che aprono a una trasformazione del passato”, questi “l’ascolto e l’interpretazione” necessari, mentre, per non fare che un esempio, a scuola all’Impero Indiano è dedicata una pagina! Una pagina non rende, a confronto dello spazio dedicato all’Occidente. Certo, l’Odissea è meravigliosa, ma c’è anche il Mahabharata, altrettanto poetico. Perché no? Perché non appartiene alla nostra civiltà? Appartiene eccome alla nostra civiltà: la civiltà dell’uomo. Bisognerebbe cioè lavorare affinché le generazioni crescano in rapporto al concetto di Uomo e non di Razze. Le nazioni hanno una funzione organizzativa degli orientamenti, orientamenti che le persone introiettano a propria insaputa, ecco perché non si dovrebbe basare la formazione solo sul concetto di Stati o, peggio, in modo subliminale, di Razze, altrimenti è come andare verso un imbuto.
Scotto di Fasano: Già… e a proposito di subalternità, gli studi (post)coloniali incrociano spesso quelli femministi soprattutto nel terreno di convergenza delle problematiche razziali e di genere. Si parla in queste studi della doppia subalternità della donna: che ne pensa?”.
Ghermandi: Si, La questione non è solo di genere ma anche di afrodiscendenza. Innanzitutto penso, paradossalmente, ai collettivi femministi, dove ho personalmente sperimentato una forma di gerarchia rispetto alle donne afrodiscendenti. Inoltre, per illustrare altre forme di questa doppia subalternità della donna afrodiscendente, le racconto un episodio molto esplicativo, che mi ha raccontato una docente dell’Università di Bologna. Si tratta dell’incontro di una donna (un ingegnere del Sudamerica, afrodiscendente) e il suo collega hanno preso parte a un meeting con un loro collega occidentale pari grado. Costui si rivolgeva solo all’uomo, e, quando finalmente si è rivolto a lei, lo ha fatto per chiederle di preparare due caffè. Doppia subalternità, consideravamo con l’amica che me ne ha parlato, donna e per di più afrodiscendente! Per non dire di quanto l’Occidente abbia ancora forte l’eredità colonialista della donna afrodiscendente come di un femminile selvaggio, che va addomesticato e/o utilizzato per il proprio piacere. Con la donna, e, a mio parere, con la donna afrodiscendente in particolare, l’uomo pensa di poter dare sfogo a tutte le proprie fantasie sessuali. Pensi alla sentenza che c’è stata in questi giorni per la pastora di origine etiope che è stata uccisa. Uccisa, e violentata in agonia. L’assassino è stato condannato a 15 anni per l’omicidio e a 4 anni e 4 mesi per la violenza. Tutti noi siamo rimasti sconvolti della clemenza della corte per questo reato, dal momento che la violenza sessuale è un assassinio di una parte della donna, quindi non considerarlo come un ulteriore omicidio è una cosa che fa rabbrividire. Sono molte le cose che bisognerebbe mettere in discussione. Penso, ad esempio, al dialogo interreligioso come a un ‘inganno’: esso è di fatto una forma di patriarcato, perché presume che la donna che vi è chiamata a parlare è una donna ‘autorizzata’, non una donna che si afferma secondo se stessa, no: riceve l’autorizzazione da parte delle personalità religiose, mentre è necessario pensare in termini di laicità. Il primo ministro etiope ha detto una cosa che a me è piace tantissimo, che “Bisogna cercare di dare più spazio di potere alle donne fuori casa, per evitare che le donne costruiscano – per avere anch’esse il proprio spazio di potere – delle situazioni manipolatorie dentro casa.” Dice di aver visto fior fiore di ministri, di quelli che dichiaravano guerra ad altri Paesi, entrare in casa con le orecchie basse. Un tale sistema, malato, porta anche le mamme a crescere dei figli maschilisti. Perché il maschilismo, come diceva il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, è come l’emofilia, è la mamma che lo passa.
Scotto di Fasano: Vorrei chiederle, visto che lei lavora sulla costruzione dell’identità a ponte, qualcosa sulla sua identità italo-etiope.
Ghermandi: E’ un po’ difficile… La mia è un’anima etiope. Quella è la mia terra, e io so che la mia terra mantiene uno spazio per me sempre. Nella mia vita questo è un tratto molto importante e la nostalgia, che vivo nei confronti della mia terra, è proprio come la nostalgia della separazione dalla mamma. Non finisce mai, ho passato i due anni di pandemia in una profonda tristezza per il fatto di non poter andare in Etiopia. Perché… io mi sento libera lì, libera di poter essere intera, italiana e etiope: posso mangiare gli spaghetti col tonno e il berberè, la nostra miscela piccante di spezie varie. E poi, non so come spiegarle, noi con identità a ponte abbiamo vissuto una vita mista, paragonabile a una coperta patchwork, un grande uncinetto con tanti colori. Identità a ponte è un contatto costante tra identità: non so, quando ero bambina, a Addis Abeba, andavamo a mangiare le spanakopite al club greco ma al contempo avevamo giù per la stradina la scuola inglese e indiana, abbiamo vissuto in una situazione dove ci siamo mescolati tantissimo. Le faccio un parallelismo. In questo periodo ho lavorato molto con una linguista, Fernanda Minuz, sulle forme di plurilinguismo e sul fatto che noi siamo attraversati da tante lingue, anche se in Italia si tende a considerarsi attraversati solo da una lingua, senza tener conto del fatto che si è attraversati costantemente da tante lingue che agiscono su di noi e che legano emozioni e pensieri proprio in virtù dei suoni. Per me bambina è stato così. Per esempio, a proposito di identità italiana e identità etiope, mi viene in mente un episodio. Ero bambina, con mia madre eravamo in visita da una sua amica, anche lei meticcia come mamma, cresciuta con lei in collegio; questa signora aveva messo sul tavolo tutte le caramelle che aveva nella ciotola – le rosse Rossana; gli spicchi, quelli di limone e arancia; le Perugina, le ghiacciate, che erano un quadrettino di zucchero – tutte caramelle che parlavano dell’italianità a cui però si approcciava con un atteggiamento etiope, mettendole tutte sul tavolo. Io ne avevo presa una ma, per prenderne un’altra, dovevo saper valutare il tempo giusto per guardare mia mamma e chiedere se ne potevo prendere un’altra, ma in Etiopia è tutta una comunicazione fatta di sguardi, l’educazione si basa interamente sugli occhi, nel Corno d’Africa. Per esempio, a tavola, quando arriva il piatto etiope la mamma mette un po’ di tutto sull’injera, sorta di pane ampio, a forma di piatto, maadí si chiama in Eritrea, ma in amarico si chiama beyaynetu: di tutto un po’, cioè carne (se si è nel periodo in cui si mangia la carne), con verdure, oppure solo verdure, diverse, davanti a ciascuno si mette un po’ di tutto, perché si è insieme ma si rispettano delle regole: non si deve invadere lo spazio dell’altro, mangi nel tuo spicchio, nella parte dove c’è il tuo cibo, e questo cerimoniale viene insegnata con gli occhi, come se gli occhi fossero il volante della mamma che guida il bambino. Le racconto un episodio, a questo proposito. Era morta la mamma di un’amica di mamma e quindi, dopo sei mesi, andò in Etiopia a fare il Teskar, la cerimonia dello scioglimento dell’anima del morto. Si invitano i poveri a mangiare perché benedicano colui che è morto, è una liturgia necessaria, senza questa cerimonia di benedizione il morto non ha sufficiente carburante per arrivare a destinazione. Dunque la signora, madre di 13 figli, aveva preparato tutto, e c’erano i figli che volevano invitare gli amici a mangiare. Allora ogni tanto arrivavano e le davano un’occhiata. E lei, facendo così – tirava su un occhio – diceva “Sì, va bene”. A un certo punto, la vediamo dare uno sguardaccio a uno dei figli e quello dopo non sapeva più se azzardarsi a chiederle il permesso. Allora, per parlarle senza essere sgridato davanti a tutti, l’ha chiamata e le ha chiesto di andare da lui un attimo al cancello.E lei:“Ah! Da quando in qua chi è stato partorito dà ordini a chi lo ha partorito?”.
Scotto di Fasano: Prima di concludere, vorrei chiederle qual è, in quanto etiope, il suo rapporto con l’Eritrea.
Ghermandi:Ah, io sono in parte anche eritrea! Mia mamma è nata in una famiglia da parte materna mista eritrea-tigrina in un paesino vicino a quello che gli italiani chiamavano Adiugri e che ora si chiama Mendeferha. Sa, la frattura tra Eritrea e Etiopia la sento nel mio cuore, nel senso che ho sofferto moltissimo in tutte le situazioni che ci son state di contrasto tra Eritrea e Etiopia. In effetti, il Corno d’Africa dovrebbe essere una federazione, come diceva Che Guevara, perché essere separati non ha molto senso. Secondo me Etiopia, Somalia, Eritrea e Gibuti potrebbero fare un unico Paese federato e sarebbero una potenza.
Scotto di Fasano: Mi fa venire in mente un’altra domanda: secondo lei questa divisione, per cui il Corno d’Africa non è il Corno d’Africa ma è la Somalia, il Somaliland, l’Eritrea, l’Etiopia, è un effetto provocato dall’Occidente?
Ghermandi: Si, è una conseguenza dell’occupazione e della colonizzazione italiane. Un tempo in Corno d’Africa erano molte le etnie, ad esempio la comunità greca è una comunità che ha avuto la capacità di relazionarsi e di essere parte del tessuto sociale… Devo dire che ho una grande stima dei greci, infatti. Dei greci e anche degli armeni. Ma la cosa importante da sottolineare è come loro siano riusciti a integrarsi e che proprio per questo dagli italiani erano considerati inferiori, mentre, piuttosto, quanto erano avanti.
Scotto di Fasano: Lo sottolinea sempre anche la scrittrice somala Kaha Mohamed Aden, lo racconta nel suo documentario La quarta via, che è visibile nel nostro sito AfrichE.Tra(N)sformazioni.
Per chiudere, mi ripete quello che mi ha detto al telefono a proposito delle coincidenze?
Ghermandi: Le coincidenze accadono quando Dio fa finta di non essere presente, cioè, meglio, quando Dio fa finta di non essere l’attore, fa finta di non vedere, di non intromettersi, come se lui non c’entrasse. Le racconto questa storia. Ho avuto un padre spirituale che praticamente mi ha cresciuto, per me è stato come un padre di sangue, proprio. È stato il mio padre spirituale per più di 30 anni. E’ morto nel 2016 a 100 anni. Nel 2000 venne in Italia, e, dato che voleva andare a inginocchiarsi davanti alla tomba di San Marco e San Pietro (era la sua fissazione) lo portai a Roma, dove fummo ospiti di un’amica, che aveva tre figli, allora piccoli, ho una foto di lui seduto in mezzo a quei tre bambini. Veniamo all’oggi. Per ragioni di salute non mi sono potuta vaccinare e ho sempre avuto il terrore di prendere il Covid, ero terrorizzata e pregavo il mio eremita. Un giorno questa mia amica di Roma mi ha detto che la figlia grande gestiva la segreteria dell’Associazione Ippocrate, i medici che curano a distanza. Lì per lì io non ho pensato che fosse una coincidenza. Dio era molto nascosto, faceva molto finta di non entrarci niente. Ho preso il Covid e ho scritto alla figlia della mia amica dicendo “Guarda, alla fine ci siamo ammalati. Ti chiedo se mi dai un nome.” Lei mi ha dato il primo nome della loro lista, una dottoressa che vive in Sicilia, così carina, mi chiamava due volte al giorno, ci faceva le visite per telefono, addirittura faceva tossire mio marito al telefono, ci chiamava continuamente, continuamente. Quindi volevo farle un regalo e avevo pensato di mandarle una croce etiope. Gliel’ho detto. Dopo cinque minuti lei mi ha mandato una foto di lei con una croce etiope in mano e mi ha detto “Io sono stata in Etiopia, nel Tigrai, con un progetto di chirurgia pediatrica nel 2013! Pensi la coincidenza!”. Ecco, Dio ha fatto finta di non entrarci per niente, e intanto si beveva un caffè.
Gabriella Ghermandi è musicista, cantante, performer e scrittrice italo-etiope di libri e racconti brevi, la cui produzione letteraria si incentra sui temi della migrazione e sui timori della perdita di identità culturale dei migranti.
E’ nata a Addis Abeba da padre italiano, di Bologna, e madre italo-etiope. La madre è stata concepita da un ufficiale dell’esercito italiano e da madre eritrea. Il padre e la madre di Ghermandi furono separati a causa delle leggi razziali (dato l’allora controllo coloniale fascista dell’Africa orientale) prima di potersi sposare, alla fine del governo italiano fascista. Ghermandi afferma di essere stata cresciuta “bianca” da sua madre, poiché ella aveva subito l’esclusione dalla comunità etiope essendo cresciuta in un convento italiano a causa del suo status di razza mista. Nel 1979, alla morte del padre, si è trasferisce, all’età di quattordici anni, a Bologna, dove, nel corso della sua adolescenza, ha sofferto la nostalgia di casa e della sua comunità in Etiopia. Nel 1999, il suo racconto breve “Il telefono del quartiere” ha vinto il primo premio al concorso letterario Eks&Tra per scrittori migranti. Nel 2001 ha vinto il terzo premio nello stesso concorso letterario con il racconto “Quel certo temperamento focoso”. Nel 2003, è tra i fondatori della rivista on line di letteratura della migrazione El Ghibli, il primo periodico italiano con una redazione composta esclusivamente da autori stranieri che scrivono in italiano. Parallelamente all’attività di scrittrice, Gabriella Ghermandi ha acquisito una notevole reputazione come interprete di narrazioni adattate dalla tradizione orale e musicale dell’Etiopia. Le sue esibizioni sono state in tournée in tutto il mondo. È stata relatrice in eventi come il convegno dell’American Association for Italian Studies (AAIS) (2007). È stata anche nella giuria del 23° Premio Internazionale Neustadt per la Letteratura (20013), vinto dalla sua candidata Mia Couto.
È stata ed è direttrice artistica del festival Evocamondi, rassegna di narrazione e musiche dal mondo a Bologna. Ghermandi è impegnata in un’intensa attività teatrale sul tema della multidentità e della scrittura, ispirandosi all’arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope. Scrive e interpreta spettacoli di narrazione che rappresenta sia in Italia sia all’estero e conduce laboratori di scrittura creativa nelle scuole, sulla ricerca dell’identità. Ha pubblicato racconti in varie collane e riviste, tra cui Nuovo planetario Italiano. Mappa della nuova geografia di scrittori migranti in Italia e in Europa (Città Aperte), L’Italiano degli altri: 16 storie di normale immigrazione (Einaudi scuola). Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, Regina di fiori e di perle (Donzelli), un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui scorrono le vicissitudini di una famiglia etiope nel periodo che va dal conflitto con l’Italia alla dittatura di Mengistù Hailé Malram ai giorni nostri. Nel 2015, il romanzo è stato tradotto in inglese (Indiana University Press), e quest’opera l’ha fatta conoscere anche negli Stati Uniti, dove da allora tiene corsi di scrittura in molte università americane.
Nel 2010, allo scopo di riunire musicisti italiani ed etiopi come via per favorire il dialogo reciproco e la creazione artistica, ha dato vita al Progetto Atse Tewodros. Questo progetto è stato avviato a Addis Abeba, frutto della collaborazione tra il compositore etiope Aklilu Zewdy e il professor Berhanu Gezaw. Il Progetto Atse Tewodros comprende brani della Resistenza etiope che si battè contro il regime fascista italiano. In tal modo, da un lato Ghermandi riesuma il passato per il grande pubblico e per i singoli individui, e, dall’altro, descrive il corso della vita umana e l’esperienza dei migranti e parla delle identità plurali. Il suo lavoro musicale ha avuto ottime recensioni sulla stampa internazionale e in vari programmi radiofonici (vedi “Press” su www.gabriella-ghermandi.it/music), ed è stato ampiamente ascoltato e apprezzato in Etiopia, con presentazioni in radio, televisione, e social media. L’Atse Tewodros Project ha vinto la World Music Network Battle of the Bands nel marzo 2015 e, dopo un’intervista in “A world in London”, ha catturato l’interesse dell’etichetta Arc Music Record che ha deciso di realizzare un album dal titolo “Etiopia: celebrare Emperot Tewodros II”, e distribuirlo in 65 paesi. Il suo progetto musicale è stato anche vincitore del concorso International Expo “Energy, Art & Sustainability for Africa”, lanciato da Expo Milano 2015 e selezionato tra i 41 pervenuti; è anche stato nel ballottaggio del 59° Grammy Awards.
Dal 2018 Ghermandi lavora a un altro progetto intitolato Maqeda, dal nome etiope della regina di Saba, incentrato sulla femminilità nella mitologia etiope.