Cultura e Società

Freud a Gaza. Dalla parte dei perseguitati, alla luce degli antichi di A. Beltrametti

22/04/24

MALAK MATTAR , 2021

Parole chiave: Psicoanalisi, Freud a Gaza, Testimone uditivo, Eschilo

Dalla parte dei perseguitati, alla luce degli antichi

di Anna Beltrametti

                «In un mondo in fiamme, credo che la posizione etica dell’analista debba essere dalla parte dei perseguitati […] Pensare dalla parte dei perseguitati. Il che equivale a pensare contro il potere. Perché se la psicoanalisi merita di continuare ad esistere, non è solo perché porta un notevole sollievo a chi vi si affida, e spesso un riposizionamento nella posizione soggettiva di chi soffre […] Ciò che giustifica la psicoanalisi come disciplina nei tempi contemporanei è che si tratta di una variante del pensiero critico, dove di solito prevale il pensiero unico. E in questo senso funziona – o dovrebbe funzionare – come una fabbrica artigianale di liberi pensatori»

                Con queste considerazioni Mariano Horenstein introduce la sua lectio magistralis, Freud a Gaza. Lo psicoanalista come earwitness/testimone uditivo[1], inquadrata nel progetto Geografie della psicoanalisi pensato e condotto da Lorena Preta. Impossibile non sentirsi chiamati in causa e in gioco, sia sul piano razionale sia su quello emotivo, da questo incipit e dal manifesto di una nuova psicoanalisi che ne segue. Impossibile non accogliere la sollecitazione di Daniela Scotto di Fasano e di Marco Francesconi a partecipare, ciascuno dal proprio ambito di studi e dal proprio punto di osservazione, all’incontro organizzato presso il Collegio Ghislieri il 24 febbraio scorso su questo programma.

Il progetto, nelle sue linee generali che incrociano i tempi e i luoghi, la storia e la geografia, si genera da e a sua volta stimola un ripensamento profondo dei compiti, dei metodi e delle figure coinvolte nella pratica analitica. In un certo senso formalizza l’intuizione che viene da lontano e che è divenuta certezza sullo sfondo delle feroci guerre in corso – guerre intestine se si considera la parentela dei popoli che si combattono, guerre mondiali se si osservano le reti delle alleanze in cui sono impigliate e si prefigurano gli sviluppi possibili: il mondo non è mai stato uniforme e ora le differenze sono marcate da ferite vive, continuamente riaperte, battaglia dopo battaglia, strage dopo strage; il tempo non passa alla stessa velocità e non ha lo stesso senso nei diversi luoghi; i confini non sono stati disegnati dalle mani di un dio, hanno una storia e sono mobili nella storia, alcuni sono più permeabili e porosi, altri più impervi e sigillati, alcuni da rigidi che erano sono divenuti più flessibili o sono crollati, altri hanno tagliato territori fisicamente omogenei e disarticolato culture unitarie nella lunga durata.

All’universale umano si sostituiscono, e ora con maggiore urgenza, soggetti storicamente e geograficamente determinati e i perseguitati, i vinti della storia – nella definizione di Benjamin – e i dannati della terra – nella definizione di Fanon- si impongono allo psicoanalista consapevole del proprio compito. Mariano Horenstein insiste con competenza e partecipazione emotiva su questa necessità. La forza speciale del suo discorso sta qui, in questa volontà e in questa capacità di riconoscere i nuovi soggetti individuali e collettivi, con le loro nuove sofferenze, che l’analisi contemporanea non può permettersi di ignorare.

I perseguitati, dunque. Il dovere e il bisogno dell’analista di imparare a vederli e a stare dalla loro parte, anche quando, secondo il commento rabbinico citato da Horenstein, il perseguitato sia un uomo malvagio e a perseguitarlo sia un uomo giusto. Il cambio di prospettiva e lo spostamento del centro della pratica analitica si profila epocale: senza perdere di vista i disagi nati in seno alla famiglia borghese e occidentale, al nuovo analista del terzo millennio corre l’obbligo di spostare il proprio sguardo su coloro che non hanno famiglia né legami né dimora, sui diseredati dalla storia e sugli erranti. Sul vuoto invece che sul troppo pieno.

La psicoanalisi della perdita, delineata da Horenstein, che non può avere come obiettivo il riadattamento, la reintegrazione nel conformismo -riadattamento a chi e a che cosa nel vuoto della perdita? – la psicoanalisi che vuole porsi fuori dal senso comune e condiviso dai benpensanti, che è capace di dissenso rispetto al potere vigente e di critica contro ogni forma di fondamentalismo, non può non coinvolgermi. Non può non riportarmi al cuore di quel piccolo e prezioso patrimonio di testi sopravvissuti, quel poco che ci resta della tragedia greca, “uno spettacolo molesto” – così io lo ho definito in un’altra occasione e così, deliberatamente disturbante e straniante per i suoi spettatori, continuo a pensarlo.  Possiamo guardare alla psicoanalisi in questa nuova e pubblica accezione come alla pratica che meglio ha ereditato e interpretato, non importa se consapevolmente o no, l’eredità della tragedia attica, quella forma di comunicazione che sapeva scuotere le coscienze dei singoli e della polis, che mirava a rifondare le relazioni private e pubbliche. Una forma di poesia, quella del teatro tragico, di eccezionale incisività e di larghissima fruizione nell’Atene dei V secolo, nei decenni della più affluente democrazia periclea e in quelli successivi della più turbolenta democrazia post-periclea.

Della potenza del teatro, specie del teatro tragico, erano per altro profondamente consapevoli i grandi filosofi del IV secolo che in modi diversi vi richiamarono l’attenzione del pensiero a venire: Platone con la sua continuata battaglia contro la teatrocrazia, perseguita nei dialoghi con una scrittura filosofica costantemente tramata sul crinale tra rivalità ed emulazione, tra fascinazione e ostilità per il teatro; Aristotele con l’analisi anatomica dei testi teatrali, delle strutture, del linguaggio, degli intrecci e dei personaggi.

Il termine katharsis, impiegato una sola volta da Aristotele nella Poetica (1449b 24-28) e in un senso meno pregnante di quanto alcuni interpreti hanno creduto di scoprirvi, ha orientato e continua a orientare spettatori e lettori della tragedia attica a cercare nei finali i segni della “purificazione”, della compensazione e della pacificazione dopo l’impennarsi delle emozioni. I testi però, dal più antico al più recente di quelli conservati, non confortano, ma inquietano. E i temi di cui investono i soggetti mitici tradizionali entrano in forte risonanza con i temi più sensibili della cultura democratica contemporanea in cui operavano, documentati dagli storici e dai grandi retori, ma anche -e questo è più sorprendente- con i temi e i motivi della nuova psicoanalisi di Horenstein.

Le tragedie portano in scena i vinti e, quando alla ribalta sono i vincitori, le drammaturgie insistono sui rovesciamenti delle loro fortune in catastrofi o ne portano in luce e in discussione l’incoscienza, talvolta la cattiva coscienza, annidata nelle zone d’ombra del potere, intrecciata alle componenti di violenza, di hybris, e di trasgressione che del potere accompagnano la conquista e l’esercizio.

La tragedia più antica tra quelle conservate e l’unica di materia storica, i Persiani di Eschilo, rappresentata nel 472 a. C. con la coregia del giovane Pericle che aveva finanziato l’allestimento del Coro, è ambientata alla corte dei Persiani sconfitti nel 480 a Salamina. I personaggi e il Coro dei Fedeli sono solo persiani e nelle loro voci, nei ritmi e nelle parole, si compone il tema dei vinti, diversamente modulato dalla regina, dal sopravvissuto alla mattanza -siamo stati catturati come tonni, vv. 424-428 – dal fantasma di Dario e, infine, dal lungo lamento di Serse, l’icona tragica della derelizione, in duetto con il Coro (vv. 909-1077). Il dolore domina la drammaturgia per coinvolgere anche il pubblico con una complicazione: il superstite, nel dettagliato racconto della disfatta (vv.353-432), fa proprio il linguaggio dei vincitori, parla dei Persiani e di sé come barbaroi, disuniti e sprovvisti di intelligenza e di strategia, e parla dei vincitori come Greci combattenti all’unisono per la libertà. Un dolore al di sopra delle parti o tale da confondere le parti? Un dolore che modifica lo sguardo, che provoca una presa di distanza dalla propria cultura, ora, dopo la sconfitta, osservata con gli occhi degli altri, dei nemici? Certo una focalizzazione complicata.

E ancora, per rimanere in Eschilo, con le Supplici del 462 assistiamo alla neutralizzazione dell’alterità. Il dramma, con l’andamento di un vero e proprio processo conoscitivo e culturale molto vicino a quello di un’analisi, muove dalla schiera delle Danaidi che dall’Egitto raggiungono Argo da erranti in cerca di asilo. Vogliono sfuggire al matrimonio con i cugini, previsto dai costumi, ma imposto con la forza a loro che lo rifiutano. Il loro abbigliamento e, quel che più conta, la loro pelle brunita da sole le fanno percepire come diverse e sospette agli abitanti di Argo e al loro sovrano Pelasgo. Ma il racconto del loro padre Danao smentisce la diversità del loro aspetto. L’analessi narrativa contrasta le apparenze e fa riconoscere nelle giovani donne le ultime eredi della principessa argiva Io che sottraendosi al desiderio di Zeus, era stata trasfigurata in giovenca dalle pesanti corna e spinta a un’erranza interminabile fino all’Egitto. Fino al luogo in cui, dal tocco di Zeus, aveva generato Epafo, antenato delle figlie di Danao in fuga e dei figli di Egitto, i cugini che le inseguono pretendendole in spose. Le straniere si scoprono concittadine e congeneri, astoxenoi (v. 356), del popolo a cui chiedono accoglienza. Le erranti sono di fatto le discendenti che tornano sui luoghi delle origini e chiudono il cerchio aperto dalla loro antenata argiva. Non solo la vita -come suggeriva Pasolini sul prato verde nel finale del suo Edipo – ma anche la storia finisce là dove comincia e talvolta ricomincia là dove finisce.

Ripercorrendo a ritroso il viaggio di Io, per anamnesi – “dicono”, “la leggenda è presente a molti”, vv. 291-293- gli Argivi ritrovano la diaspora nel loro passato e decostruiscono il blocco di una identità falsamente autoctona. Sono guidati a straniarsi da sé, a pensare se stessi come “altri” nella figura della loro antica principessa in fuga e, infine, a rispecchiarsi nelle donne dall’aspetto diverso provenienti dall’altra parte del Mediterraneo.

Il tema dello straniamento da sé, dalle proprie certezze, dalle proprie appartenenze con i loro clichés culturali, dominante nei Persiani e nelle Supplici, nel teatro di Eschilo corre parallelo, con qualche significativo incrocio, al tema del potere.

Nell’Orestea, la trilogia del 458 di cui molto teatro successivo porta memorie più e meno trasparenti, la vicenda del vincitore Agamennone è portata in scena con una strategia drammaturgica che non consente né al Coro né agli spettatori di aderire con partecipazione gioiosa alla vittoria dei Greci su Troia. Ancora prima che l’azione si avvii, i vecchi del Coro, depositari della memoria collettiva, nel canto di ingresso rievocano il sacrificio di Ifigenia, l’antefatto sacrilego consumato per propiziare la spedizione, la violenza alle radici del potere e della vittoria di Agamennone. Uno dopo l’altro e l’uno per conseguenza dell’altro, nell’intreccio si inanellano assassinî feroci intrafamiliari: nel primo dramma il re vincitore è ucciso dalla sua sposa Clitennestra che vendica il sacrificio della figlia e si impadronisce del trono con il suo amante e complice; nel secondo, al culmine della curva emozionale, Oreste uccide sua madre per vendicare suo padre e sterminare la coppia dei tiranni illegittimi; nel terzo, Oreste, inseguito e tormentato dalle Erinni vendicatrici della madre, è assolto presso il tribunale dell’Areopago e da Atena, la dea patrona di Atene e del nuovo mondo fondato sulle leggi e sul logos come antidoti alla forza bruta e alla violenza delle vendette da lavarsi con il sangue. Ma il nuovo mondo della città può attrarre senza riserve gli spettatori o vuole porli in distanza critica dall’ideologia e dalla propaganda che lo sostengono? Vuole rassicurarli o vuole provocarli insistendo con parole e immagini sul prezzo altissimo del sangue materno, il più consanguineo, versato da Oreste per porre fine all’arcaico mondo palaziale?

Sofocle, drammaturgo di prima grandezza, fu anche un uomo politico di forte rilevanza. Era stato appoggiato ai suoi inizi da Cimone, figlio del vincitore di Maratona e personalità dominante intorno alla metà del V secolo, nell’Atene cosiddetta “cimoniana”. E grazie alle influenze di Cimone (Plutarco, Vita di Cimone 8) aveva vinto al concorso drammatico del 468, superando Eschilo.

Fu anche, Sofocle nel 442 – si tramanda per effetto del grande successo dell’Antigone– eletto stratego al fianco di Pericle nella campagna contro Samo. Conosceva dunque il potere e le sue dinamiche più e meno decenti, dall’interno. Ma, almeno nelle tragedie che ancora leggiamo, non fu mai il prono portavoce della ragione politica trionfante. Ne fu semmai il mentore, la voce critica che ne portava alla luce i segreti e ne segnava i limiti necessari.

Sofocle conosceva i procedimenti di esclusione violenta o dolosa con cui la politica, in nome di un cinico calcolo di opportunità e di vantaggio, il kerdos, sapeva marginalizzare e isolare le figure che da organiche erano divenute ingombranti e scomode: li aveva drammatizzati e offerti al dibattito nel più antico Aiace e di nuovo e con toni molto crudi nel più tardo Filottete. E conosceva, Sofocle, anche il dovere e la forza della disobbedienza. Tra i suoi personaggi Antigone resta la più celebre e indelebile voce del dissenso che corre sordo nella città, silenziato dalla paura: Creonte non può, neppure in nome di un buon governo fondato sui diritti che aboliscono i privilegi, impedire la sepoltura di Polinice, il fratello nemico, non può offendere l’ethos antico e condiviso, sancito anche dal precetto religioso; la voce contro della giovane donna, una vergine non ancora sposa e dunque ininfluente nell’ordine sociale, cade come un granello di sabbia negli ingranaggi del fondamentalismo e li fa inceppare fino a travolgere il tiranno nella catastrofe. E la resa tragica di Sofocle non finisce di sorprendere: gli argomenti della sua Antigone restano travolgenti nei secoli e dovunque, anticipano anche quelli con cui la madre di Alexei Navalny chiede e la chiesa ortodossa ottiene per il più noto oppositore del sistema la tradizionale sepoltura negata dagli apparati del Cremlino con le stesse ragioni dell’antico Creonte, in nome dell’opposizione politica tra amico e nemico della patria.

A differenza del Creonte dell’Antigone, Edipo dell’Edipo re è un sovrano amato dal suo popolo a cui si rivolge con il nome di “figli” e che lo invoca con il nome di “padre”. Ma il re salvatore al termine di quell’analisi implacabile con cui rivanga i propri trascorsi e in cui coinvolge tutta Tebe, dalla corte ai pascoli del monte Citerone, scopre il mostro che si nasconde dentro il buon sovrano. Si rende consapevole delle trasgressioni estreme che aveva interpretate come vittorie, come superamenti delle maggiori prove intellettuali e fisiche, dalla uccisione dello sconosciuto a bordo del carro, colui che si rivelerà essere il re e suo padre, alla sconfitta della Sfinge, all’unione con la regina che si rivelerà incesto con la propria madre.

Con Euripide, nella seconda metà del V secolo e sullo sfondo della feroce guerra del Peloponneso combattuta tra Greci, la spinta critica della tragedia non dà più tregua agli spettatori. E’ finito da almeno tre decenni il tempo di Cimone che aveva posto la guerra di Troia a paradigma di tutte le guerre giuste di reazione e di riscatto. E’ finito anche il tempo di Pericle che non aveva mai del tutto rinnegato i temi forti della propaganda cimoniana pur avendo favorito l’ostracismo dell’amico, in seguito richiamato per garantirsi il consenso (Plutarco, Vita di Cimone e Vita di Pericle).

Le tragedie euripidee di materia atridica e troiana sconfessano una dopo l’altra le ragioni-pretesti di quella guerra archetipica: Ifigenia, destinata al sacrificio, era stata salvata per sostituzione dalla sua dea Artemide che sull’altare aveva portato una cerva; non Elena era andata a Troia, ma una bolla d’aria, una nuvola, un eidolon con le sue sembianze.  La guerra e i suoi esiti non è più raccontata dal punto di vista dei Greci vincitori, ma dallo sguardo rovesciato delle donne troiane private dei figli e della città, le più vinte dei vinti, destinate alla deportazione e alla schiavitù, offese. E quando le drammaturgie riprendono i soggetti greci, il primo piano più frequente non è per gli eroi vincitori, ma per gli epigoni, per i loro figli che sono i frutti guasti e impazziti della vittoria e del potere. Eschilo, nel finale delle Coefore e nelle Eumenidi, aveva rappresentato Oreste in preda a un incipiente delirio – la mia mente si offusca, Coefore 1021-1025- per la colpa del matricidio commesso, ma pur sempre come figura dell’estrema violenza fondativa all’origine di un nuovo mondo. Nelle tragedie di Euripide in cui compare da protagonista – l’Oreste del 408 – o da comprimario – l’Andromaca del 426, l’Ifigenia in Tauride del 414, l’Elettra del 413 – Oreste è ridotto al folle in preda agli accessi ricorrenti della sua malattia, al criminale recidivo senza altra via di salvezza che nuove uccisioni, quella di Neottolemo compiuta nell’Andromaca e quella di Elena progettata nell’Oreste. Come sua sorella, Elettra, che lo aveva spinto al matricidio, anche Oreste porta nel corpo i segni del degrado morale: entrambi sono sporchi, laceri, irriconoscibili anche per i familiari più stretti.

Forse ripensare la tragedia antica non più nella forzata e abusata chiave neoclassica della ricomposizione e della compensazione catartica, forse ripensare la tragedia per quello spettacolo molesto che i testi ancora ci trasmettono, ripensarla per i turbamenti e gli straniamenti che poteva e voleva provocare sul suo pubblico e che ancora ci provoca, ripensarla nei termini aristotelici, negli effetti complementari di paura, phobos, che fa regredire gli spettatori in sé e di compassione, eleos, che li reintegra nella comunità, può aiutarci a immaginare con Horenstein la nuova psicoanalisi del XXI secolo: la psicoanalisi dello spazio e del tempo, delle marginalità e dei confini mobili, delle crisi e delle sofferenze di quest’ultimo millennio e dei suoi luoghi più tormentati, una pratica che non mira all’edificazione di una norma etica a cui sottomettere l’esistenza. Una pratica che, per chi vi si rivolge, apre un cammino di cui neppure l’analista conosce l’approdo, un iter di ridefinizione degli individui e delle comunità, delle loro interrelazioni. Una pratica autenticamente politica, così mi piace pensarla e chiamarla.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

G. Bachelard, La poetica dello spazio [La poétique de l’espace, Paris 1957], trad. a c. di Ettore Catalano, Bari 2024

-A. Beltrametti, Il piacere proprio della tragedia. Emozioni, tecniche e intenzioni: un’impasse aristotelica, in E. Berardi, P. Castiglioni, M.L. Desclos, P. Dolcetti (a cura di),   Filosofia, storia, immaginario mitologico. Nuovi approcciPhilosophie, histoire, imaginaire mythologique. Nouvelles Approches,  Alessandria 2022, pp. 58-73.

-A. Beltrametti, Giovani donne dalla pelle nera, “fiori bruniti dal Nilo e dal sole, straniere della nostra stirpe”. Le Supplici di Eschilo verso nuove frontiere tra identità e alterità, tra giusto e ingiusto, «Dioniso» n.s. 5 Annale della fondazione Inda (2015), pp. 31-50

-S.Föllinger, Aischylos: Meister der griechischen Tragödie, München 2009.

-R.Garland, Wandering Greeks: The Ancient Greek Diaspora from the Age of Homer to the Death of Alexander the Great, Princeton-Oxford 2014.

-E.Hall, Inventing the Barbarian. Greek Self-Definition through Tragedy, Oxford 1989.

-A.R.W. Harrison, Il diritto di Atene. La famiglia e la proprietà [The Law of Athens- The Family and Property, vol. I, Oxford 1968], trad. a c. di P. Cobetto Chiggia, Alessandria 2001.

-L. Preta (a cura di), Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire, Milano 2023.

-P. Ricœur P., Sé come un altro [Soi-même comme un autre, Paris 1990], trad. it. a c. di D. Iannotta, Milano 1993.

-A.H. Sommerstein, The Theatre, the Audience, the Demos and the Suppliants of Aeschylus, in C. Pellling (ed.), Greek Tragedy and the Historians, Oxford 1997, 63-80.

-D. Susanetti, Catastrofi politiche. Sofocle e la tragedia del vivere insieme, Roma, Carocci, 2011.


[1] Il titolo esatto del seminario dato da Mariano Horenstein a partire dalla sua Lectio magistralis è Freud a Gaza. Lo psicoanalista come testimone auricolare, traduzione letterale del termine in lingua inglese earwitness. Si è poi scoperto che la dizione testimone auricolare è il titolo di un libro di Elia Canetti ed è inoltre una figura giuridica, equivalente a quella del testimone oculare (nota di Daniela Scotto di Fasano).

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