Cultura e Società

Confini identitari e processi culturali. Alfredo Lombardozzi

10/02/19

Confini identitari e processi culturali

 L’esperienza di un gruppo di operatori e rifugiati richiedenti asilo in un centro di accoglienza

Alfredo Lombardozzi
2017

 

“Per quanto tempo un tronco scorra nell’acqua di un fiume, non per questo diviene un coccodrillo”
(Proverbio del Mali)

Premessa

 

Il lavoro con l’equipe che gestisce un centro di accoglienza in un comune nei pressi di Roma mi consente di fare alcune importanti riflessioni. Si tratta di un gruppo di tipo esperienziale a cui partecipano operatori italiani e ospiti del centro, che hanno un contratto per svolgere diverse mansioni di lavoro, provenienti da differenti paesi dell’africa subsahariana. L’intervento mi è stato richiesto dalla cooperativa che gestisce il centro per poter lavorare sulle dinamiche istituzionali che implicano complesse relazioni interculturali. Intendo fornire alcune possibili tracce ‘leggere’ o direzioni rispetto all’esperienza del gruppo senza rinchiuderle in un modello troppo saturo, che esaurirebbe il suo potenziale generativo e lo ridurrebbe dentro griglie teoriche troppo rigide.

Nel primo incontro con i membri dell’equipe introduco il nostro lavoro proponendo al gruppo un focus di lavoro, che ha a che fare con la gestione delle emozioni e delle relazioni di carattere interculturale, in un’istituzione la cui natura è quella di gestire il tempo di attesa per un riconoscimento che la ‘società’, a seconde delle regole e delle leggi che vi operano, deve attribuire ai migranti che richiedono il diritto di asilo.

La mia sensazione immediata è quella di essere costretto in una dimensione troppo legata ad un compito, aspetto che, d’altronde non può neanche essere sottovalutato. Ho anche la percezione, che si riferisce ad un’analisi più ampia e complessa, che il problema dei migranti, proprio per le dimensioni che sta acquisendo, si stia centrando sul tema del diritto di asilo, restringendo la ‘categoria’ dei migranti, che possono aspirare al permesso di soggiorno, a quella di coloro che fuggono da situazioni drammatiche di guerra, persecuzioni e violenze contro la persona e gruppi. In questo modo si tengono fuori quelli che, impropriamente, sono definiti migranti economici, oppure climatici, o di altra natura. Questa strettoia è dovuta alla situazione politica, alle scelte ‘culturali’ che ne derivano ed è all’origine di ambiguità non trascurabili sul piano delle relazioni emotive. Sicuramente la maggior parte dei migranti, che oggi arrivano attraverso i barconi sulle sponde italiane affrontando situazioni di grande rischio e sofferenza, emigrano per motivi connessi a situazioni insostenibili di guerre e sopraffazioni, ma queste esperienze sono spesso correlate a condizioni di povertà o di insostenibilità ambientale. Questa non chiara definizione della condizione di ‘esiliato’ comporta un vissuto molto angosciante da parte degli ospiti del centro di accoglienza, nell’attesa e al momento dell’incontro con il giudice o la commissione che deve decidere sul loro futuro. Inoltre determina una difficoltà nella definizione della propria identità e nella ricollocazione della propria esperienza di migrazione, che deve essere narrata e rinarrata in momenti diversi e in relazione a necessità di tipo diverso. Questo aspetto è molto rilevante in quanto ha a che fare con motivazioni sul piano più apertamente sociale e, allo stesso tempo, nei vissuti psichici profondi, che implicano il complesso dell’esperienza della migrazione a livello personale, di gruppo  e negli assetti istituzionali coinvolti.

Koinonie

 

Nel corso di una prima fase di esperienza nel gruppo è emerso in modo molto diretto e immediato il bisogno, sia da parte del personale italiano che di quello ‘africano’, di avere uno spazio in cui elaborare emozioni e vissuti drammatici e conflitti di natura relazionale molto intensi. Soprattutto si è, già all’inizio, manifestata in modo evidente la spinta a approfondire la natura del rapporto tra diverse identità/alterità culturali e delle forti emozioni che abitano quel territorio di attesa che è il centro di accoglienza.

La mia presenza come conduttore del gruppo viene in qualche modo individuata nella sua specificità. Anche se mi muovo immediatamente in uno stile acquisito nell’esperienza psicoanalitica di gruppo, il gruppo viene definito di ‘supervisione antropologica’, per distinguerlo da altri tipi di interventi più denotati da una ‘caratterizzazione’ genericamente psicologica. Il termine supervisione indica l’aspettativa di un gruppo che chiede di essere in qualche modo orientato nei meandri dei molteplici soggetti istituzionali che entrano in gioco e costituisca, però, anche uno spazio per operare una connessione tra le dinamiche psichiche, il lavoro sui confini identitari e, più in generale, gli aspetti culturali, molto difficili e complessi da gestire.

Si è subito evidenziato un movimento nel gruppo che esprimeva un bisogno di rispecchiamento che consentisse una messa in campo dei reciproci sentimenti di alterità e, allo stesso tempo, di trovare punti di contatto, ‘in comune’, di un sentire sul piano emotivo e un operare sul piano pratico. Il rispecchiamento, in questo senso,  crea lo spazio non solo di una reciprocità, che riguarda i due ‘sottogruppi’ (italiani e stranieri), quanto istituisce la possibilità di una koinonia come la intendeva Francesco Corrao (1995), cioè uno spazio multifocale, molteplice e ‘in comune’ allo stesso tempo.

A si fa portatore dell’idea che il gruppo degli operatori italiani sono quasi stupiti della maturità degli ‘africani’ rispetto alla loro giovane età e dell’attaccamento al lavoro che manifestano a confronto dei coetanei italiani. Allo stesso tempo, ci tiene a sottolineare quanto i ‘colleghi’, cosiddetti ‘africani’, non amano essere definiti tali in quanto lo ritengono riduttivo rispetto al loro senso di appartenenza. Infatti, spiega Ab., un mediatore culturale del Mali, che ogni paese africano  appartiene ad una cultura diversa e ha una propria dignità e, si potrebbe dire, differenza. Si può essere, di conseguenza, maliano, senegalese, gambiano, della Sierra Leone, nigeriano e così via. Prendendo spunto da diversi lati del problema, entrambi denunciano il rischio di rimanere imprigionati nel pregiudizio di un’immagine stereotipica dell’altro. Da un altro punto di vista il gruppo degli operatori italiani sono identificati dagli ospiti stranieri con le varie componenti della Istituzione-Stato italiano. Lavorano per avviare le pratiche dei permessi di soggiorno, tengono contatti con le strutture sanitarie, con la dirigenza della cooperativa che gestisce il centro e così via. A spiega che loro (gli operatori) sono tante cose insieme, ma non possono essere identificati con quelle stesse istanze, oppure con le burocrazie che le caratterizzano. Emerge un tema di fondo che è quello del rapporto tra individuo, gruppo e cultura. Su questo registro indirizzo i miei primi interventi che sembrano sciogliere una tensione che si sentiva quasi ‘sulla pelle’. Sottolineo che le nostre emozioni-sensazioni rischiano di essere rinchiuse in idee rigide che, da un lato identificano in modo troppo totale ogni individuo con la sua cultura oppure, al contrario, negano l’importanza della cultura e della diversità. Ognuno appartiene ad una cultura, ma è anche diverso da chiunque altro della sua stessa cultura. Ognuno è individuo con una dignità persona. Sarebbe ancora più adeguato in un’elaborazione di questo tema riferirlo più alla ‘dividualità’ piuttosto che all’individualità (Kakar S., 1997, Remotti F., 2014). Il ‘dividuo’ si riferisce ad un vissuto personale ma che non può esaurire il suo senso nell’individuale, piuttosto interagisce con il flusso dei processi di identificazione gruppali e culturali.

Confusione delle lingue

 

Questo riconoscimento apre il campo della koinonia che, all’inizio, si manifesta nella forma della pluralità delle lingue che è anche una confusione delle lingue come emerge dalla lettura che Bion (1963) propone del mito di Babele. In alcune sedute, in particolare all’inizio, si pone in modo evidente il problema della lingua. In generale parliamo in italiano, ma a volte ci troviamo a parlare in inglese o in francese, che sono le rispettive lingue coloniali, a seconda delle appartenenze. A volte dobbiamo in qualche modo tradurre o esprimere con altre parole, o metafore, o immagini, il senso della traduzione dei significati di alcune parole o modi di dire. A volte può capitare che si inseriscano parlando tra loro lingue africane, almeno quelle che condividono, cosa non sempre possibile. Pur mantenendo l’italiano come lingua centrale c’è un fiorire di lingue: francese, inglese, bambara, mandingo ecc… S un membro del gruppo della Sierra Leone sembra rappresentare questo aspetto di plurilinguismo e il senso della confusione che genera. La lingua di S è molto difficile da comprendere sul piano logico, ma molto ‘musicale’, una lingua sincretistica e confusa dove tratti di inglese si mischiano con altri di italiano e, a volte, si alternano con elementi di bambara dell’Africa occidentale. E’ una dimensione sincretica che si colloca tra la confusione e la complessità e, proprio perché ha bisogno che tutto il gruppo si attivi in una funzione di traduzione sia sul piano emotivo che cognitivo, genera la koinonia gruppale a cui mi riferivo prima. La comprensione della lingua è possibile all’interno di un campo emotivo direi ‘sonoro’, un’armonia/disarmonia su cui si costruisce una forte relazione di gruppo. Si passa da questa dimensione caotica ma molto empatica alla necessità di definire sensi condivisi sul piano di una logica comune che è sempre il risultato di una negoziazione. Ad esempio, parlando della necessità da parte dei membri dell’equipe di fare osservare agli ospiti alcune regole di base e, allo stesso tempo, comprendere le ragioni delle difficoltà che questo comporta a causa della particolare condizione in cui versano, qualcuno dice: ‘bisogna mettersi nei loro panni’. Di fronte all’aria perplessa di D sul senso della metafora/modo di dire, tutto il gruppo si attiva per spiegare il senso misurandosi ognuno con le proprie capacità mimetiche ed espressive correlate alle argomentazioni più logiche. Questa condizione di koinonia linguistica, che è emotiva e per alcuni aspetti rappresentazionale, si ripresenta in modo ricorrente nel gruppo in particolare quando il gruppo ricerca, nonostante tutto, anzi proprio per fare fronte al pericolo di vivere una frammentazione nella relazione tra le alterità,  un unisono e una risonanza comune. La situazione che emerge in questa prima fase dell’esperienza del gruppo può riferirsi ad una condizione di continuità dell’esperienza nell’auto-rappresentazione del gruppo, che è l’esito di processi sensoriali, mimetici e rappresentativi connessi in un campo relazionale assimilabile al concetto di Semiosfera, proposto da Claudio Neri (1995).

Forme dell’istituzione

 

Nel procedere del lavoro di gruppo, che è molto intenso nonostante la frequenza mensile che genera una situazione di grande attesa, si configura una particolare dinamica che coinvolge i vari attori della scena. Infatti il gruppo si aggrega in modo più consistente e rinforza un assetto istituzionale, che la fa vivere come perno dell’istituzione ‘centro di accoglienza’ nel rapporto con le istanze interne ed esterne, che costituiscono in vari modi fattori di turbolenza del campo. Il lavoro di gruppo, lo scambio, potremmo dire dialogico, tra alterità in confronto, crea una forte senso di appartenenza. Possono parlare e confrontarsi nelle loro diversità e sentirsi come un’equipe al lavoro. Questo è molto importante per fare fronte a forti conflitti di natura diversa. I conflitti riguardano le relazioni fra gruppi di ospiti migranti di diversi paesi, soprattutto i nigeriani sono antagonisti a quelli del Gambia a della Sierra Leone; allo stesso tempo il gruppo ampio degli ospiti del centro percepisce i membri ‘africani’ dell’equipe come privilegiati; inoltre essi stessi sentono la fatica di rappresentare un’interfaccia tra la maggioranza degli ospiti e la cooperativa che gestisce il centro e lo stesso personale italiano. In più di un’occasione, ad esempio D, che gestisce la cucina viene criticato per aver favorito, dalla sua posizione, il maliani piuttosto che altri ospiti. Soprattutto emerge un curioso ma interessante processo. Infatti più il gruppo in quanto equipe mista si integra, anche grazie al nostro lavoro, più gli ospiti lo percepiscono con il rappresentante dell’Istituzione-Stato italiano. Inoltre questo Stato ha le sue procedure burocratiche, che coinvolgono le commissioni per decidere dei permessi di soggiorno e per il riconoscimento del diritto d’asilo, con tempi e norme per gli africani, abituati ad un  diverso rapporto con l’autorità e le istituzioni culturali, del tutto incomprensibili.

In questo contesto si pone, in tutta una fase di lavoro del gruppo, il tema delle regole. Bisogna avere delle regole condivise che devono essere seguite da tutti. Le regole riguardano: la gestione della quotidianità del centro, gli orari di uscita e rientro, la gestione della mensa e dei pasti, il divieto dell’uso di alcolici e di ricevere donne nel centro che è del tutto maschile, oltretutto di giovani uomini tra i 20 e i 25 anni. Nonostante nel complesso ci sia un clima favorevole aumentano nel tempo i conflitti che portano anche a volte a risse pericolose. Nel gruppo vengono raccontate situazioni molto difficili in cui gli operatori italiani fanno del loro meglio. Tra gli ‘africani’ S è particolarmente capace a sedare le risse con la sua bonarietà e, direi, ‘naturalezza’. Questi episodi generano nel gruppo fantasmi, o non solo fantasmi, persecutori tanto da porsi il problema se in certe situazioni bisogna chiamare la polizia oppure no. Si crea un senso di complicità tra gli ‘africani’ e gli operatori italiani che, mentre da un lato, obtorto collo, svolgono una funzione ‘regolatrice’, dall’altro esprimono a loro volta un atteggiamento ambivalente rispetto alla dirigenza della cooperativa, alla polizia, ai magistrati e si pongono come un cerniera, o un filtro, tra gli ospiti e tutte quelle istanze, che intervengono a vari livelli nella vita dei migranti, ma che sono per loro quasi incomprensibili, creando un senso di estraneità che noi potremmo definire kafkiano.  La mia sensazione, rifacendomi alla ‘metafora’ della navigazione e dell’esodo, è quella di ‘essere tutti nella stessa barca’. Il gruppo deve procedere mantenendo una sufficiente coesione per mantenersi a galla ed accompagnare gli ospiti al compimento del loro progetto, che è quello di essere riconosciuti nella loro condizione di bisogno e di poter accedere ad una vita in Italia, non come clandestini ma con il riconoscimento di uno stato di rifugiato. La situazione da questo punto di vista non migliora perché dopo un primo periodo di maggiore disponibilità le commissioni stanno dando risposte negative. Dopo una prima risposta negativa il rifugiato fino ad ora poteva fare un ricorso, ma d’ora in poi, in seguito ai decreti recenti del governo, il ricorso non sarà più consentito.  Si crea un clima di grossa tensione che avrà degli esiti molto significativi nel gruppo.

Alterità a confronto

In particolare una serie di eventi nel gruppo si incentrano sulla figura di D che assume una funzione determinante nelle dinamiche gruppali. Il ruolo di D, infatti,  consente il prodursi di un processo di forte articolazione nella dinamica gruppo-individuo. D, a causa della propria condizione personale e anche la sua storia di migrante, diviene il portatore di un’istanza direi messianica, nel senso i cui la intende Bion (1970), del gruppo, però con forti angosce che l’aspettativa messianica fallisca e non si realizzi.

Un primo evento che lo riguarda è molto significativo. A, un operatore molto capace, all’inizio della seduta racconta di un fatto accaduto tra lui e D e crede che sia un bene che se ne parli in quanto c’è stata molta rabbia. E’ molto dispiaciuto, anche se personalmente si sono già chiariti. Era successo che D stesse vedendo un film in televisione. Nel film una ragazza adolescente seduceva un suo insegnante scolastico nonostante fosse fidanzata con un coetaneo della scuola. D reagisce alla situazione del film esclamando ‘Italiani delinquenti!’. A, che era presente, aveva reagito a sua volta rispondendogli ‘Se non ti sta bene stare in Italia, tornatene a casa’. La cosa finisce lì, ma D si arrabbia molto senza esprimerlo apertamente e A si dispiace moltissimo di quello che ha detto. D spiega che lui non si regola bene con l’italiano e che non ce l’aveva con gli italiani, ma con il comportamento di quella ragazza che al suo paese non sarebbe stato possibile. Anche A si scusa, a sua volta, di quello che ha detto. D spiega che è stato malissimo per la situazione creatasi e che il suo dolore riguarda il fatto che sentiva la rabbia ma non poteva esprimerla in quanto A, data la sua età e la sua posizione, per lui è come un padre e nel suo paese non è pensabile per un giovane avere un tale conflitto con il padre o con un uomo adulto autorevole. Ab spiega che in Mali, o in molte culture africane, un giovane quando parla con un uomo adulto, che abbia un’autorità, deve abbassare gli occhi. Inizia uno scambio su quello che nel campo antropologico vengono chiamati ‘costumi’ (Remotti F., 2011) e che attengono a modi relazionali o stili di distinzione (Bourdieu P., 1979) in culture diverse. Gli operatori italiani spiegano che in  Italia, diversamente dalle culture africane, c’è un rapporto diverso con l’autorità che non prevede quel tipo di sottomissione e che la situazione del film, anche se non è considerata opportuna, soprattutto se la ragazza è minorenne, nemmeno però è così intollerabile. Si parla di conseguenza del modo di comportarsi delle donne in Italia. Ab spiega che non dobbiamo pensare all’Africa, e in particolare al Mali, come una situazione omogenea. Ad esempio la situazione è differente in un villaggio (e D viene da un villaggio) e una grande città come Bomako. Lì le ragazze si vestono e si comportano in modo molto simile a quelle italiane. Lo sostiene rispondendo a S, l’altro operatore italiano, che era intervenuto dicendo che un certo tipo di comportamento e di mentalità gli fa pensare a quello di sua nonna che è nata e vive in un paese del Molise. Il gruppo si trova ad affrontare in termini molto appropriati il tema della difficoltà di misurarsi con assimilazioni, sul piano della relazione interculturale, spesso troppo semplificate o banalizzate.

Il confronto è stato molto inteso emotivamente; la rabbia di D non trovava un modo ‘culturale’ per esprimersi ed aveva provocato nel gruppo un corto circuito basato sul pregiudizio reciproco. Potersi spiegare, rendendo espliciti i termini della diversità, ha consentito di aprire un dialogo e di sciogliere il nodo della rabbia. Emerge anche con una certa chiarezza che la finalità del nostro lavoro non sia quello di integrare le diversità, di fatto negandole oppure ridimensionandole eccessivamente, ma di articolarle tra loro dando una ‘casa’ al conflitto, introducendo nella situazione dialogica di gruppo elementi condivisibili nella diversità. I gruppo diviene in quest’ottica il luogo della negoziazione tra alterità che si collocano in un terreno e uno spazio-oggetto che ‘crea’ l’oggetto condiviso, che è il gruppo stesso nella sua funzione di oggetto-sé che garantisce una relativa costanza e coesione (Kohut H., 1977, Neri C., 2000, Pines M., 1998), nel corso dell’esperienza e del processo che incorpora. Il gruppo sembra, inoltre, riconoscersi in un commento di Ab, il mediatore del Mali, che recita il proverbio che è riportato in esergo: Per quanto tempo un tronco scorra nell’acqua di un fiume, non per questo diviene un coccodrillo”. Insomma: i contesti di appartenenza identitaria denotano i confini tra lo psichico e il culturale. Nel flusso delle trasformazioni nel fiume interculturale dell’esperienza della migrazione un uomo del Mali rimane del Mali e vive lo strappo nella sua nostalgia che si accompagna al progetto forte di una nuova vita.

Oscillazioni Gruppo-Individuo

 

Nel corso del gruppo si definiscono un po’ meglio i contorni del problema. D e S devono affrontare l’udienza per il riconoscimento del diritto d’asilo. Nel gruppo D viene invitato a raccontare la sua storia. D dice che non se la sente. A. parla per lui in termini generici perché è evidente che si toccano punti molto dolorosi. Infatti D ha affrontato il deserto è stato nelle carceri libiche, costretto a salire su un barcone, che è poi affondato e ha visto i suoi compagni affogare. E’ uno tra i pochi superstiti di un naufragio con duecento morti. Anche S viene da una situazione molto difficile. Durante la guerra in Sierra Leone ha perso il genitori e ha vissuto con tante famiglie e non è più potuto andare a scuola. Per questo ci tiene molto a studiare in Italia. Soprattutto D è molto angosciato per la prova che deve affrontare. Vorrebbe portare con sé il mediatore culturale perché è preoccupato di non potersi spiegare sufficientemente bene. B, che è un mediatore culturale nigeriano, lo rassicura e lo sostiene riportando la sua esperienza di tanti anni in Italia e invita, sia D che S, a parlare da soli in italiano con la commissione e anche a parlare tra loro in italiano e non in lingue africane per entrar di più dentro quella che si potrebbe definire la ‘mentalità’ della lingua.  Un serie di interventi sottolineano, però, l’importanza di potere familiarizzarsi con la lingua italiana e, allo stesso tempo, mantenere il contatto con le proprie ‘tradizioni’. D, rispondendo alle sollecitazioni di B, mi guarda intensamente e dice. “Ma mi emoziono!”. Io intervengo dicendo che l’emozione deve avere un suo luogo per esprimersi e che qui lo possiamo fare soprattutto quando ci si può trovare in  una situazione che costringe a misurarsi di nuovo con i propri dolori. C’è una situazione molto intensa alla fine di questa seduta; il gruppo si stringe intorno al tavolo facendo sentire a S e a D la propria solidarietà. C’è quasi un bisogno di un contatto fisico e alla fine quando vado via D e S mi abbracciano ringraziandomi.

La seduta successiva il discorso si orienta subito sull’udienza di D. Mi dicono che la giudice ha rinviato la decisione tra nove mesi. D è molto scoraggiato e arrabbiato. A ironizza sul fatto che D è seccato che la giudice era una donna e per lui essere giudicato da una donna non è ammissibile. D conferma che è stato per lui motivo di imbarazzo rispondere a domande definite ‘intime’ che, a suo avviso, non era opportuno fare. Inoltre mima l’espressione della giudice esprimendo l’angoscia della sua incomprensione. Infatti la giudice all’inizio, mentre lui raccontava di nuovo la sua storia personale, sembrava arrabbiata, in un secondo momento scuoteva la testa come fosse dispiaciuta e sconsolata e, alla fine, dopo avergli detto che doveva tornare nove mesi dopo rimandando una decisione, lo avrebbe salutato con un sorriso. A allora lo rassicura sostenendo che questo era un segno positivo, ma D sembra molto demoralizzato e insiste sulla sua impossibilità di comprendere il senso del messaggio e soprattutto la lentezza delle procedure. Un tempo lento, faticoso, che potrebbe portarlo, in una situazione diversa, ad ‘uccidersi’. D’altronde nella loro cultura la morte non è la fine di tutto. Il discorso va sulla posizione della donna in relazione al potere. D spiega meglio che al suo villaggio una donna anziana, che è un po’ come una madre, può entrare in alcune decisioni e ha un potere, per cui alla fine potrebbe anche accettare il ruolo della giudice ma il problema fondamentale è che non capisce e l’attesa è pesante e quasi in sostenibile. Io intervengo dicendo che la sensazione che ci propone D è quella di vivere la condizione di essere ‘invisibile’; di fronte al non capire possiamo annullarci e allora pensare ‘mi uccido’ è un modo di riprendersi la propria esistenza. D sembra approvare quello che dico e Ab lo sostiene molto, lo incoraggia. A sostiene che Ab ha un carattere diverso da D, che è ottimista, mentre D è pessimista. D sembra perplesso, come se non avesse capito il significato della parola pessimista e A, allora, prende un bicchiere, lo riempie per metà e gli chiede: “Questa è acqua: Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?”. D risponde: “Mezzo pieno!”. A risponde: “Allora vedi, che puoi essere ottimista. Il pessimista è quello che vede sempre quello che manca”.  Ab a quel punto propone un’immagine molto significativa: la burocrazia italiana, rappresentata dalla giudice, è come un camaleonte che si muove lentamente. Io aggiungo che è vero che il camaleonte si muove lentamente, ma ad un certo punto, è velocissimo a catturare la preda con la lunga lingua ed ha, inoltre, la caratteristica di mimetizzarsi con l’ambiente. Aggiungo che ci troviamo in una particolare condizione che è quella di dover far fronte al cambiamento che è, a volte, troppo lento, ma con esiti improvvisi e imprevisto e che, come un camaleonte, dobbiamo trovare i modi di adattarci e cambiare la nostra pelle. Anche questa seduta finisce con un forte contatto fisico tra tutti e, soprattutto S e D, mi abbracciano ed esprimono un senso di gratitudine che è condiviso dal gruppo nel suo complesso.

Alcune considerazioni in conclusione

In conclusione tenterei di individuare alcune tracce di un possibile modello di lavoro che si sta costruendo, ‘in fieri’.

Un primo punto riguarda il focus centrale che il gruppo ha avvicinato e che è rappresentato dalla condizione di D che, nella dinamica gruppo-individuo, contribuisce al costituirsi di un campo psicoanalitico, che è uno spazio di ‘pensabilità’, in relazione alla realtà ‘traumatica’ dell’esperienza della ‘migrazione’ oggi e dell’impatto, anch’esso ‘traumatico’, sulla società ospitante. D, insieme agli altri ‘migranti’ partecipanti al gruppo, è portatore di un’esperienza traumatica che è difficile riportare in forma di parola, almeno in questa fase del lavoro del gruppo, se non attraverso il racconto degli altri. E’ molto efficace l’immagine che ha proposto Virginia De Micco (2017), di un tempo fermo al momento del naufragio e del rischio della propria vita, e anche del senso della propria esistenza, in  una mano aggrappata alla possibilità di un’affatto scontata sopravvivenza. Il gruppo sembra farsi carico, attraverso un primo processo di elaborazione in un contesto di condivisione, della forte angoscia nell’esperienza di ri-traumatizzazione, in occasione delle udienze con le commissioni del diritto d’asilo, con il vissuto drammatico del riproporsi di un tempo ‘lento-quasi fermo’, che espone alla perdita di sé e della propria esistenza. Il lavoro del gruppo, attraverso un’articolazione più fluida dei vari ruoli: il mio, quello degli operatori italiani, quello dei migranti lavoranti, oltre che consentire l’elaborazione del trauma e del lutto della perdita a livello psichico, riapre la possibilità di un nuovo orizzonte culturale, che non riduce l’esperienza traumatica del migrante alla dimensione ‘patologica’ (Beneduce R., 2010), ma diviene testimonianza di un possibile riscatto, che si realizza nell’azione di un rituale di gruppo (l’abbracciarsi dopo la parola), che è, allo stesso tempo, di contenimento e di trasformazione. Attraverso il passaggio nell’esperienza catastrofica, ma nei termini di un cambiamento (Bion W.R., 1965), si riformula la ‘realtà traumatica’ in nuove possibili dimensioni di Tempo e Racconto. Il rischio sempre incombente di quella che in termini demartiniani viene definita ‘apocalisse psicopatologica’ può volgere verso la condizione più ampia, condivisa e contenitiva, di una ‘apocalisse culturale’, al fine di riaprire sia l’individuo che il gruppo al senso di una Storia rinnovata a cui si appartenga (De Martino E., 1964).
Si tratta di una tensione, di un processo, che non ha alcuna certezza di realizzazione, ma che nel lavoro di gruppo può contribuire ad indicarci una possibile via di intervento.

Il secondo punto riguarda la gestione degli aspetti interculturali della relazione in termini di conflitto/solidarietà, che emerge in vari modi e in diversi momenti del gruppo. Quello che sembra evidente è la necessità di garantire uno spazio in cui possa esprimersi la differenza culturale, sia nei termini di una tensione al dialogo, che del senso di estraneità che provoca l’incontro con l’alterità. Tenere aperto lo spazio all’alterità, sia sul piano dell’esperienza psichica interna che relazionale,  consente di rendere fluidi i confini identitari, in un processo continuo di ridefinizione, che articoli le dimensioni conflittuali con lo spazio del dialogo. Si tratta di un terreno arduo e duro, in cui, nelle ridefinizioni delle identità sul piano psichico e culturale, si va incontro a vissuti di dispersione, frammentazione e confusione, nel campo dei processi emotivi, di significazione, a livello linguistico e sensoriale del gruppo. Ritengo, però, che il punto centrale sia quello di cogliere il senso generativo di un processo che denota quella che ho definito L’imperfezione dell’identità. Una visione dell’identità aperta al cambiamento che alberghi dentro di sé i fattori ‘perturbanti’ in senso freudiano dell’alterità/estraneità (Freud S., 1919) e, allo stesso tempo, consenta che questi siano, all’interno del sé, in una relazione di contiguità con ‘tratti di familiarità’, che permettano di condividere esperienze comuni di un senso di umanità, nelle forme più varie dell’esistenza culturale (Lombardozzi A., 2015). L’immagine del proverbio del Mali, del legno che non diviene un coccodrillo nel flusso del fiume, riporta l’idea che si riferisce sul piano psichico ad un idioma del sé (Bollas C., 1992), che mantiene una sua coerenza, anche se in termini relativi, trasformandosi nel corso dell’esistenza in una serie di varianti. Sul piano delle ‘relazioni interculturali’ il lavoro del gruppo si muove in una continua oscillazione tra il polo della differenza culturale, nella molteplicità di forme di umanità, e quello della comunanza del sentire. Possiamo raffigurare questo processo in una gamma di colori, che si distinguono in varie gradualità di toni e intensità, assimilabili, di volta in volta, a sentimenti di natura diversa (rabbia, gratitudine, empatia, estraneità, differenza, similarità). In termini di dinamica di gruppo i vari momenti di tensione ed avvicinamento sembrano esprimere un buon funzionamento, in cui il gruppo si costituisce a volte come gruppo di lavoro, a volte come gruppo in assunto di base (Bion W.R., 1961) senza, però, nel momento in cui si attiva una funzione gamma di pensabilità di gruppo (Corrao F., 1981), irrigidirsi in un assunto di base specifico, ma consentendo un’articolazione dinamica tra le varie posizioni (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento).

Il terzo punto attiene al funzionamento del gruppo come facente parte di un’istituzione, che implica relazioni multiple e funziona a diversi livelli complessi. Il lavoro con il gruppo esperienziale nutre lo spazio ‘creativo’ della relazione, bonificando le angosce relative alla condizione di sofferenza e di crisi identitaria, nel campo dei rapporti interculturali, nel contesto dell’esperienza migratoria, che coinvolge entrambe le componenti, che si muovono sulla scena psico-sociale: i ‘migranti’ e coloro che ‘ospitano’. Come si è visto nello sviluppo del gruppo i campi istituzionali si articolano in vari modi. Nel lavoro di elaborazione delle angosce destrutturanti connesse all’incontro/scontro tra le alterità, il gruppo lavora nella direzione di fare leva sulle potenzialità creative dello scambio relazionale tra culture diverse, che avviene nel facilitare un faccia a faccia tra le alterità, che è la condizione tanto per il riconoscimento delle differenze, quanto per l’articolazione e per un possibile  auspicabile equilibrio ma sempre a rischio, tra identità/alterità, aspetti perturbanti e elementi di famigliarità nel rapporto tra culture. Il funzionamento del gruppo equipe-esperienziale, allora, diviene il luogo del reciproco riconoscimento e, di conseguenza, si pone come mediatore rispetto a quegli aspetti dell’esperienza, che si presentano statici sostando nelle parti più oscure della relazione interculturale e delle emozioni che entrano in gioco. E’ significativo che questo aspetto acquisisce una forma nella dinamica nell’assetto istituzionale. L’impatto che ho avuto spesso, entrando nel centro di accoglienza e osservando gli ospiti, che sono circa sessanta, è stato depersonalizzante. Si respira un senso di demoralizzazione e isolamento. Gli ospiti, che sappiamo per la maggior parte avere trascorso esperienze analoghe quelle D di e degli altri membri ‘africani’ dell’equipe, sono in genere quasi accasciati sulle sedie o divani negli spazi comuni, con cuffiette alle orecchie e rinchiusi nel display del loro cellulare. Questo nell’attesa ‘passiva’ di un integrazione che non sempre arriva. Il centro comunque lavora bene: lezioni di italiano, attività di social dreaming e così via. Le condizioni igieniche e sanitarie sono buone. Nonostante tutto ho l’idea che, a livello di dinamica psichica profonda,  il gruppo ‘largo’ degli ospiti mette in scena qualcosa che ha a che fare con una condizione molto vicina a quella che Bleger (1971) descrive come ‘socialità sincretica’, che si basa su una forma di ‘identità’ di tipo simbiotica/parassitaria, dove non ci sono  limiti, regole condivise e forme di distinzione, che consentano di articolare emozioni forti ma che possano fare evolvere il pensiero emotivo. Al contrario si viene a creare identità-pantano, dove il trauma vissuto  rimane recluso, nell’oscurità dell’esperienza individuale, in una solitudine priva di comunicazione e soprattutto di riscatto. Il fantasma del rientro forzato, oppure la chance della condizione di clandestinità è, allora, non solo il luogo della non integrazione dello straniero, ma un terreno in cui può nascere l’odio e la rabbia distruttiva.
Il gruppo esperienziale fonda, perciò, un campo psicoanalitico che arricchisce il senso dell’istituzione, bonificando gli aspetti mortiferi e sciogliendo i vincoli stereotipici, dando maggiore consistenza a quegli aspetti, che costituiscono la ‘personalità’ dell’istituzione, e che includono ‘l’affettività, la storia, il linguaggio, la memoria’ (Correale A., 1991, p. 40). Il lavoro di elaborazione degli aspetti magmatici dell’esperienza, in un contesto di accoglimento, rilancia un ‘progetto vitale’ (Tagliacozzo R., 1995), che è in sintonia con un aspetto che riguarda la motivazione a ‘migrare’, che non si può ricondurre solamente a condizioni di vita come la povertà, il dolore la disperazione, che pure restano significative, ma attiene alla spinta vitale verso un ‘progetto’ di cambiamento culturale e le sue connotazioni creative (Favole A., 2010, Lombardozzi A., 2016). Dall’esperienza  del lavoro con l’equipe di un centro di accoglienza, si evince il sistema di connessioni, che si incontrano e si incrociano nel campo analitico che coinvolge, come ci suggerisce Malcom Pines (1998), l’individuo, il gruppo e la cultura e che si articolano, nella loro relazione diretta, con una dimensione antropologica più ampia.

  

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