Cultura e Società

18 Dicembre, Giornata Internazionale dei Migranti – Soggetti sospesi. M.L. Califano

17/12/24
Bozza automatica 78

AUGUSTA SAVAGE

Parole chiave: Psicoanalisi, Rifugiati, Fratture culturali, Legami transgenerazionali

18 DICEMBRE
Giornata Internazionale dei Migranti

Soggetti sospesi. L’esperienza delle seconde generazioni migratorie tra incertezze e ricerche identitarie

M.L.CALIFANO

Ogni anno, il 18 Dicembre, il mondo celebra la Giornata Internazionale dei Migranti, dedicata a riconoscere l’importante contributo dei migranti e a evidenziare le sfide che devono affrontare. Il 4 dicembre 2000, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ONU), considerando l’aumento dei migranti nel mondo, ha proclamato il 18 dicembre come la Giornata Internazionale dei Migranti. Inoltre, nel 1990, l’Assemblea ha adottato la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie. Le parole di A. Gutterres, Segretario Generale UN, infatti, ci ricordano che tutti quanti avremmo la necessità di una ‘governance’ radicata nella solidarietà, nella collaborazione e nel rispetto dei diritti umani alfine di garantire una migrazione sicura. Alcuni anni orsono, Edmond Jabes (2017), che si è a lungo occupato della condizione di esiliato, nomade, straniero, si chiedeva se nella sua vulnerabilità, lo straniero potesse per questo contare soltanto sull’ospitalità che altri potevano offrirgli. “…Proprio come le parole che beneficiano dell’ospitalità loro offerta dalla pagina bianca e l’uccello di quella che, senza condizioni, gli offre il cielo.” E aggiungeva, “… Ma che cos’è l’ospitalità?”

 In occasione di questa Giornata, pubblichiamo il report del Seminario Nazionale della SPI organizzato dal Gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) dal titolo, Soggetti sospesi. L’esperienza delle seconde generazioni migratorie tra incertezze e ricerche identitarie (dalla Redazione, A. Migliozzi)

                                 ——————————————

Soggetti sospesi. L’esperienza delle seconde generazioni migratorie tra incertezze e ricerche identitarie

Report di M.L. CALIFANO

GruppoPER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati)
“SOGGETTI SOSPESI L’esperienza delle seconde generazioni migratorie tra incertezze e ricerche identitarie 5 ottobre 2024

Il seminario nazionale dal titolo, Soggetti sospesi. L’esperienza delle seconde generazioni migratorie tra incertezze e ricerche identitarie (5/10/2024) è parte delle attività del Gruppo Per della SPI. La partecipazione ai lavori è stata garantita ai soci SPI e a colleghi extra SPI. Il webinar è stato arricchito, come di consueto, dalla presenza di studiosi ed esperti del settore che con i loro contributi hanno affiancato quelli presentati dai soci SPI.                                                                                                                                                                             

I Lavori della mattina sono stati dedicati ad un approfondimento teorico-metodologico. All’apertura del collegamento online, Manuela Martelli, chair della sessione mattutina, ha sottolineato come già nel titolo della giornata si delinei la volontà di avviare una riflessione sugli emigranti di seconda generazione nate/i in Italia da migranti e che sono soprattutto adolescenti, ma anche giovani e talvolta adulte/i. Essi vivono tra di noi, ci interpellano quotidianamente e sono portatori di un’alterità in cui si annidano lasciti transgenerazionali. Questi giovani si muovono tra incertezze e ricerche identitarie che sono le loro, ma anche le nostre.
L’introduzione dei lavori è stata curata da Virginia De Micco, Psicoanalista Coordinatore Nazionale Gruppo PER con una nota dal titolo “Tra fratture culturali e legami generazionali: l’inquieta ricerca di identità nelle seconde generazioni”. De Micco ha aperto il suo intervento con la citazione delle parole di una ragazza figlia di emigranti per illustrare la precarietà del riconoscimento identitario in cui vivono i giovani di seconda generazione. La ragazza è nata in Italia e, quando aveva dieci anni, si è sentita urlare da una macchina “torna a casa tua”. Per la prima volta qualcuno metteva in dubbio che la casa in cui era nata fosse la sua casa.  L’esempio proposto ben illustra l’incertezza in cui vivono questi giovani, la cui dimensione di appartenenza può essere continuamente messa in dubbio. De Micco ha poi sottoposto all’attenzione un punto di repere importante per noi psicoanalisti. Ha citato Piera Aulagnier che ha molto lavorato sulle dimensioni precoci della relazione madre-bambino. L’autrice nel suo, La Violenza dell’interpretazione (1994), ha sostenuto che una madre può svolgere adeguatamente il suo ruolo di Porta-parola finché resta nel suo ambiente culturale. E’ il ruolo di portare al suo piccolo la parola che consente di legare esperienze interne, affettività e mondo culturale. L’inciso della Aulagnier,“…finché resta nel suo ambiente culturale” è stato sottolineato da De Micco perché nella nostra contemporaneità apre ad una miriadi di riflessioni, di angosce e di inquietudini. Il culturale nelle nostre ricerche non è un cerchio esterno alle relazioni primarie, è invece una dimensione che le intesse immediatamente e può rendere queste relazioni più o meno solide o inquiete. Per pensare alle seconde generazioni, soprattutto come analisti, dobbiamo cominciare a dare ascolto a quello che avviene all’interno della relazione primaria nelle sue primissime articolazioni. L’attenzione deve essere posta a che cosa accade nelle menti materne che pensano i loro bambini in una dimensione di discontinuità culturale. Tornando alla tranche esperienziale che aveva proposto all’inizio, De Micco ha citato Michele Risso (1982) che evidenzia come dai materiali psicopatologici si possano trarre riflessioni antropologiche. La relatrice ha proposto all’attenzione dei partecipanti come questa indicazione metodologica possa essere invertita. Con l’ascolto analitico, si possono già intravedere da materiali etnografici, quindi non patologici, delle faglie conflittuali potenziali portatrici di disagio. In queste situazioni molto spesso il genitore non ha le risposte rispetto a dati identitari primari, come la madre della ragazza citata dalla relatrice non aveva saputo spiegare alla figlia perché qualcuno avesse messo in dubbio quale fosse la sua casa. Freud ha sottolineato che il neonato viene accolto e amato anche in quanto discendente di una genealogia, oltre che da un dispositivo familiare, e appartiene ad un universo simbolico che lo riconosce e che si riconosce in lui. Questa appartenenza radica l’identità in un luogo e in una storia. Tutto questo si sostanzia nelle semplici risposte che un genitore, in una situazione di stabilità culturale, dà in modo immediato ai suoi figli. Quando c’è incertezza in queste risposte, comincia a scavarsi un buco nel discorso delle origini e si genera l’incertezza che attraverserà tutta la costellazione psichica delle seconde generazioni. Un contesto ambientale che si caratterizza spesso solo come ricevente, non come accogliente, rimanda un senso di non appartenenza, raddoppia l’incertezza identitaria interna e moltiplica la necessità di interrogarsi sulla propria identità. La condizione psichica delle seconde generazioni è quella di sentire di essere sul margine. Anche quelle situazioni in cui l’integrazione sembra perfettamente riuscita questa poggia su un margine molto ristretto. Nelle congiunture traumatiche dell’esistenza e negli scatti evolutivi si avvertirà la base fragile e si presenteranno gli interrogativi irrisolti. Sono faglie che sono state aperte nella parola materna e nello sguardo materno che insieme costituiscono il tessuto connettivo della soggettività dell’essere. L’inquietudine nello sguardo materno circa il futuro identitario del figlio nella terra straniera, l’incertezza dell’iscrizione genealogica, rende incerta la continuità culturale della sua stessa filiazione. Quando questa inquietudine si riflette anche nel contesto, non è possibile trovare una soluzione soddisfacente al bisogno di trovare un giusto modo di essere per essere riconosciuto. È un lavorio costante nelle menti dei bambini e degli adolescenti e si può manifestare come ribellione a questo perenne tentativo di trovare un modo giusto di essere per farsi accettare, poiché sentono un’esclusione dovuta all’essere percepiti o come troppo simili o come troppo diversi. Questa è la condizione psichica su cui interrogarsi, tenendo un ascolto analitico attento alle piccole dissonanze, alle piccole faglie che possono nascondere problemi ben più profondi. Un altro problema da affrontare è la risposta delle menti accoglienti, dell’ambiente accogliente. Le menti accoglienti sono incessantemente interrogate dal lavoro sulla frattura in cui vivono e intorno alla quale cercano di costruire la loro soggettività le famiglie e i bambini di seconda generazione. De Micco ha ricordato agli ascoltatori che nel contesto contemporaneo le identità di chi accoglie sono profondamente vacillanti, continuamente in crisi: soggetti mal radicati accolgono soggetti sradicati. Lo straniero ci fa da specchio, come ricorda Abdelmalek Sayad (2002), la funzione specchio dell’emigrazione è un dispositivo epistemologico fondamentale. Nelle nostre società chi accoglie e chi arriva non si possono più riconoscere in una dimensione culturale stabile e coerente. I garanti metapsichici e metasociali, di cui parla R. Kaës, sono fragili sia nei contesti postmoderni sia in quelli post-tradizionali che sono attraversati da violenti cambiamenti culturali, anzi deculturanti. Per la funzione specchio si rigettano nell’altro migrante le stesse parti che non si possono riconoscere come proprie. De Micco ha sottolineato l’erosione dei fenomeni della terzietà nella contemporaneità. Il terzo è sempre meno riconoscibile e quindi si sfuma anche l’altro come riconoscibile e identificabile. La globalizzazione, inoltre, tende a mescolare e a rendere irriconoscibile gli elementi di differenza. L’altro diventa sempre di più un doppio deformato su cui vengono proiettate violentemente le parti insostenibili di sé, sia quelle legate all’aspetto più traumatizzato e bisognoso, sia quelle di un aspetto che, al contrario, ci sembra più crudele e sanguinario. De Micco ha ricordato che il rispecchiamento nel lessico psicoanalitico assume una funzione di integrazione stabilizzante. In queste realtà psichiche, relazionali e antropologiche, oggetto dei nostri studi, il rispecchiamento è invece destrutturante. Diventa dirompente essere costretto a riconoscere nell’altro un qualcosa che non si vuole riconoscere in sé stessi. Siamo tutti soggetti sospesi in questa nostra contemporaneità così liquida, una realtà così carica di angosce in cui lo straniero diventa il ricettacolo delle nostre proiezioni, anche quello delle aspettative di un rimando attestante che il nostro modo è quello migliore, più emancipato, con una maggior libertà sessuale. In merito a questa libertà, spesso i modi di essere degli adolescenti di seconda generazione ce la rimandano come problematica. Essi si sentono spinti in una situazione angosciosa rispetto alla quale temono di non avere gli strumenti individuali per affrontarla.                                                                                   

Gianfranco Schiavone (Componente Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione, Trieste) ha presentato una relazione dal titolo “La cittadinanza in Italia tra inclusione ed esclusione”. Il relatore ha in premessa sottolineato che nelle nostre democrazie occidentali l’importanza della cittadinanza è diminuita rispetto al passato, in relazione al bilanciamento con i diritti fondamentali della persona che non dipendono dalla cittadinanza. Schiavone ha ricordato che nella giurisprudenza costituzionale per tutti i cittadini si intende tutte le persone. Al cittadino spettano degli obblighi e diritti politici specifici che a tutti gli altri non spettano, pur avendo pari dignità. Il diritto di voto ad esempio spetta ai soli cittadini. Alcune persone invece possono vivere con un forte radicamento sociale e culturale in una nazione e non avere, talvolta addirittura non volere, la cittadinanza. Si può fare l’esempio di cittadini dell’Unione Europea che possono chiedere la cittadinanza dopo solo quattro anni di residenza in Italia. La maggior parte di loro, tuttavia non lo fa, pur avendo diritto alla doppia cittadinanza.

Completamente diversa è la situazione dei cittadini di paesi non europei. Il relatore ha sottolineato che ci sono molte visioni sulla cittadinanza, alcune si possono estrapolare dal dibattito corrente. Il primo modello, più arcaico e prevalente in Italia, è quello dello “Ius sanguinis”, (diritto di sangue): la cittadinanza si tramanda dai genitori ai figli. Il diritto alla cittadinanza per “Ius sanguinis” si conserva, senza cesure, nello scorre delle generazioni. Si può essere cittadini, ad esempio, senza aver mai messo piede sul suolo italiano e senza parlare la lingua italiana, perché i genitori non hanno mai perso la cittadinanza italiana acquisita dalle generazioni precedenti. Questa normativa deriva dal Reggio Decreto del 1912, mai modificato dalla legislazione successiva. Il modello dello “Ius soli” prevede l’acquisizione della cittadinanza poiché si è nati sul territorio di un paese. In Italia non esiste questo diritto. Si può acquisire la cittadinanza italiana, secondo questo modello, solo se si è nati in Italia e i genitori sono entrambi ignoti o apolidi, oppure se il figlio non può seguire la legge per l’acquisizione della cittadinanza in vigore nel paese di origine dei genitori. Nel modello dello “Ius soli temperato” comincia ad evidenziarsi il fattore temporale: il bambino nato in un paese e residente da lungo tempo sul territorio nazionale, può divenire cittadino prima della maggiore età. Questo diritto in Italia non è previsto. Il terzo modello, attualmente molto dibattuto, afferisce al macro-contenitore della naturalizzazione: si diviene cittadini diventando coniuge di un cittadino di quel determinato stato, oppure con il decorrere del tempo e con un livello di adattamento, di inclusione sociale, di appartenenza. Questo livello deve essere rilevato con determinati indicatori, prevalentemente socio-economici. Quest’ultima opzione è oggetto di una aspra disputa politica. In Italia possono acquisire la cittadinanza coloro che essendo nati sul suolo italiano e residenti ininterrottamente nel territorio nazionale fino a diciotto anni, ne facciano domanda entro il primo anno. In assenza della richiesta il diritto decade al compimento dei diciannove anni. Diviene, inoltre, cittadino italiano lo straniero che abbia risieduto in Italia per dieci anni e che ne faccia domanda. Gli anni si riducono a cinque se lo straniero è stato adottato, quando era minorenne, da un cittadino italiano. Il tempo è ridotto a cinque anni anche per gli stranieri rifugiati, mentre lo è a quattro per i cittadini europei. In questa situazione i minori stranieri restano stranieri a meno che i genitori non acquisiscano la cittadinanza. Si è aperto recentemente il dibattito sullo “Ius scole o Ius cultura”. Proposte e disegni di leggi tendono ad accelerare questo processo soprattutto per i minori. Un minore che termini l’iter scolastico obbligatorio in Italia potrebbe divenire cittadino italiano, indipendentemente dalla posizione dei genitori. Si tende soprattutto ad accorciare a cinque anni i tempi per la concessione della cittadinanza a coloro che, soggiornando in Italia, posseggono i requisiti di stabilità sociale previsti dalla legge. Questa riduzione degli anni per la concessione della cittadinanza ci allineerebbe con la maggior parte dei paesi europei. Da sottolineare che spesso per motivi burocratici i dieci anni di residenza legale richiesti, di fatto si dilatano. Spesso i minori stranieri nati in Italia non acquisiscono la cittadinanza perché non ce l’hanno i loro genitori. Dovranno quindi aspettare di divenire maggiorenni e fare la domanda. Se invece non sono nati in Italia, ma sono venuti molto piccoli, scatterà il requisito della residenza e dovranno dimostrare anche di avere un reddito. La maggior parte dei neo maggiorenni non hanno un lavoro e quindi dovranno aspettare anni prima di avere i requisiti per chiedere la cittadinanza. Queste situazioni generano una forte esclusione sociale. Il contributo successivo, dal titolo, Agency, Soggettivazione e In-visibilità. Decostruire le identificazioni dei discendenti dei migranti è stato portato da Simona Tersigni, antropologa, Université Paris Ouest, Nanterre. La relatrice ha considerato necessario premettere un’analisi del contesto politico francese legato all’evoluzione delle scienze sociali. La rilevazione dell’immigrazione in questo paese è nata, per ragioni di controllo della natività, intorno al milleottocentocinquanta-sessanta. È soltanto dopo la seconda guerra mondiale che la Francia si è riconosciuta come terra di immigrazione e ha cominciato a sviluppare delle analisi scientifiche. Per la Tersigni è importante evidenziare questo contesto per poter precisare la confusione e la prossimità nel modo di chiamare i bambini migranti e i discendenti di migranti, confusione che ha avuto una significativa ricaduta sui progetti per l’integrazione. In particolare nell’immigrazione post coloniale, alcuni bambini arrivavano con i genitori, altri nascevano in Francia, talvolta dieci anni dopo, in contesti politici molto evoluti. Nei report di taluni sociologi c’è stata una sovrapposizione tra bambini migranti e figli di migranti, sovrapposizione risultata estremamente problematica nella strutturazione di dispositivi scolastici per favorire l’integrazione. Sono stati sostenuti i rientri volontari delle famiglie degli immigrati, in particolare quelle algerine e portoghesi. Erano anche stati previsti incentivi economici. Queste politiche hanno fallito. Ci sono stati molti studi sociologici e psicologici nell’ambito dell’intervento sociale, sulle identità vacillanti e sui problemi di delinquenza. Eravamo in una fase politica alla fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta in cui i figli degli emigranti vedevano i loro padri nelle fabbriche essere in basso nella gerarchia del personale ed essere sfruttati. I ragazzi investivano nella scuola e cercavano nuove carriere, ma non tutti ci riuscivano. Si politicizzavano e cercavano un rapporto con la cultura e particolarmente attraverso la musica rock e punk. Era nato un fermento politico e culturale nei quartieri popolari che era anche una reazione alle violenze della polizia. Era stata organizzata una marcia che si snodava, in diverse tappe, da Marsiglia fino a Parigi e che aveva portato i figli dei migranti a rivendicare l’uguaglianza dei diritti per tutti. Erano state marce antirazziste che non avevano ottenuto una vittoria contro il razzismo, però c’era stata una vittoria giuridica per i titoli di soggiorno: era stata inventata la carte de séjour de dix ans chiesta dai discendenti dei migranti. Oggi non ci sono come reazione marce e rivendicazioni di eguaglianze, ma lotte antirazziste dirette. La sociologia e l’antropologia non sono state particolarmente connesse con questo contesto politico e giuridico. Gli studi sociologici che hanno riguardato l’infanzia hanno assunto solo il punto di vista della scuola francese. Ci sono anche state alcune eccezioni come gli studi sulle traiettorie della mobilità sociale dei figli di migranti che però sono state studiate solo nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, senza mai tenere in considerazione l’infanzia. Il sociologo Sayad (2002) ha esplicitato che cosa vuol dire usare l’espressione seconda e terza generazione in Francia dove, negli anni ottanta, si poteva divenire francesi semplicemente nascendo in Francia. Dal 1993 i figli degli emigranti possono diventare francesi tra i sedici e i diciotto anni. Al di là della condizione giuridica, esistono molti altri problemi di integrazione che la relatrice ha cercato di approfondire arrivando a quelli che Sayad definisce “enfants illégitimes”.  Il primo problema è legato al termine francese “enfants” poiché esso non distingue tra maschile e femminile e designa sia i “bambini” che i “figli di”, quindi si può parlare di “enfants” a qualsiasi età. Già nel 1990 uno specialista della sociologia dell’immigrazione francese, Pierre-Jean Simon, sottolineava che c’è una certa confusione negli studi sull’interazione interetnica rispetto all’uso di determinati concetti e parole. Tutto ciò ha dato luogo a dei conflitti teorici, come per esempio l’uso del termine etnia. Il concetto di etnia è usato da Roger Bastide, antropologo francese che ha lavorato soprattutto in Brasile. Già negli anni 1920-1930 specificava che il termine etnia è “un divenire in divenire” che non è legato ad una base biologica. C’è un riconoscersi in un’origine comune e in alcune pratiche comuni. Nonostante questa posizione non essenzializzante del termine etnia e nonostante la ricerca francese abbia cercato di cogliere degli spazi comunitari intermedi tra l’individuo e lo stato, questa concezione è stata ritenuta sempre pericolosa da una parte dell’establishment sociologico francese. La posizione di questo establishment ha impedito un lavoro sull’etnicità considerandolo un ambito poco degno, poco serio, come se il lavoro sui margini di manovra dei minoritari impedisse di lavorare seriamente sulle categorizzazioni e sulle pratiche razziste. Questo è un problema delle scienze sociali francesi che non vogliono essere confuse con l’approccio nord americano, con l’idea che in Francia si studia innanzitutto la classe sociale e non la differenza culturale, posizione condivisa anche dagli antropologi. Non si può denaturalizzare l’infanzia migrante e dei discendenti dei migranti senza compiere un lavoro per decostruire questi tratti ideologici che attraversano le scienze sociali francesi. Accuse di ideologia vengono da una parte e dall’altra e non favoriscono il procedere e la ricostruzione del discorso scientifico. La Tersigni, ritornando alla soluzione di Sayad, ha affermato che essa non è completamente soddisfacente nel suo discorso su, “enfants illégitimes”, anche se questo sociologo nel 1975 è stato il primo ad interessarsi di bambini. Sayad, parlando di quelli che chiama enfants ni comme-ci ni comme-ça, ha voluto lavorare sul divenire di una ragazza di ventuno anni, divenuta emblematica, e la intervista sulla sua infanzia. Si è avuta così una testimonianza indiretta sull’infanzia ormai passata e che si era trasformata nella memoria di questa ragazza (dimensione insoddisfacente per la relatrice). L’intervistata ha descritto i rapporti di forza che si giocano nella sua famiglia e il fatto che suo padre la considerasse un enfant illegittime perché traditrice della cultura familiare, nonché troppo impregnata di una cultura scolastica e di un’integrazione francese. Questo caso è indicativo di una vera lacerazione che attraversa i conflitti tra genitori e figli. Sono conflitti che la stessa Tersigni ha riscontrato ancora tra la fine anni novanta e gli anni duemila, anche se la posta in gioco del conflitto e delle tensioni si era focalizzata sul modo di vivere l’Islam. I sociologi ricercatori dell’Università di Bordeaux non si sono interessati solo della delinquenza di questi discendenti bensì hanno rivolto i loro studi ad un’altra dimensione. In particolare Dubet e Peroni, si sono interessati a giovani emigrati dei quartieri popolari che non dovrebbero essere considerati come un problema, ma come dei soggetti partecipanti alla formazione di una società e di una cultura nazionale dalla quale sono esclusi. Va però precisato che gli anni ottanta, fino alla seconda metà degli anni novanta, erano ancora degli anni in cui per le politiche di integrazione i francesi finanziavano una serie di attività culturali molto importanti. Una serie di istituzioni infatti avevano centri di studio e biblioteche, ma anche dei finanziamenti per delle attività culturali concrete e delle ricerche sui giovani, in particolare sui discendenti dei migranti. È stato un periodo importante che oggi si tende ad idealizzare perché questi finanziamenti non esistono più e perché oggi c’è una logica francese ed europea che consiste nel pensare ciascun migrante come responsabile della propria migrazione. Di ciò ne è la riprova tutta una serie di contratti come quello “repubblicano.” Ai migranti, che dovevano già padroneggiare la lingua del paese francese, era chiesto paradossalmente di firmare una sorta di contratto con il quale si impegnavano a non essere sessisti e a compiere una serie di gesti e di pratiche indirizzate nel senso dell’integrazione. Si sa però che l’integrazione ha una dimensione inconscia, profonda, e che non è legata alla semplice firma di un contratto. Nello stesso tempo, la relatrice ritiene che questi lavori prodotti negli anni ottanta e novanta non abbiano adeguatamente decostruito il problema della visibilità e della invisibilità e hanno impedito di lavorare sui margini di manovra e sull’agency di questi discendenti di migranti. Le espressioni enfants des migrés, jeunes migrés, quindi ragazzi venuti fuori dall’immigrazione, figli di immigrati, figli di genitori immigrati o giovani immigrati creano una grande confusione. Il problema di questa confusione terminologica è il fatto di associare questi discendenti di migranti ad un’origine che non è scelta ma imposta, in una dimensione categorizzante che limita i margini di manovra e le crescite. È quindi importante far riferimento a una serie di lavori più recenti (come Peggy Derder, autrice del libro “Idées reçues sur les génèration issues de l’immigration”),  che esaminano i pregiudizi sui discendenti di migranti                                                                                                                                                                  -Gaia Petraglia, Psicoterapeuta, Responsabile Area migranti Coop. Rifornimento in volo (Roma), ha relazionato su “Le origini erranti. Il viaggio identitario dell’adolescente di seconda generazione”. Per aprire il suo contributo, la relatrice ha scelto l’immagine di Antigone figlia di un uomo diseredato, profugo, errante, figlia di colui che è divenuto irrimediabilmente straniero rispetto alla propria patria ma anche del consesso umano, in quanto portatore dell’incesto. In questo viaggio Antigone diventa un insieme di potenza e di accoglienza, di rifiuto delle leggi ingiuste imposte dal potere tirannico. Nella tragedia “Antigone”, che la vede protagonista, la ragazza dà però voce al tormento, alla stanchezza, al dubbio, e continuamente si interroga. La Petraglia ha sottolineato che questo personaggio presenta un coacervo di coraggio e di fatica, un po’ come tutti gli adolescenti di seconda generazione. In essi c’è la dedizione ad un legame familiare originario, che però spesso è misto alla vergogna, al dolore, al bisogno di costruire creativamente la propria identità, una propria rappresentazione di sé. Si genera uno strappo interno, perché spesso non si manifesta in un conflitto aperto pur essendo ugualmente carico di forti conseguenze. La Petraglia, sulla scia del viaggio di Edipo e Antigone, si è proposta di proseguire la sua relazione come un viaggio che inizia dal concepimento di colui o colei che sarà un adolescente di seconda generazione. La gravidanza comincia per tutte le donne con un momento meraviglioso ma anche con una regressione, di riviviscenza dei propri conflitti infantili, quindi di una fase di incertezza e dubbi legata a questa eccessiva trasparenza psichica. Le reti protettive, fornite dal proprio contesto culturale, dalle figure femminili accompagnano la futura madre nelle tappe della gravidanza e del puerperio. La mancanza di queste reti   genera, nelle donne migranti che partoriscono in terra straniera, uno stato profondo di solitudine e di disorientamento. Gli autori francesi dicono che la perdita del contesto culturale implica una carenza di sostegno e una perdita di fiducia nell’interpretazione dei propri pensieri, dei propri vissuti corporei. La madre migrante quindi si trova in una situazione paradossale perché si trova da sola e in solitudine a cercare di trasmettere i valori della sua cultura d’origine al figlio, ma al contempo lo sente come facente parte di un mondo nuovo a lei sconosciuto. Tutto questo presentifica sulla scena psichica, nel momento della venuta al mondo, i fantasmi che sottolineano l’estraneità del nuovo nato. Richiamando anche l’intervento della De Micco, la Petraglia ha ribadito che la funzione simbolizzante dello sguardo materno è tutto per il neonato. Questo sguardo può essere inquieto su cosa trasmettere, su cosa rappresentare simbolicamente rispetto al proprio vissuto di frammentazione del mondo e rischia così di diventare rappresentazione di vuoti, di scissioni difensive, di tracce frammentate. La relatrice ha citato la De Micco che in un lavoro ha sottolineato che il transito migratorio mette particolarmente a rischio la possibilità di sentire la propria realtà interna come qualcosa di inviolabile e di intimamente appartenente. Nell’esperienza migratoria sono a rischio di rottura proprio le membrane e gli involucri corporei e psichici. I genitori migranti accettano questa posizione di immigrati in via di integrazione perché nel loro processo di acculturazione sperano che i loro figli siano iscritti in questo mondo e che raccolgano il frutto del loro sacrificio. Il rischio e che, per fare questo, reputino talvolta di dover rinunciare ad una parte del proprio passato, rischiando di perdere pezzi della propria identità. In nome del rendersi uguali in terra straniera, alcuni genitori tralasciano di trasmettere il passato, di trasmettere il perché della scelta di partire, lasciando il figlio sospeso nel baratro dell’assenza delle origini. Sulla scena psichica e familiare, ad un certo punto, esplode l’adolescenza e allora l’appartenenza che è stata in un certo senso conflittuale ai codici del paese ospite, spesso rischia di andare in frantumi proprio nel momento del pubertario. La madre spesso risente la sensazione, già provata alla nascita, che il proprio figlio non le sia mai appartenuto del tutto. Tutto ciò genera sovente un conflitto sanguinoso in termini psichici in cui questi figli illegittimi (Sayad) sono vissuti come potenziali traditori delle logiche familiari e rischiano di trovarsi a fluttuare sospesi in un presente sradicato. Il figlio di questo essere senza posto, che era Edipo e che è il migrante di oggi, rischia di diventare il portavoce di questa inespressa e lacerante frattura. I ragazzi sperimentano un vuoto identitario causato dall’impossibilità di comprendere le logiche genitoriali, in assenza di rappresentazioni chiare del passato dei propri genitori, della scelta di migrare e ancor in modo più doloroso dell’impossibilità della scelta che essi hanno avuto. Tutto questo va ad alimentare un non detto doloroso che rischia di creare agglomerati scissi che non sono integrabili. Il viaggio che l’adolescente di seconda generazione deve compiere è un viaggio spesso doppio rispetto ai coetanei autoctoni. Ogni adolescente deve attraversare un mare tempestoso che va dal luogo conosciuto e rassicurante dell’infanzia a quello spaventoso della crescita, del nuovo corpo, della nuova potenza, dei nuovi limiti che sono imposti dalle trasformazioni puberali e psichiche. Mentre questo viaggio porta a discostarsi dagli oggetti primari per rivolgere delle cariche libere al mondo dei pari, l’adolescente di seconda generazione è impegnato a compiere queste due operazioni psichiche: integrare il corpo pubere nella psiche e separarsi dagli oggetti primari, mentre allo stesso tempo deve riscoprire che cosa è stato delle generazioni precedenti, deve in un certo senso tornare un po’ indietro. Sarà un viaggio nella famiglia di origine che attraversa tutto ciò che noi chiamiamo cultura: valori, usanze, rapporto con gli antenati, il concetto di sacro, il modo in cui si fabbrica un neonato, le modalità di accadimento. Questi genitori cercano una mediazione tra ciò che erano e ciò che hanno trovato, ma con il rischio che il figlio non riesca a sentire questa mediazione come un valido ancoraggio identitario e come salda risposta alla domanda fondamentale per l’adolescente: “chi sono io?”. Questo viaggio si snoda lungo una rotta inversa rispetto a quella percorsa dai genitori, l’adolescente di seconda generazione va dalla cultura ospite della società che lo sta formando alla cultura di origine di cui questo adolescente si deve poter riappropriare per sentire e per poter rispondere ad un’altra importante domanda che è “da dove vengo?”. La terza domanda chiave dell’adolescenza è “a chi appartengo?”. In questi adolescenti di seconda generazione c’è il rischio dell’autogenerazione che come clinici sappiamo è un fattore di totale disorganizzazione del pensiero. La relatrice ha poi proseguito la sua relazione con la presentazione di un caso clinico seguito nel centro etnoclinico della coperativa Rifornimento in volo.                                                                                                                                                                           

È seguito un interessante dibattito introdotto da Patrizia Montagner. Il tono colloquiale e sereno che ha caratterizzato i lavori ha facilitato un confronto molto proficuo tra i partecipanti. Nella sessione pomeridiana l’esame dei temi teorici trattati è stato arricchito dalla discussione dei materiali, presentati dai soci del gruppo PER, relativi a esperienze cliniche, a consultazioni e a tranche esperienziali cliniche. I materiali sono stati discussi con l’intervento di Laura Ravaioli. Il dibattito con i partecipanti è stato introdotto da Stefano Trinchero.

Le conclusioni sono state curate da Daniele Biondo che ha definito alcuni obbiettivi raggiunti nella giornata, anche se da rivedere e aggiornare nella clinica con adolescenti e giovani adulti di seconda generazione. Biondo ha ripreso dall’intervento della De Micco la consapevolezza di questo cerchio identitario allargato in cui è immersa la relazione primaria che caratterizza l’infanzia del bambino di seconda generazione. Per Biondo questo concetto ha a che fare con una declinazione moderna della psicoanalisi, moderna ma debitrice agli scritti sociali di Freud. Gli psicoanalisti più attuali l’hanno definita terza topica, considerando la cultura come un terzo organizzatore. Insieme all’Edipo, alla relazione madre-bambino, alla prima topica e alla seconda topica, dobbiamo fare i conti con quest’altra dimensione che organizza la mente. Tutto il lavoro di analisti come Kaës, Chan e della psicoanalisi argentina con Bleger ha dato validi contributi. L’altro punto da sottolineare è quello del controtransfert: senza l’analisi del controtransfert con questi pazienti migranti falliamo decisamente. Biondo ha sottolineato che il controtransfert culturale (come aveva già proposto Gaia Petraia nel suo intervento) non ha a che fare con l’interno bensì con questo terzo organizzatore della mente. Questa attenzione al controtransfert ci deve guidare come una bussola, rinunciando all’asimmetria, tipica della nostra posizione analitica, che invece va mantenuta per tutta una serie di altri aspetti: affettivi ecc.. Per quanto riguarda invece l’aspetto culturale, non ci può essere asimmetria, perché questo inquina il nostro rapporto con il paziente migrante. Tutto ciò investe il setting che non può restare come setting tradizionale. Per contenere tutta questa complessità si deve per forza estenderlo alla dimensione gruppale, accettare che vengano sconvolti i nostri sistemi interpretativi classici. Questo ci fa capire perché molti di noi lavorano con i nuovi servizi a bassa soglia. C’è tutto un mondo sia istituzionale che del privato sociale, del terzo settore, delle case famiglie, delle comunità terapeutiche dei centri diurni, dei centri di aggregazione. È tutto un mondo che è organizzato in termini gruppali, prima dimensione del setting, in termini di mediazione culturale e linguistica, seconda dimensione del setting, e con le attività di supervisione psicoanalitica che mettono insieme tutti gli elementi. Questi sono i tre fondamenti del nuovo setting in questo ambito, dove lo sguardo psicoanalitico è importante per evitare certe derive. Noi psicoanalisti abbiamo una responsabilità etica nell’aiutare gli operatori a reggere transfert massicci. Biondo ha invitato gli psicoanalisti a dare nel lavoro analitico un contributo essenziale perché questi figli di migranti possano scrivere la loro genealogia, cioè dare un luogo in cui si possa rinascere, fare questa reiscrizione del sé, uno spazio dove ricostruire i loro tessuti identitari, mischiando i fili dei tessuti originari con quelli delle nuove esperienze nel nostro paese. Dobbiamo parlare di radicamento. Tutto il processo di radicalizzazione che fanno coloro che intercettano su internet i ragazzi è preceduto da un processo di sradicamento dal paese ospitante e dal paese originario. Più un ragazzo è radicato nella nostra cultura più questi processi hanno un antidoto. Nel nostro lavoro sosteniamo quel processo di tradimento inevitabile, nel conflitto di lealtà rispetto alla cultura originaria. Diamo la possibilità di farlo dentro il desiderio dell’altro, il desiderio inconscio dell’altro che non deve comportare la perdita del proprio desiderio. Facendo riferimento all’intervento di Antonietta Ferroni, Biondo ha sottolineato che si tratta di poter realizzare il meticciato, l’integrazione, alla fine del percorso non come dato di fatto. Nel lavoro con i migranti, rischiamo di entrare nelle dinamiche del tradimento estremizzandolo, piuttosto che promuovere gli spazzi transazionali in cui attraversare questa contraddizione, tenendola dentro. Biondo ha infine ricordato che una questione che andrebbe approfondita in futuro è quella dei minori adottati provenienti da altri paesi.

Bibliografia

Aulagnier P (1994) La violenza dell’interpretazione, Borla, Roma, 1994

Frigessi Castelnuovo D. e Risso M. (1982) A mezza parete, Einaudi, Torino, 1982

Sayad A (2002) La doppia assenza, Cortina, Milano, 2002

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

H. HARTMANN - P. Campanile intervistato da D. D'Alessandro

Leggi tutto

Transculturale - Clinica

Leggi tutto