Eredità di V. Hjorth
EREDITÀ
di Vigdis Hjorth
(Fazi Editore, 2020)
Recensione a cura di Daniela Federici
“Una parola muore/ appena è detta/ dice qualcuno.
Io dico che comincia/ appena a vivere/ quel giorno.”
E. Dickinson
Una coppia di anziani genitori si appresta a destinare le case di proprietà a picco sul mare a due dei quattro figli. La contesa per l’eredità riattualizza le poste in gioco dell’infanzia e riesuma i rancori, le disparità economiche si fanno riflesso guasto di quelle affettive.
Volevano che la facciata fosse perfetta…
La galleria delle assegnazioni identitarie fronteggia nell’agone i figli cattivi e i custodi del giusto, negli ingannevoli specchi dei conflitti di lealtà. Non esiste fratria senza investimento.
Una catastrofe annunciata…
La disputa slatentizza un dramma familiare sepolto nel silenzio.
Qual è la vera eredità di famiglia?
Avevo imparato che non era permesso dire la verità…
Bergljot, la secondogenita, ha tagliato i ponti con la famiglia da anni, costruendo la sua vita su equilibri precari.
Come se qualcosa potesse esplodere da un momento all’altro…
È la sua narrazione in prima persona che ci porta dentro le vicende dal suo punto di vista.
Che nessuno di voi mi abbia mai chiesto della mia storia è qualcosa che ho vissuto e vivo come un grande dolore…
Opacità omertose e uno sbando familiare che lascia intravedere fantasmi inelaborati e i solchi della violenza, i salti di puntina della coazione a ripetere che riportano a capo una dannazione ignara dei propri demoni.
Ero vincolata a quella stupida infanzia… superati i cinquant’anni, ma ancora sofferente della paura che provano i bambini…
Un flusso di coscienza che nello scorrere delle pagine si fa affannoso, come una degradazione della scrittura, che si spiralizza, e in quell’asfissia rende concreta l’ossessione di quando un pensiero sequestra ogni spazio, disordina i gesti, frana i confini.
Quanto è terribile constatare che ciò che è stato distrutto diffonde a sua volta distruzione, e che è così difficile evitarlo…
Barche senza porto nella tormenta.
La nostra vita mentale scorre su uno sfondo di tacita sicurezza che conferisce un carattere di benevola complementarietà al mondo che ci circonda, un’affidabilità vissuta come ovvia ma che non lo è affatto. Ci sono bambini ai quali non è mai successo di essere lasciati cadere, diceva Winnicott, e altri che di quella caduta portano le tracce. Le fratture di un contratto narcisistico, l’indelebile del trauma.
Menzogna esistenziale, quella che non puoi portare via a una persona senza toglierle allo stesso tempo la felicità…
Il racconto carrella all’indietro, agli anni di gioventù in cui la protagonista scrive un lavoro teatrale e il suo corpo scatena una sofferenza immediata: il sapere inconsapevole ha fessurato la crosta che lo teneva rinchiuso.
La rivelazione del suo passato l’aveva colta come un colpo apoplettico, riemergendo dall’oblio come un singulto della memoria.
Non ero in grado di sopportare il dolore che ne seguì, non ero in grado di sopportare il peso della scoperta, quell’ammissione agghiacciante, non ero in grado di gestire tutto quanto da sola, non era possibile neppure parlarne.
Così Bergljot aveva cercato un analista, nel bisogno di essere creduta e soccorsa.
Nel racconto, schegge di sogni rivelatori e orme di alcune interpretazioni sono imbastiti con dei concetti psicoanalitici in un collage malfermo, a dare l’idea dell’approdo a uno spazio di testimonianza e di costruzione di senso della propria storia, l’inizio di un viaggio forse troppo breve.
Non permisi, o non ero in grado, che lo psicoanalista occupasse dentro di me lo spazio necessario per poter operare in maniera ottimale…
Perché la riedizione delle zone escoriate prima o poi si presenta anche nel vivo della scena analitica e ci sono marosi da guadare per costruire nuove possibilità di procedere.
In quel momento mi sembrava di avere già sofferto abbastanza, di essermi soffermata a sufficienza nel dolore… volevo essere felice…
Così Bergljot taglia di nuovo, con l’analisi, con il matrimonio, rinnovando la soluzione di mettere distanze per credersi in salvo. Ma quel che duole è sempre addosso, avvinghiato, nei lavori che scrive, in ciò che legge, nei film che vede.
Ogni cosa è connessa alle altre. Per chi si muove con le orecchie tese allo scopo di capire, nessuna frase risulta innocente…
La scrittura ridonda lo stato febbricitante che brama una catarsi, l’insopprimibile spinta a espellere il venefico che corrode.
Tutto era in pezzi, non c’era niente da perdere…
Bergljot vuole finalmente dire ad alta voce – davanti a testimoni – la sua verità ammutolita per anni e costringere all’angolo gli aguzzini e chi ha sempre girato la testa dall’altra parte.
Ero costantemente immersa in ciò che di doloroso e di vergognoso non poteva essere tramutato in qualcosa che non fosse accaduto e con il quale, se fosse rimasto irrisolto, non sarei stata in grado di convivere…
Ma per poterci convivere occorre di più, la parola detta “comincia/ appena a vivere/ quel giorno”.
Il nostro divenire prende forma all’interno di un legame con un oggetto soccorritore, lo definiva Freud nel Progetto (1895); così riconoscimento e soggettivazione possono essere pensati come una dialettica fra ciò che si organizza nella psiche e ciò che si esperisce negli scambi con l’ambiente. Nell’asimmetricità delle prime relazioni, il fallimento del rispecchiamento necessario a stabilizzare la psiche di un bambino porta al mancato sviluppo di aspetti del proprio mondo interno o alla loro dissociazione. Il misconoscimento degli accaduti cancella il senso di sé di chi ha vissuto un’esperienza, la mancata convalida revoca in dubbio le proprie percezioni, le inumana. Così nell’incapacità di distinguere – e quindi difendersi -, le persone abusate si ritrovano spesso in destini segnati dalla traumatofilia, inclini a ritrovare nuovi perpetratori e abitati da un senso onnipotente della propria cattiveria, frutto dell’assunzione in sé della responsabilità della colpa negata dall’abusante.
Fra gli Autori che hanno sottolineato il ruolo del riconoscimento come organizzatore psichico, Jessica Benjamin ha trattato in modo particolare l’importanza della posizione del Terzo.
La dinamica tipica di molte impasse relazionali è legata a modalità di rapporto oggettivate e oggettivanti, in cui l’impossibilità di riconoscere la realtà dell’altro senza abbandonare la propria, crea contesti polarizzati dove c’è spazio per un’unica verità. Una logica mors tua-vita mea che sequestra il confronto entro una diade complementare che sottende una simmetria inconscia, perché l’unico modo per far valere la propria posizione è quella di soverchiare quella altrui.
Guadagnare una posizione di terzietà richiede un riconoscimento reciproco, fra soggetti distinti e consapevoli della partecipazione di ognuno e dell’impatto delle proprie azioni l’uno sull’altro. Questa capacità di distinguere senza polarizzare consente il passaggio dalla dissociazione al contenimento del conflitto, che può riconoscere la discrepanza fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere e sanare il sanabile dei fallimenti empatici e delle violazioni all’ordine naturale delle cose, ripristinando il senso di un mondo giusto.
Queste le potenzialità di ciò che è trasformativo: non una semplice catarsi ma una lenta elaborazione fuori dall’ingerenza delle difese scissionali.
La narrazione in prima persona della Hjorth sembra invadere il suo personaggio più che darle voce, la scrittura frana con ciò che sgorga fuori della protagonista, comunicando al lettore l’avaria di un appello disperato quanto vano nella sua irricevibilità, la penosa furia di essere respinti e prigionieri a un tempo.
Perché in una logica dove per affermare una parte devi sacrificarne un’altra, i ruoli si possono ribaltare ma il gioco resta sempre lo stesso: la vittima può diventare solo carnefice e ciò che viene fatto fuori tornerà come un nuovo aguzzino.
Io assomigliavo a loro, nel senso che non riuscivo a evitare di essere me stessa, di essere distrutta e di distruggere.
Anche Bergljot rinnova l’invasione della propria vita su quella dei figli, chiamati a testimoni della sua verità, in una scena che, più di un riscatto, suona come l’espressione – solo meno tragica – del triste dominio della ripetizione.
Spesso gli artisti si rivolgono all’analisi con la preoccupazione di ‘risolvere’ i loro tormenti e così non poterne più trarre la potenza emotiva per il proprio lavoro creativo. Ma può accadere qualcosa di molto diverso, in realtà, quando si da spazio a tutte le voci che ci abitano, animandone gli spessori nella conflittualità, liberandoci dai ruoli assegnati e guadagnando nuove aperture prospettiche. La spinta a creare è un imprescindibile della nostra esistenza, un sostegno alla vitalità, che l’integrazione arricchisce piuttosto che estinguere.
Bibliografia
Jessica Benjamin, Il riconoscimento reciproco, Cortina 2019