Thomas Mann, Disordine e dolore precoce. Tr.it. di R. Colorni, Milano 2022, Ed. Henry Beyle, 181 pp., 36 €.
Renata Colorni, che tutti conosciamo come grande traduttrice di Freud e, più recentemente, dello Zauberberg (la Montagna magica ) di Thomas Mann, ci regala – è questo il termine che mi sembra più adatto – una nuova traduzione di Unordnung und frühes Leid, un delizioso e inquietante racconto del 1925, nel quale Mann descrive con penna leggera e con dovizia di allusioni e sfumature una (breve) vicenda occorsa alla famiglia Cornelius nel pieno disordine della Repubblica di Weimar. Disordine e dolore precoce è la storia di un precoce innamoramento di Lorchen, la figlia minore del professor Cornelius, per Max, giovanotto che l’ha fatta ballare – lei bambina piccola – nel mezzo di una festicciola dei “grandi”? E del dolore tremendo provato all’esperienza di essere stata lasciata da Max, che si è messo a ballare con le proprie coetanee? Sì e no, perché la genialità di Mann sa farci sentire tutto lo spessore della situazione, quella della vicenda pesante – e preliminare al Terzo Reich – della crisi della Repubblica di Weimar, quella delle vicissitudini di un intellettuale (professore di storia, quasi un’allusione ad uno psicoanalista) di fronte ad una nuova generazione e alla speranza che una generazione nuovissima, quella di Lorchen, sia più comprensibile e amabile, quella di una storia familiare semplicemente complessa, che si condensa in una finale adorante considerazione sul sonno infantile che diventa inevitabilmente autoironica, perché il padre idealizza questa capacità di rimuovere della figlia ma allo stesso tempo riconosce la propria inconscia volontà di non riconoscerle le dimensioni dell’Eros, il quale è, sì, destrutturante, ma è anche la forza della vita.
E’ proprio nell’insieme di tutti questi fattori, ciascuno dei quali apparentemente dominante e allo stesso tempo secondario, e nella nostra capacità – cui Thomas Mann ci sfida – di riconoscere sotto traccia, tra le righe, tra le pieghe mimiche dei protagonisti, l’emergere dell’inconscio, che si realizza il piccolo miracolo di questo racconto.
La “Nota” finale di Renata Colorni ci aiuta, con l’esattezza dei riferimenti storici e con il richiamo alle vicende della famiglia e del pensiero di Thomas Mann, ad aggiungere alla nostra lettura un altro elemento – anche psicoanalitico – per gustare lo spessore di questo splendido racconto. Che è – bisogna aggiungere – stampato con grande stile dalle milanesi Edizioni Henry Beyle, quelle stesse che, un paio d’anni fa, avevano pubblicato Il mestiere dell’ombra, l’elegante e signorilmente profondo saggio di Renata Colorni sulla propria vicenda di traduttrice.