M.Pistoletto, 1962
“Per mantenersi vivo, egli è condannato a preservare una relazione di investimento col proprio corpo, con l’Io degli altri il cui desiderio si rivela sempre autonomo e talvolta antinomico rispetto al proprio, con una realtà che non sarà mai totalmente conforme alla rappresentazione che egli vorrebbe darsene.” (Aulagnier 1982, 94)
Nel suo romanzo Il responsabile delle risorse umane (2004) Yehoshua racconta della vittima di un attentato terroristico che rimane a lungo senza nome finché l’azienda per cui la donna lavorava come addetta alle pulizie, accusata di scarsa umanità verso la propria dipendente, incarica un suo impiegato di occuparsi delle procedure per il rimpatrio della salma. Il protagonista è un uomo sfibrato da un divorzio e sedotto da un progressivo isolamento, che nel rispecchiamento con quella vita non riconosciuta – da lui per primo, che pure l’aveva assunta – impegna pian piano le proprie risorse umane assumendosi la responsabilità per quella figura anonima. Ricostruire la storia della donna e accompagnarla alla sepoltura avvia in lui un processo interiore di riparazione e di rivitalizzazione del sé, che, potremmo dire, fino a quel coinvolgimento stava scansando di assumere il senso più pieno della propria esistenza.
Un apologo della diffusa indifferenza cinica del presente ma anche sulla possibilità di ognuno di agire con la responsabilità morale del concern verso l’altro da noi, che è esterno come interno, perché la soggettivazione si realizza nell’oggettivazione con cui ci si rappresenta a se stessi, in quell’essere e osservarsi che trasforma l’esperienza grezza in una consapevolezza autoriflessiva.
Aulagnier (1982) definisce condanna a investire il verdetto che colpisce l’Io dal suo apparire sulla scena psichica: pensare il proprio corpo, il suo statuto desiderante, la realtà di cui si dovranno accettare le esigenze, per proteggerli dal rischio del disinvestimento, per opporsi a ciò che minaccia la scomparsa delle rappresentazioni psichiche senza le quali né corpo, né oggetto, né realtà potrebbero avere esistenzaper il soggetto, essere ciò che può pensare e grazie a ciò investire.
La rappresentazione è la forma che consente il vedere, che istituisce la vita psichica e fa da supporto dell’investimento, un artefatto per costruire sul filo del desiderio il nostro modo di apprendere e creare il senso dell’esperienza, di mediare con il pensiero e comunicare mediante simboli.
La richiesta di lavoro psichico (psychische Arbeitsanforderung) dalla partenza pulsionale attraverso la messa in gioco del sistema delle rappresentazioni, consente al narcisismo primitivo di costruire il suo mondo disponendo di un oggetto interno al montaggio pulsionale, presenza tutelare non ancora afferrata verso la cui esperienza di soddisfazione il desiderio replica intrapsichicamente le tracce. Il buon esito delle cure primarie e la possibilità di una loro interiorizzazione istituisce ciò che Green (2002) definisce una struttura inquadrante, spazio potenziale per le future rappresentazioni e per la germinazione delle funzioni di oggettualizzazione, con cui non si intende solo la creazione di un rapporto con l’oggetto e le sue trasformazioni, ma la capacità di far arrivare al rango di oggetto ciò che non possiede queste qualità, a patto che nel lavoro psichico si mantenga l’investimento significativo, configurando le vicissitudini del legame. Questa la mira essenziale della pulsione di vita.
Così, se per un certo tempo all’Io infantile occorre l’esperienza di relazioni primarie che sostengano narcisisticamente il desiderio e l’immaginario, dall’identificazione primaria, con cui il bambino inizia a costituirsi come soggetto, diviene necessario che la madre divenga anche un oggetto di investimento non-me, lungo un percorso di soggettivazione costantemente impegnato a smarcarsi dalla passività assoggettante all’altro per farsi soggetto attivo del proprio desiderio (Zontini, 2021).
L’oggetto transizionale è il segno di un lavoro psichico divenuto capace di accettare la qualità non-me dell’oggetto e la ferita narcisistica dell’alterità, aprendo la strada verso le attrattive degli oggetti, non annientanti e non solo appaganti ma potenzialmente trasformativi per arricchire ed espandere la vita psichica.
Ma in presenza di rotture del legame primario le potenzialità rischiano di rimanere lettera morta o prendere forme “degenerate” che impediscono l’integrazione psichica.
Nella condizione narcisistica del complesso della madre morta per es., faglia nell’esperienza speculare, Green (1983) mostra sia la scomparsa di capacità vivificanti e simbolizzanti dell’oggetto, sia la qualità desertificata del mondo interno e del tono pulsionale del soggetto. Il ritiro degli investimenti e l’installarsi di un corpo estraneo interno che non si può espellere, rendono conto del carattere melanconico di questa struttura, attestante la colonizzazione di un oggetto-imago, rappresentazione devitalizzata e fissata dall’impossibilità trasformativa delle dinamiche rappresentative che la immobilizzano nel tempo e ne determinano il carattere di elemento percettivo. L’imago, monumento commemorativo di uno sguardo che allude a un altrove irraggiungibile, dispotico nel suo negarsi quanto necessario per vivere, impoverisce la vita psichica nel concentrare gli investimenti su di sé, oltre a condizionare (con le sue predizioni) il destino delle relazioni del soggetto.
Negativismo, abbandono del desiderio, tentativi di circoscrivere i bordi di un abisso che è seduzione al niente, una forza distruttrice in cui il bisogno famelico di una presenza convive con l’odio radicale verso un incontro che dimostra la dipendenza e ricorda alla psiche il suo stato di mancanza, obbligata a desiderare ciò che non è lì, a presentarsi a se stessa come senza potere sul piacere, sulla capacità di soffrire e sull’attesa (Aulagnier, 1975).
L’opposizione all’altro, meccanismo basilare conservativo del narcisismo, può assumere sfumature molto diverse. Può essere un’affermazione esistenziale importante di rifiuto all’intrusione (spettro di antiche colonizzazioni); un escludersi dalla relazione con il mondo in quanto destinatario di un’intenzione e soggetto di godimento, un’astensione che può non negare l’importanza o il piacere delle cose della vita, ma che è strenuamente refrattario a che queste lo riguardino; fino a condizioni dove diviene reale solo ciò che è negativo, senza possibilità di sovrascrivere l’esperienza, in un annientamento del desiderio così radicale da votarsi alla scomparsa dell’Io stesso (Green 1993).
In Disgrace di Coetzee (che nella traduzione italiana porta il titolo Vergogna) un docente universitario di Città del capo, cinquantenne, separato, che vive una vita improntata a uno scarso coinvolgimento, scivola rovinosamente in una china di eventi che scardinano il suo equilibrio. Dall’abbandono della escort con cui risolve il sesso, alla denuncia per stupro da parte di una sua giovane studentessa, quando è convocato davanti alla commissione etica la difesa delle sue convinzioni suona come l’arringa di una strenua opposizione a ogni cambiamento.
Licenziato, si sposta senza particolare progettualità a casa della figlia, che vive occupandosi di cani e coltivando fiori e ortaggi in una periferia rurale dura e primitiva, dove ancora sobbollono tensioni interrazziali. Lo stupro e la feroce aggressione che subiscono lo precipita in una furia impotente, rinnovando la sua spinta alla fuga, in contrasto con la figlia che cerca strade diverse per fare i conti con una realtà cui, nonostante tutto, sente di appartenere. Alla fine deciderà di rimanerle a fianco, nell’abbozzo di una ricomposizione di sé che non può più prescindere da una frattura luttuosa. “Colui che viene per insegnare impara la più bruciante delle realtà” (p. 7).
Con un’essenzialità a tratti abrasiva e la scelta di personaggi ambigui e disturbanti, Coetzee articola molti altri livelli di significato, intorno alla morale borghese e allo scontro generazionale, alle sottili dinamiche di reversibilità di vittime e carnefici, fino ai valori sociali e al revisionismo storico nei solchi profondi e infiammati del dopo Apartheid.
Mi limito a evidenziare il profilo di questo cuore in inverno[1].
Chi è il Lucifero di Byron, l’angelo scagliato giù dal cielo e divenuto figura “errante”? – chiede il protagonista ai suoi studenti del corso di poesia. “Era capace / a volte di rinunciare al suo per l’altrui bene, / non per pietà, non perché sentisse obbligo, / ma per una strana perversione del pensiero, / che lo spronava con segreto orgoglio / a fare ciò che pochi o nessun farebbe; / e questo stesso impulso, nell’ora della tentazione / analogamente istigava l’animo suo al delitto.” Una creatura animata da impulsi la cui fonte gli è oscura, che il poeta non condanna ma anzi invita a comprendere, pur nei limiti della solidarietà possibile “perché anche se vive in mezzo a noi, non è uno di noi.” Così spiega agli alunni le ragioni per cui quel mostro – da considerarsi altro dal consesso umano in quanto “male” – è condannato alla solitudine (ibidem, pp. 35-36).
Con segreto orgoglio, si badi bene.
Quel far fuori condanna anche alla ripetizione acefala, come sappiamo: di un male che semplicemente agisce ciò che lo scatena e un bene che ignora ciò che lo commuove.
Questo non saper di sé, asserito come una eco a ogni affaccio del sentire, caratterizza altri protagonisti di Coetzee. Come il magistrato delle terre di frontiera di Aspettando i barbari (1980), un vedovo ormai prossimo alla pensione e al compiersi di un progetto di vita a obiettivi minimi, anch’egli nello stretto perimetro di un fondamentale distacco dalle intensità disorganizzanti dei legami profondi. Ma dalla cieca sicurezza del dentro le mura, si lascia pian piano coinvolgere nella confusa attrazione per il dolore dei torturati, in un bisogno di contatto con l’altro (e del rispecchiarsi in esso) che sfuma le rassicuranti partizioni con il fuori, fino a tramutarlo da giudice a imputato egli stesso.
“Non ho mai avuto la sensazione di non vivere la mia vita alle mie condizioni, prima d’ora (…). [Adesso] rischio di lasciarmi andare, di essere trascinato pericolosamente lontano dalle parole” (pp. 50-51). Dal poco che le parole sanno dirgli di sé, perché la sua idea razionale di agire secondo un principio di giustizia non lo persuade, intuisce un caos più profondo e buio che lo abita, che il suo forcipe intellettivo non riesce a portare alla luce e a tradurre in pensiero. Come per i reperti che dissotterra nel deserto, tavolette di legno che a volte si disfano – come i sogni – appena estratti dalla sabbia; resti di antiche civiltà su cui sono impressi caratteri sconosciuti, tessere di un puzzle che il protagonista va raccogliendo nell’intento di comprendere quella lingua ignota.
La sua ricerca di cosa lo muove (emozione da emovère) la rappresenta come una rete di significati possibili buttati addosso alle figure che incontra, relazioni dalle caratteristiche sostanzialmente narcisistiche che spera gli dicano di lui. Un portolano, che mappa il territorio del suo essere nel riflesso di un altro scarsamente differenziato che gli si da come effetto nel corpo, come quando i pazienti dicono “questa cosa deve avermi colpito” perché si ritrovano in viso lacrime di cui non conoscono la fonte. Un corpo affetto da confuse impressioni dei sensi, vissuti emozionali, viscerali, sensomotori, impronte affettive dell’impensabile che fa il pensato (Pontalis, 1977).
La simbolizzazione primaria, la tavolozza originaria dell’idioma dell’essere.
L’insieme di rappresentazioni, simboli, affetti e di relazioni tra essi che consentono all’individuo di dire “Io” e vivere un’esperienza soggettiva fondante (Semi, 1997), la tessitura inesausta della funzione significante e protettiva dello psichico: questo è ciò che distingue l’essere soggetto nel senso di agente della propria vita, dall’essere assoggettato – il subjectum, scagliato sotto, come il Lucifero byroniano.
Mancare la presa con un basilare sapere di sé è perdere l’appercezione creativa che attiene al sentirsi reali e che rende la vita degna di essere vissuta, per dirla con Winnicott. Perché non si tratta solo di vivere ma di come si vive.
Queste capacità risultano sempre più carenti nel nostro presente, a diversi livelli.
Nella clinica da tempo si rimarca la diffusione di disturbi caratterizzati da carenze di simbolizzazione, una prevalenza del funzionamento agito sul pensare, scarse capacità di sublimazione, fantasie di onnipotenza non ridimensionate dal principio di realtà; la difficoltà a rappresentare e l’impiego di meccanismi di difesa scissionali e proiettivi, inciampano lo sviluppo dell’Io, che rimane disregolato negli affetti e fatica ad acquisire un senso di responsabilità sulle proprie azioni.
Un Edipo eluso nel suo specifico significato di snodo ubiquitario dello sviluppo, di momento organizzatore del riconoscimento dei limiti e delle differenze, per la tentazione regressiva di rimanere in uno stato di indefinitezza nell’illusione di poter essere tutto, in realtà impedisce una vera crescita. Perché è l’accesso a una configurazione edipica che dischiude ogni vera prospettiva emancipatoria, fondando la continua elaborazione delle fantasie inconsce sulla possibilità di tollerare l’incerto e i cambiamenti, la caducità e i lutti, la natura ambivalente dell’umano, lo scorrere del tempo e la nostra collocazione in esso. Per questa via si struttura la personalità e si orienta il desiderio, si articola il rapporto con gli altri e l’organizzazione del vuoto entro il quale si sviluppano pensiero e processi di conoscenza.
Molti di questi elementi caratterizzano fisiologicamente il funzionamento adolescenziale e il suo travaglio di soggettivazione. Che ne siano permeate la società adulta e i modelli sociali ha portato diversi autori a parlare di adolescentizzazione del pensiero o di società adolescente, intendendo l’adolescenza come un tempo e un modo organizzatore dello psichismo, che con la sua fluidità e la sua grandiosità, è diventata espressione di un funzionamento mentale normotico tipico del presente, con le sue forme serpeggianti di non-integrazione.
Un compromesso d’identità (Rangell, 1973), forme fluide e parcellari, uno splitting il cui carattere di malafede deriva dal fatto che essa viene usata più che subita, nell’intento di sottrarsi alla fatica e al dolore mentale della coerenza e di una piena responsabilità delle proprie parti più scomode e del peso dell’ambivalenza.
Tra queste patologie dell’ideale si ritrovano i tratti della perversione etica (Masciangelo, 1973), dove l’Io viene vessato dall’ideale grandioso e confrontato con una ferita narcisistica che non è in grado di sopportare e per sfuggire la quale sconfessa la verità su un punto specifico. Come Achille: si sacrifica una parte per salvaguardare un’integrità narcisistica dalle connotazioni megalomaniche, pagando il prezzo di un disconoscimento. Quel tallone è il ‘resto’ di una realtà non-onnipotente che si mira a far fuori attraverso una funzione illusoria che slitta nell’impostura.
Configurazioni in cui risuona “la difficoltà a essere” dell’umano, in cui spesso le dipendenze si offrono come sutura narcisistica, nel bisogno di un controllo continuo su oggetti intercambiabili e parassitari che cercano di far fronte in modo concreto ad angosce non negoziabili attraverso il lavoro psichico. Adulti con i quali diventa fondamentale il lavoro di riapertura dei processi di soggettivazione sulle aree che hanno mancato una possibilità di integrazione o di rielaborazione in adolescenza.
In queste nuove forme di disagio chiuse all’interrogazione, dove collassa uno spazio di indagine sui significati, molto è affidato al lavoro di presenza dell’analista, che fatica a guadagnare un’alleanza di lavoro perché in questo registro di disinvestimento il compito stesso della soggettivazione risulta privo di appeal.
L’analista si trova spesso nel basculare irresoluto fra l’idea che questo metabolismo non possa darsi perché il paziente manca degli strumenti necessari, e l’idea che non voglia perché aggrappato a un assetto difensivo che persegue un progetto onnipotente: il segreto orgoglio di una rivincita sulla lesa maestà narcisistica della realtà del vivere, con i suoi scotti di un investire senza garanzie e del banco che vince sempre la posta della mortalità.
Nuovi territori di sfida del negativo, che lottano contro l’impronta dell’oggetto, dove non è raro dover sostare a lungo in uno stato di de-animazione prima di riuscire a risvegliare la parte oggettuale della sofferenza e mobilitare la vita pulsionale alla juissance del gioco rappresentazionale. Perché gli oneri della condanna a investire propria dell’umano sono una prospettiva traumatica per queste talee esangui in fuga dagli imperativi dello statuto desiderante.
E spesso, più di un processo di cambiamento in cui ingaggiarsi, l’aspettativa è di riuscire a disporre di una soluzione magica che salvaguardi illusioni narcisistiche irrinunciabili.
Perché se “dover rappresentare” è sinonimo di “dover esistere” (Aulagnier, 1975), chi manca di un’integrazione ha pochi dubbi sulla scelta fra la turbolenza di un mondo vitale e l’illusione di un piacere al riparo dagli stenti.
Ma i barbari, il nemico, l’altro(ve) del desiderio, premono sempre a ridosso delle mura.
BIBLIOGRAFIA
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SPI: Inconscio/Inconsci, 4-7 febbraio
[1] Il riferimento è al protagonista del film di Claude Sautet Un cuore in inverno (Belgio, 1992).